Nato nel 1957 a Bergamo, Franco Gualdi si avvicinò al mondo delle moto per la passione trasmessa dal padre che correva in sella a Motobi, MV e Devil e così da giovanissimo prese parte alle primissime gare di enduro regionali. La sua biografia racconta di due sole Dakar, una delle quali nemmeno terminata e di una solida carriera nell’enduro.
Si guadagnò l’appellativo “Il tedesco di Bergamo”, per la sua guida impeccabile e per la precisione con cui studiava i percorsi. Come punto di partenza per la sua carriera da professionista, diciottenne, scelse di entrare nel gruppo delle Fiamme Oro dove conobbe Azzalin, anche lui attivo nello stesso corpo, ma con qualche anno in più: quando entrò Gualdi, Azzalin era uno dei “vecchi” che stavano smettendo di correre.
Franco fece le prime gare con la Sachs, dal 1974 al 1978, per poi passare a moto italiane.
Era il 1984 quando si avvicinò alla Cagiva, che lo volle per partecipare alla famosa Baya 1000, in Spagna: il suo compagno di squadra fu Gian Paolo Marinoni, ma con loro c’erano anche Roberto Azzalin e Ostorero. Se questi ultimi affrontarono la gara con come unico obiettivo quello di divertirsi, Gualdi e Marinoni, invece, avevano sete di risultati importanti.
La Baya era una gara con due anelli di 500 Km e il primo che arrivava, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, avrebbe vinto. Ogni 70 Km c’erano punti assistenza di tipologie alterne: uno di rifornimento, l’altro di meccanica.
La gara era a luglio e il percorso non era segnato con il road book. Quell’anno c’era Gaston Rahier, che era un pò il “padrone” del bicilindrico. Gualdi ad un certo punto se lo ritrovò davanti, superandolo su un tratto di strada molto tecnico e più affine ad un endurista come lui, che ad un crossista come il Belga. Poco dopo, con l’esuberanza tipica della sua giovane età, Gualdi arrivò lungo ad una curva e uscì fuori strada: non cadde, ma prese una grossa roccia e la piastra superiore della forcella si spezzo. Ma Gualdi non si arrese: prese una cinghia, la usò per legare la piastra al canotto di sterzo e riparti. Lui e il suo compagno arrivarono in fondo staccando un ottavo posto assoluto, alle spalle dei loro rivali in BMW.
La sua prima partecipazione alla Dakar è datata 1987: Auriol e De Petri erano i piloti di punta, mentre Franco e Picard erano i loro gregari. In una tappa, la moto di Gualdi era come morta: pista larghissima, di 2 km e tutti i piloti passavano l’uno lontano dall’altro. Rimase fermo, con la paura che l’assistenza non lo vedesse.
Lasciò la moto a terra e posizionò la giacca a 300 metri, in modo da farsi notare senza rischiare la vita. Inizio a smontare la moto ma senza trovarne il guasto, finche verso sera arrivò il camion assistenza e caricarono la lui e la moto. Arrivarono al campo alle 2 di notte, a pochi km dall’arrivo. Gualdi, nascosto nel camion in mezzo alla moto e alle gomme, attraversò così il traguardo.
Scaricarono poi la moto e fecero un intervento di cambio motore. Alle 5 del mattino, prese la sua Cagiva, tornò indietro da una pista esterna, riagganciandosi così alla principale e tagliò il traguardo. Ormai era tardi e mancava solo un’ora alla partenza della nuova tappa, così bevve in fretta un sorso d’acqua, si diede una sciacquata e riparti subito per la tappa successiva. In generale, quella fu un’edizione sfortunata per Gualdi: bastava un’inezia e la sua moto era ferma e in più, la Cagiva era davvero impegnativa. Aveva il baricentro molto alto e il peso e la velocità non perdonavano: nel caso di cadute, risollevarla era una fatica, anche per i fisici più allenati.
Partita male, la gara non poté che proseguire peggio. A pochi km dall’inizio, trovò il collega Ciro con il cambio rotto: si fermò e gli diede una mano a sistemare la moto. Rimontarono per errore i due serbatoi scambiati e – proprio prima che se ne accorgessero e li invertissero-qualcuno passò e scattò una foto. Quell’anno passò agli annali per la loro squalifica, che arrivò subito dopo questo fatto e proprio a causa di quello scatto, dove si vedeva chiaramente una moto con il numero 99 sul frontalino e il numero 97 sui laterali, che venne usato come prova a dimostrazione di uno scambio di moto che non poté mai essere concretamente provato.
Fu una sorta di punizione divina: il team Cagiva non era propriamente un esempio di ligio rispetto dei regolamenti, ma non veniva quasi mai punito per mancanza di prove. Quella volta, invece, i protagonisti giurarono di non aver fatto nulla di scorretto, ma vennero penalizzati sulla base di una foto che non dimostrava nulla. Non ci fu comunque possibilità di appello, dal momento che la squalifica non arrivò subito dopo la gara, né il giorno seguente, che era di riposo, ma alle sette del mattino del giorno dopo ancora, poco prima che iniziasse la tappa.
Azzalin non poté fare altro che prendere atto della squalifica e De Petri e Gualdi rimasero fermi, con la minaccia che, se avessero provato a percorrere anche un solo chilometro, sarebbero stati squalificati per “assistenza indebita” anche i due compagni di squadra ancora in gara. Visto che Auriol era in testa, non valeva la pena rischiare, così i due gregari ripartirono per l’Italia e il giorno seguente, si ritrovarono in prima pagina sull’Equipe per una furbata che non avevano mai compiuto, e che, ovviamente, non avrebbero mai ammesso. Nel 1987 Gualdi si dedicò alla Proto: ci salì, la guidò, la sviluppò e la rese affidabile. Fece un ottimo lavoro sui carburatori, assieme a Franco Farnè: uno addirittura lo bucarono per capire il livello della benzina.
Farnè recuperava la benzina in esubero dal carburatore e la rimetteva nel serbatoio con un tubicino. Alla fine prepararono circa 20 carburatori: il Weber era il top, davvero micidiale appena si spalancava la manetta del gas. Provò poi le forcelle in Tunisia, assieme a Ciro, nella terra di nessuno, mentre a Savona e sulla scarsamente trafficata Gravellona Toce, fece i con i test delle mousse della Michelin. Gualdi andava a chiodo, ai 100 Km/h, poi tornava indietro e i tecnici testavano le gomme. Il problema, che rimase irrisolto anche durante la Dakar, era che a 170 / 175 Km/h si staccavano i tacchetti della ruota.
Mentre provava, Gualdi dovette fare un’ inversione ad U: la moto si spense e pareva non voler più a ripartire. Arrivò la polizia stradale e lo trovò lì, in mezzo alla strada, con un bolide senza nemmeno la targa. La fortuna di Franco fu di essere un collega delle Fiamme Oro: un saluto veloce ed era già diventato il loro idolo. Gli diedero addirittura una spinta e così riuscì a riavviare la moto. Cose che allora si facevano tranquillamente, ma oggi sarebbero impensabili… Nel 1988, si ritrovò quasi senza rendersene conto alla Dakar: partito da gregario di De Petri, fu l’unico dei piloti della Cagiva a concludere la gara. Era alla sua seconda partecipazione, come sempre faceva assistenza e non si illudeva di fare grandi risultati.
Ciro avrebbe sicuramente potuto vincere qualche Dakar, se non avesse sempre voluto superare il limite: pur sapendo che a più di 170 Km/h le gomme si strappavano, lui non rallentava mai e così le squarciava. Toccava poi a Franco recuperarlo, in pieno Sahara: certo, anche a lui sarebbe piaciuto andare più veloce, magari nella speranza di recuperare 15 minuti, perché quel deserto sembrava asfalto, ma invece andava a 150 Km/h in sicurezza. Tanto sapeva che poi avrebbe trovato De Petri con le gomme scoppiate: lui si fermava e gli dava la sua gomma e, con questo giochetto, Ciro manteneva una buona posizione in classifica, mentre lui scivolava sempre più indietro.
Una volta incontrò Ciro che aveva un diavolo per capello, andava a 90 Km/h e imprecava contro se stesso e la sua moto: il motore andava a uno, e passandogli vicino, Gualdi si accorse subito che aveva la pipetta della candela staccata. Non fece in tempo di segnalargli il guasto, che non lo vide più, perché era partito a fuoco: 50 Km con un solo cilindro e poi gli diede paga. Ciro era così: da alcuni punti di vista davvero incorreggibile. Il team Cagiva era rispettato e temuto: De Petri alla fine si ritirò e Azzalin chiamò Franco e gli disse di fargli vedere di cosa era capace. Era a cinque ore dal primo e voleva quantomeno arrivare a fine gara con lo stesso distacco, senza però fare il matto per recuperare il tempo perso.
Azzalin gli diceva di attaccare e lui cercava di fare del suo meglio, ma senza strafare: alla fine arrivò sesto. Era davvero soddisfatto del risultato: a conti fatti, se non ci fossero state tutte quelle soste per aiutare gli altri, probabilmente avrebbe potuto raggiungere un risultato ancora più importante. Franco teneva un diario durante la Dakar, in entrambe le edizioni: quando alla sera arrivava al campo, scriveva qualche riga. A fine gara, lo riponeva ed oggi ammette che furono proprio quegli scritti a indurlo a non partecipare più a quella gara, meravigliosamente maledetta.
Conservò dei ricordi stupendi, ma su quei diari scrisse parecchie cose che nessuno ancora sa: un giorno, magari, li tirerà fuori e li renderà pubblici. Gualdi fu sempre molto saggio e non lasciò mai nulla al caso: se per cambiare la gomma servivano tre leve, lui cercava di averne quattro piuttosto che due; se la moto aveva un limite, sapeva che era meglio non stuzzicarla; se il cambio era delicato, era decisamente consigliabile guidare con attenzione; evitava di superare nella polvere, per non rischiare di prendere un sasso che non avrebbe potuto vedere.
La sua filosofia era: “Tirare i remi in barca e portare a casa il risultato.” Certo, questo approccio, alle volte lo frenò dal raggiungere successi più importanti, ma lo portò sempre in fondo ed oggi, tutto sommato, lui è contento così. Stare nel Team con Cagiva fu un’esperienza indimenticabile: in ogni situazione, si faceva il possibile e anche l’impossibile. Arrivare al bivacco era già un buon risultato per Gualdi e da quel momento, iniziava il lavoro dei meccanici. Probabilmente, poi, rischiavano più loro dei piloti, facendo i trasferimenti con quegli aerei poco probabili!
Anche con Azzalin, Gualdi aveva un bel rapporto: addirittura alla prima Dakar era previsto che dormissero in tenda insieme, ma durò solo una notte, perché Roberto russava a tal punto da non far chiudere occhio al pilota e svegliando perfino se stesso di soprassalto. Dopo quella prima sera, Azzalin andò a dormire sotto il camion per permettere a Franco di riposare. Forte di tutte le esperienze che condivisero, l’amicizia fra loro si rinsaldò: oggi, guardando indietro, per Gualdi la Cagiva era incarnata in Roberto Azzalin. Conobbe ovviamente anche Claudio Castiglioni, ma non entrò mai nel suo mondo e il loro rapporto rimase sempre formale e legato a pure questioni di lavoro.
Lo stipendio di Gualdi era dato in parte anche dal suo ruolo di collaudatore: col passare degli anni, non era più all’apice della carriera come endurista e, cavandosela bene come meccanico, portò avanti lo sviluppo di moto e di motori che poi divennero di serie e di un 750 monocilindrico che non venne mai realizzato. Aveva una buona sensibilità e gli piaceva provare fino ad ottenere un risultato finale soddisfacente, come fece con le forcelle Marzocchi o con un motore da 45 cavalli che riuscì a portare a 50. I meccanici erano a sua completa disposizione, qualunque cosa dicesse o chiedesse. Fece però un lavoro relativamente breve: trasmise quello che poteva ma tutti i test venivano fatti con Ciro De Petri: era lui l’uomo di punta e la moto veniva fatta in base alle sue esigenze. Gualdi doveva testare quello che Ciro voleva: gli chiesero di sistemare alcune cose, ma alla fine era De Petri che decideva.
L’arrivo di Orioli fu determinante per la crescita delle Cagiva: si partì da un motore Ducati, lo si portò al massimo della potenza e si lavorò sull’affidabilità. Sulla moto del 1987 sarebbe bastato un 750, anziché un 850, ma con lo sviluppo non si poteva tornare indietro, e con quella moto Ciro vinse tanto. E se nel 1990 si arrivò a vincere, fu certamente anche grazie al grande lavoro fatto in termini di crescita e sviluppo. A quel tempo i francesi erano i big, mentre gli italiani non erano ancora pronti per vincere una Dakar. De Petri era il migliore dei nostri, tuttavia chiunque era consapevole che il pilota da battere non era lui, ma i francesi, come Auriol.
Quando Gualdi ebbe occasione di averlo come compagno di squadra, ne approfittò per rubargli qualche segreto e la sua guida migliorò sensibilmente. Hubert si rivelò un uomo serio, più attento e preciso che veloce. Però era un “francese”: di lui, come di tutti i suoi connazionali, Gualdi imparò a non fidarsi mai troppo, perché i cugini d’oltralpe sono un pò gelosi della Dakar. La ritengono una gara loro. Gli italiani invece erano tutti un pò particolari: buoni e scaramantici, pieni di rituali, come quello di De Petri che tutte le sere si faceva preparare l’acqua calda da Forchini, il suo uomo di fiducia, per lavarsi la testa.
Gualdi affrontò anche molte altre competizioni, come il rally del Titano, però la Dakar rimase sempre una gara unica: tutti gli altri passarono in secondo piano. Da un’edizione si portò a casa tutti i road book con l’intenzione di rifarla da turista, con calma, facendo le tappe non in 5 ore ma in 12, guardando i posti meravigliosi che non riuscì a vedere da pilota. Non lo fece mai. Da pilota non c’era tempo di pensare troppo, rifletteva solo alla sera, una volta raggiunto il traguardo. Una volta Franco finì in un paesino sperduto, dove tutti erano nudi e lo guardavano come un alieno. Le donne e i bambini si rifugiarono nelle case e rimase solo un uomo che capiva il francese: Gualdi non era il primo straniero che vedevano; cercò di farsi dare delle indicazioni e poi se ne andò.
Si ripromise che ci sarebbe ritornato, ma non lo fece mai. La gara comportava dei rischi, ovvio, ma era anche gioia e divertimento, e la parte pericolosa era sempre minore rispetto a tutte le situazioni positive e indimenticabili. Ancora oggi, molte volte Gualdi si chiede perché correva e si risponde che non era per l’adrenalina e la voglia di rischiare. ll rischio c’era, ne era consapevole e faceva parte del gioco, ma non lo cercava per forza. Era consapevole che ogni volta che partiva avrebbe potuto essere l’ultima, ma non si divertiva a sfidare la morte per il gusto di farlo.
Partiva e basta. La Dakar non era certo la situazione più sicura del mondo: non si dormiva, non si mangiava, si soffriva… ma si conoscevano le persone per quello che erano, senza maschere. E poi, quando si tornava, ci si ritrovava con il “mal d’Africa”. Solo chi ha vissuto esperienze come quelle può comprenderlo e Gualdi lo conosce ormai benissimo: il senso di malinconia e nostalgia per quei luoghi lo accompagnerà per tutta la vita.