DAKAR 1989 | Girardi e il favore inaspettato

Testo di Nicolò Bertaccini

La Paris-Dakar, quella che tutti abbiamo amato e che ancora amiamo, non smette mai di restituirci racconti. La passione di ognuno permette di tener vivi i ricordi e ogni tanto fa riaffiorare un ricordo, un aneddoto. Questo viene dalla Spagna e ci viene riportato da Joan Marti Utset, un amico del nostro sito, che ringraziamo per la condivisione. Come tutti i racconti che risalgono ad oltre trent’anni fa non tutti i punti sono chiari, non tutti i ricordi sono nitidi. Però gli elementi sono sufficienti per ricostruire la storia.

Siamo nel 1989, undicesima Dakar. Joan è al seguito della carovana in un team che accompagna un gruppo di giornalisti. Stanno seguendo la gara, la documentano, la raccontano. Ad un certo punto, siamo all’ottava tappa, poco prima della metà della gara, la Termit – Agadez, vedono una moto a terra. Si fermano e vedono il pilota tramortito: ha subito una botta alla testa e non è presente a se stesso. Con lui c’è uno dei compagni di squadra. Il pilota a terra a Alessandro Girardi, pilota del team Assomoto in sella ad una Honda XR600.

 

Girardi 1989

 

Il suo compagno di avventura, di conseguenza, deve essere uno fra Canella, Pollini o Viziale. Il compagno si assicura che Joan e gli altri prestino il dovuto soccorso e gli raccomanda di caricare la moto, dopodiché parte. Nel gruppo di giornalisti c’è anche un medico, cosa abbastanza frequente allora. Si rende conto che Girardi non è in condizione e lo carica in auto. Qui comincia la cosa incredibile.

Joan prende la moto di Girardi e, nonostante il manubrio storto e qualche altra ammaccautra, la porta fino al bivacco di Agadez, tappa fissa della gara di Sabine. Appena arriva cerca il team cui consegnare la moto e poi si ricongiunge ai suoi. Il suo compiuto è terminato, può rientrare in Spagna. C’è un particolare. Quando arriva ad Agadez, all’arrivo di tappa, l’organizzazione gli chiede la carta di controllo.

Joan dice di averla persa e la direzione gara, all’epoca ancora molto flessibile, si annota il numero di tabella della moto, numero 17.

Joan torna a casa, attraversa l’Algeria e arriva a Barcellona. Ovviamente continua a seguire la corsa, raccoglie informazioni ed immagini come può, come tutti noi che eravamo a casa. Ci sono però le immagini dell’arrivo, gli ultimi km e la festa. Joan è davanti al suo televisore e qualcosa attira il suo sguardo: una tabella numero 17. Girardi ha ripreso la moto ed è arrivato sul Lago Rosa, alla fine della corsa. Probabilmente il giorno di riposo ad Agadez gli ha permesso di rimettersi in sesto e di continuare la sua avventura nel deserto.

Non sappiamo come arrivare a Girardi, però ci facciamo portatori del messaggio di Joan che a distanza di oltre trent’anni vuole complimentarsi con lui e raccontargli del suo piccolo aiuto.

Ndr: Alessandro Girardi è classificato in 42* posizione alla Dakar 1989, unica volta sul Lago Rosa in 3 partecipazioni.

DAKAR 1989 | Il diario di Aldo Winkler

La decisione di partecipare alla Dakar andava presa entro giugno. Presa la decisione c’era il tempo sufficiente per organizzarsi e prepararsi, a 360 gradi e anche oltre. Io ero reduce dall’edizione 1988 in sella ad una Honda ufficiale monocilindrica. Honda era campione in carica, grazie al trionfo di Orioli con il bicilindrico. I rapporti fra Honda ed il team di Ormeni che si occupava di gestire il team italiano si erano rotti. Così ricevetti da Honda Italia il diktat di non restituire la moto con cui avevo partecipato ad Ormeni.
Quando prendo la decisione di partire la moto è ancora nel mio garage. Penso che sarebbe un ottimo punto di partenza poter contare su di lei e mi azzardo a chiedere al dottor Manicardi, presidente di Honda Italia, il permesso di riportare la moto sulle piste africane. Lui non solo acconsente ma mi dice di prendere anche le moto utilizzate da Kasmakers ed Everts (il papà) per poterci ricavare un set di ricambi


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Non mi pareva vero. Certo, le moto e le varie componenti avevano un passato tribolato alel spalle, erano tutte segnate da partecipazioni alla Dakar, quindi ci ricavai molto poco (un motore e…mezzo). Però smontare e rimontare pezzi con sopra i nomi di Orioli, De Petri, Balestrieri, Terruzzi, Everts e Kasmakers è stato forte. Mi sentivo un po’ come il dottor Frankenstein del romanzo di Mary Shelley.

Non riuscii ad inserirmi in nessun team e partecipai quindi da privato e in solitaria. Ingaggiai Mario Barbiero come meccanico aviotrasportato e approntai 3 casse di ricambi che caricai su 3 camion diversi, per precauzione. L’edizione precedente ero giunto 19° sul Lago Rosa con il rammarico di una penalità di tre ore per un salto di controllo orario in Francia. Nutrivo la segreta ambizione di poter entrare nei dieci. Onestamente però, l’obiettivo primario era quello di arrivare in fondo.

I mille preparativi fanno volare i mesi, si fa il tempo di partire molto velocemente.

La gara è subito segnata da un incidente mortale: un pilota Giapponese muore durante il trasferimento in Francia centrato da un ubriaco. Gli incidenti e anche la morte sono elementi con cui indubbiamente sai di dover fare i conti quando partecipi a certi eventi, però quando poi accadono colpiscono nel profondo fino a minare la voglia di proseguire. In Tunisia ho saltato un timbro, come accaduto l’anno precedente in Francia, ma me ne sono accorto e sono tornato indietro, perdendo però parecchio tempo.

Nella tappa che arrivava a Tumu (Libia) mi ero fermato su un pianoro di sabbia, assieme ad alcuni altri piloti che come me si erano persi. Mentre cercavamo di capire la giusta direzione miwinker11-1989 rendo conto che un altro pilota, Francese, anche lui senza più la giusta rotta, mi sta puntando. E’ girato di lato, distratto nel cercare la giusta via e non mi vede. Da qui cominciano i miei guai! Fortuna vuole che nessuno si sia fatto male, ma il retro della mia moto si è piegato e i serbatoi posteriori toccano la ruota. Ci mettiamo in tre sulla moto per far leva a provare a raddrizzarla quel tanti per consentirmi di concludere la tappa. L’arrivo a Tumu aveva due caratteristiche: era la sera del 31 dicembre, non era previsto il supporto degli aviotrasportati. Quindi, mentre tutti festeggiavano il Capodanno con un cenone luculliano e tanto di fuochi d’ artificio, io sono stato costretto a lavorare per risistemare la moto con il crick preso in prestito da un concorrente in auto.

Dirkou – Termit: Niger. Tappa di puro deserto con tantissime dune difficili da interpretare. Faccio buona parte assieme a Boano che arrancava tantissimo con il suo Africa Twin. Termit è un posto sperduto nel cuore del Niger, con solo un rudere di casa. L’Africatours (I’organizzazione che si occupa del catering), non c’è, quindi non troviamo nulla da mangiare. Ci danno bottiglie d’acqua e razioni di sopravvivenza. Assieme ad alcuni altri motociclisti siamo andati da un gruppetto di locali dai quali siamo riusciti ad acquistare un pollo. Se chiudo gli occhi ne sento ancora il sapore, uno dei piatti migliori che abbia mai mangiato, meglio di qualsiasi piatto di un ristorante con stelle Michelin. L’organizzazione ci comunica anche che la tappa Dirkou del giorno precedente è stata tagliata fino al punto del primo timbro. A quel punto la classifrica dice 14°. Si riaccendono le mie segrete speranze di chiudere fra i topten.

Termit -Agades: Sin dai primissimi km la moto non è a posto ed iniziano i miei guai. Ancora oggi non ho capito cosa non funzionasse: probabilmente benzina sporca. Ad ogni modo sono stato costretto a fermarmi più volte per pulire il carburatore. Per accedere al carburatore dovevo però smontare il serbatoio ogni volta. Ad un certo punto, durante una di queste soste in pieno Ténéré, dal nulla sono sbucati due ragazzini sui 15 anni. Non gli preso molta attenzione perché sono preso dalla mia pulizia quando improvvisamente mi rubano il casco e la borraccia a forma di marsupio. Li inseguo, raggiungo quello con il casco, me lo riprendo e lui scappa via. Finisco di montare la moto e riparto. Faccio nuovamente una decina di km, dopodiché la moto si ferma di nuovo. Questa volta il problema è che il pezzo di ottone che tiene il getto del massimo è caduto giù dal corpo del carburatore. Un disastro! Non ho mai capito se si è rotto per lo stress subito dal materiale o perché a forza di avvitare e svitare il getto si è danneggiato. Ad ogni modo sono esausto e frustrato. Spero che arrivi un camion in gara e che mi carichi la moto così magari arrivo ad Agades. Molti piloti hanno avuto questa fortuna. Scende la notte e mi capita di notare in lontananza i fari dei mezzi, purtroppo tutti molto distanti.

 

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Al mattino passa un aereo, mi vede e mi lancia un messaggio: “non ti muovere, il camion scopa passerà. Sei sulla pista. Scrivi tuo numero sulla sabbia. Coraggio!”
In quel preciso momento mi è stato detto che è iniziata la mia (dis)avventura. Infatti, la persona a bordo dell’aereo che mi aveva visto invece di segnalare “localizzato” ha scritto “recuperato”. Ignaro di tutto ciò, mi metto con pazienza e fiducia ad aspettare.
In quei momenti non sai mai da dove arriveranno le risorse per farcela. Avevo letto un libro in cui un tuareg era sopravvissuto mettendosi una pietra in bocca e diventando lui stesso una pietra con la sola forza della mente. Ho cercato di imitarlo. Avevo però parecchia sete anche perché le continue operazioni sulla moto mi avevano consumato. Passa anche la seconda notte che nessun camion compaia all’orizzonte. Questa volta, però, riesco a dormire e mi ricordo di aver fatto tantissimi sogni con tante forme di acqua (vasche, fontane, docce…).winker18-1989

Al mattino mi risveglio con un profondo senso di angoscia, dato da due fattori: in primis la consapevolezza di essere fuori gara, in quanto gli altri erano già ripartiti; in secondo luogo mi assale un dubbio “perché non sono ancora arrivati quelli del camion scopa? Ma arriveranno?”.
In questo stato di angoscia passo tutta la mattina e penso ai due ragazzi con cui avevo avuto quel diverbio. “Sicuramente, se torno indietro troverò qualcuno”, pensai. A questo punto dovevo prendere una decisione importantissima: tornare indietro alla ricerca di qualcuno, con tutte le insicurezze di trovarli veramente, stare lì e magari nessuno sarebbe più arrivato. D’altra parte, se mentre gironzolavo come uno stupido nel deserto fosse arrivato il camion scopa dove mi aveva localizzato l’ aereo, non avrebbe trovavano nessuno e se ne sarebbe andato via.

La mai testa era affollata di tutti questi pensieri. Forse questo è stato il momento interiormente più drammatico di tutta la vicenda. Alla fine decido di partire anche perché temevo che il giorno dopo non avrei avuto più la forza di camminare. Prima di partire, faccio il testamento con un messaggio per Paola attraverso il quale provo a trasmetterle il mio amore. Parto a metà pomeriggio con molta titubanza e torno indietro sulle mie tracce, cammino e cammino. Ad ogni passo mi sentivo sempre più debole ma passo dopo passo proseguivo, ormai il corpo non rispondeva ai segnali di fatica che gli trasmetteva la testa, andavo avanti, quasi per inerzia, sarei potuto morire mentre camminavo. Ormai era notte e non vedevo più nessuna traccia, in un momento di lucidità mi salì ancora più angoscia. All’improvviso mi parve di vedere in lontananza una lucina. Sembrava vicina ma per raggiungerla a piedi mi ci volle un’infinità.

Mi faceva andare avanti la consapevolezza che cresceva avvicinandomi: qualcosa, laggiù, c’era. Questa nuova speranza mi rasserenava, più mi avvicinavo, più mi tranquillizzavo. La lucina che avevo visto nel mezzo della notte desertica era un fuoco attorno al quale si scaldava una famigliola composta da due genitori e sei bambini. Mi accolgono con molta premura, probabilmente rendendosi conto dello stato in cui ero. La prima cosa che chiedo è “l’eau”, loro invece mi hanno offerto una brocca di latte cagliato talmente denso che faticavo ad ingerirlo, nonostante la sete. Subito dopo per fortuna mi hanno offerto anche il loro mitico thè. Senza dubbio la cosa più buona che abbia mai bevuto, solo che i bicchierini erano piccolissimi e nonostante continuassero a darmeli, continuavo ad aver sete. Il “trattamento” dava i suoi primi frutti, il mio fisico si era ripreso.

 

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Con loro era difficile comunicare riuscivamo gesticolando e con un po’ di francese che mi pareva potessero comprendere. II capo famiglia parlava tantissimo ma io non capivo molto. Abbiamo comunque iniziato a dialogare. Ho cercato di fargli capire cosa mi era successo, spiegandogli che la mia moto si era rotta e che avevo anche necessità di essere accompagnato al “Gudron”, ovvero una strada asfaltata. Lui mi fa capire che occorrono cinque giorni per arrivarci con il cammello, e che sarebbe disposto a portarmi. Dopodiché, come un sasso, mi sono addormentato. A parte la moglie ed il figlio piccolo gli altri dormono rannicchiati all’aperto, fuori dalla capannina. lo mi infilo nel mio fido sacco a pelo e mi addormento. Al mattino come prima cosa li vedo alzarsi, rivolgersi verso la Mecca e pregare.

Tutta l’alimentazione della famiglia consisteva esclusivamente in tè, latte che mungevano dalle pecore e un pastone di miglio. II latte al mattino era buonissimo, fresco e appena munto, al contrario della sera. Sempre al mattino vedo la mamma che preoccupata per il bambino piccolo che piangeva sempre. Mi faceva dei cenni sulla testa del bambino. Decido così di offrirgli un’aspirina. Ingerita l’aspirina, mi sono reso conto della leggerezza commessa, non avevo pensato che magari potesse avere reazioni allergiche. Fortunatamente, dopo 10 minuti di urla forsennate in cui sono stato anch’io malissimo, si è calmato e come per miracolo si è addormentato. Immagino che bomba potesse essere stata per un bambino di 6 o 7 mesi cresciuto in quell’ambiente. Da quel momento la mamma cominciò a prendermi in considerazione rivolgendomi la parola. Probabilmente ero entrato nelle sue grazie. Durante le giornate che ho passato insieme a loro, nonostante fossi in mezzo al Ténéré, uno dei deserti più aridi del mondo, rimasi colpito da quanta gente ci fosse: praticamente ogni due o tre ore qualcuno passava di lì, chi faceva solo un cenno di saluto, e chi, per la maggior parte, si fermava a fare una sosta di saluto.

 

tuareg

 

Era come una specie di rito e io ho notato che il “mio Tuareg” raccontava con fierezza la mia presenza e il passaggio della Dakar qualche giorno prima. Era incredibile vedere quest’uomo così appassionato nel raccontare, immagino, sempre la stessa storia, a tutti questi passanti. La vita era molto semplice: la donna schiacciava il miglio; l’uomo costruiva corde con l’erba e comandava a i suoi ragazzi di tenere nelle vicinanze tutti i cammelli che erano legati per le due zampe anteriori. Mi spiegò che la sua occupazione era quella di allevare i cammelli, farli crescere e una volta all’anno andava a vendere quelli grandi, e ne comprava altri piccoli.

Sempre durante il periodo passato insieme riuscii a risultare anche utile. Mentre preparavamo l’acqua per il viaggio, vedo che per trasportarla utilizzava due grosse camere d’aria di camion ormai molto vecchie e piene di buchi. I fori erano tappati con dello spago. A quel punto, avendo con me la trousse per riparare le forature, mi offrii di riparargliele. Come per l’episodio dell’Aspirina, anche questo mio intervento mi mise in ottima luce ai loro occhi. Ormai il nostro gesticolare si era affinato e riuscii anche a spiegargli che mi era stata rubata la borraccia. Questo lo scosse, si era convinto mi avessero derubato quando già non ero più in forza. Il mio racconto l’aveva completamente trasformato: era agitatissimo, nervoso. Si è legato un coltello alla spalla e si è allacciato la spada alla cintura. Poi mi ha fatto capire che dovevamo andare.

Ero molto preoccupato di infilarmi in qualcosa di pericoloso, il suo atteggiamento non prometteva nulla di buono. Per prendere tempo gli feci capire che non ero in grado di camminare perché ero stanchissimo. Nulla, sempre più deciso e fermo, prese un cammello lo sellò e mi spinse sopra. Dopo due passi la corda che teneva la sella si ruppe e come un sacco di patate caddi tagliandomi il palmo della mano. Sanguinavo e lo supplicai di fermarsi. Nulla! Sembrava che se non mi avesse portato dove voleva avrebbe perso la faccia, I’onore. Non c’era nulla che l’avrebbe potuto far desistere. Dopo un’ora di cammino, arrivammo presso un raggruppamento di capanne (come quella del mio Tuareg), con almeno 4 gruppi di famiglie.

218023_1035085411577_8413_nIo ero preoccupato, non tirava una grand’aria. Il Tuareg mi mise in disparte e si unì a quello che sembrava il capo. Arrivò un ragazzo che stese un tappeto al suolo e tutti, io compreso, ci sedemmo in cerchio a 10 metri di distanza. Seduti uno di fronte all’altro, i due personaggi si misero a discutere tra loro con animosità. Non so quanto tempo durò questa discussione, a me sembrò un’eternità. Ad un certo punto uno dei due alzò un braccio e un altro ragazzino corse verso di lui, porgendogli la famosa borraccia (cercai di vedere se riconoscevo i ragazzi del primo incontro, ma non c’erano, il tutto rimase per me un mistero).

Quando l’altro capo famiglia consegnò la borraccia al mio Tuareg, l’atmosfera si rasserenò e improvvisamente si calmò. Dopo i saluti, il mio Tuareg venne verso di me gonfio di fierezza e mi porse la borraccia, soddisfatto. Ovviamente lo ringraziai e salutammo tutto il gruppo di persone lì presenti e tornammo presso la sua capanna. Finalmente arrivammo e di fronte all’ennesimo tè, ripresi l’argomento: avevo necessità che mi portasse all’asfalto. Così mi promise che l’indomani mattina saremmo partiti. A questo punto riuscii per la prima volta a dormire sereno. Al mattino ovviamente avevo molta fretta, ma la proverbiale lentezza adesso si stava esprimendo al massimo. Sembrava che non volesse partire e me lo faceva capire con tantissime scuse, almeno così io le interpretavo. Credetti anche che volesse avere un compenso. Dopo che ebbi insistito per un bel po’, mi fece dei segni portandosi il dito all’orecchio.
Nel frattempo l’aereo dell’organizzazione mi stava cercando con il metodo a scacchiera (così mi fu riferito). Dopo un paio d’ore sentii anch’io il rumore dell’aereo e tutto eccitato tirai fuori i razzi che avevo con me in dotazione di sicurezza e cominciai a usarli. L’aereo mi vide, così si avvicinò lanciandomi un altro messaggio insieme a una razione di sicurezza. Il messaggio diceva: “L’elicottero ti verrà a prendere fra un’ora e mezza. Coraggio!” e si allontanò. Offrii a tutta la famiglia il contenuto della razione di sopravvivenza in cui vi erano dei dolci, delle noccioline, un succo di frutta e parecchie porzioni energetiche, certo che avrebbero gradito. Invece, la rifiutarono. Non capii mai il perché ma ci rimasi male.

Decisi di dargli ugualmente i soldi che gli avevo promesso. Però non conosceva il valore del Franco francese. Sono sicuro che quando ha portato i soldi a cambiare ha avuto una bellissima sorpresa. Gli spiegai che presto sarei andato via con le persone che mi sarebbero venute a prendere, e qui cominciò una lunga discussione, perché lui insisteva che voleva portarmi a tutti i costi all’asfalto di persona. Anche qui, un po’ per la difficoltà di comunicazione, un po’ perché insisteva, non riuscii a fargli capire che non era necessario e che dovevo andare via con gli altri. Questa discussione continuò finche non arrivò l’elicottero. Il saluto mi dispiacque perché dovetti quasi scappare a causa delle sue insistenze. Ho in mente la scena in cui lui mi trattiene per i vestiti e io quasi con forza mi mi svincolo per raggiungere l’elicottero.

 

elicottero

 

Avrei veramente voluto dargli un abbraccio, ringraziarlo dandogli la mano e rendere onore al grande uomo che era, salutarlo così mi lasciò l’amaro in bocca. L’elicottero partì e guardai quelle persone che mi salutavano, sentivo un po’ di tristezza nel lasciarti. Dall’alto vidi anche la mia moto e anche qui provai un sentimento di tristezza. Era strano: avrei dovuto essere felice, finalmente in salvo ma ero quasi malinconico.

Arrivammo ad Agades, e qui alcuni membri dell’organizzazione mi sottoposero ad un controllo fisico. Quindi mi imbarcarono su un aereo in direzione Niamey, dove la gara stava arrivando a fine tappa. Tutti i miei amici mi fecero grandi feste e subito riuscii anche a fare il primo pasto serio dopo tanto tempo. Riuscii anche a telefonare a casa a Paola, rassicurandola che tutto era a posto e che stavo bene. Voglio approfittare di questa occasione per ringraziare Beppe Gualini e Andrea Balestrieri e molti altri piloti, perché insistettero molto spiegando e insistendo con l’organizzazione affinché venissero a cercarmi, dato che ero ancora in mezzo al deserto. Se non fosse stato per loro sicuramente nessuno sarebbe venuto a prendermi. La Dakar intanto il giorno successivo partì e da Niamey, insieme a Bebbe Gualini, ci organizzammo per prendere il primo aereo per Parigi.

Al mio ritorno mi accolsero con tante feste tutti i miei amici. Personalmente, avrei preferito essere festeggiato per un bel risultato. Avvisai l’Honda Italia del fatto che la moto era dispersa nel deserto e che in ogni caso mi sentivo in dovere di recuperarla. Mi fu risposto che la moto ormai era persa e che non dovevo recuperarla, a quel punto gli chiesi di poterlo fare ugualmente e di tenermi la moto. Nella stessa tappa Picard, pilota ufficiale Cagiva, si ritirò. Contattai quindi Azzalin, responsabile del reparto corse, per poter fare il recupero insieme. Mi diede il numero di telefono di Manu Daiak il quale era stato amico fraterno di Thierry Sabine e che era una potenza ad Agades. Fu molto disponibile e mi promise che col camion che andava a prendere la Cagiva sarebbe andato a prendere anche la mia e che I’ avrebbe anche spedita a Marsiglia. Manu Daiak morì qualche anno dopo in un misterioso incidente aereo. Alcune voci dicono che fu un attentato, conseguenza del suo ruolo nella ribellione dei Tuareg di cui si diceva fosse il capo.

Objectif Dakar, 50 Africa Twin per la Dakar 1989

“Far soffrire chi parte e far sognare chi resta” era il motto della Parigi-Dakar di Thierry Sabine, morto il 14 gennaio 1986. Due anni dopo, in occasione dell’uscita dell’Africa Twin, Honda France ha offerto a 50 di “quelli che restano di solito” di partecipare anche alla Dakar 1989.

Nel 1988, Hervé Guio, il capo di Honda France, aveva già battezzato il nuovo XRV 650 RD 03 con il brillante nome commerciale di Africa Twin (lo farà ancora con i nomi di battesimo del Transalp e del Dominator). François Charliat era allora responsabile della pubblicità e della promozione della rete. Nel suo tempo libero, all’inizio di gennaio, è stato anche un portatore d’acqua per i top rider ufficiali dell’HRC. Dopo la Dakar del 1988, che non finì, la sua NXR andò in fumo a causa di una perdita nel serbatoio, a Charliat fu offerta una posizione di leadership anche nel team Honda per l’anno successivo. “Ho rifiutato. Non mi sentivo legittimato. Ho saputo andare al 90% per molto tempo, ma non potevo andare oltre come quelli che mi precedevano. Ho preferito fermarmi. “

Una manna dal cielo per Hervé Guio, che trovò rapidamente un sostituto per lui. Non erano i Neveu e i Lalay che avevano il compito di puntare alla vittoria a Dakar, ma 50 privati! All’uscita dell’Africa Twin, Hervé Guio, in una notte di ubriachezza o non so quale occasione, disse davanti a una platea di giornalisti: “Questa è la moto della Dakar, è Charliat che l’ha sviluppata con i giapponesi, è la moto perfetta per un privato, vero François? E faremo una grande operazione 50 Africa Twin a Dakar“. Dopo questo annuncio, mi ha detto: “Bene, François, devi farlo tu stesso. Di quanto avete bisogno? Cosa ti serve per la moto?”. “

Tempi diversi, usanze diverse! Questa non è la prima patata bollente di Charliat. Ha già dovuto improvvisare un trofeo Supermotard Challenge “in seguito a un errore d’ordine sul volume della 500 CR“, la più grande moto da cross 2T dell’epoca, non è la più facile da vendere! È stato messo a capo di un’avventura che si chiamava ufficialmente Objectif Dakar. “Era un programma che dipendeva dalla R&S. C’era sempre una competizione tra i dipartimenti di R&S e l’HRC, era un po’ come gli operai contro i signori”, dice Charliat che ricorda i preparativi e le specifiche che lui stesso redigeva.

I giapponesi sono venuti a trovarci a Parigi e ci hanno chiesto cosa fare sulla moto.

Eravamo nella categoria Marathon. Quindi abbiamo dovuto cambiare alcune cose. Ho fatto modificare le cartucce nelle forcelle, l’ammortizzatore invece è stato preparato in casa,  tanto nessuno sarebbe venuto a controllare. E il serbatoio del carburante era quasi raddoppiato in capacità. La moto non poteva essere alleggerita (270 kg nella versione Marathon). Era quello che era.

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Avevamo anche rinforzato il paracoppa e ha integrato il serbatoio dell’acqua come da regolamento. La moto venne provata due volte in Giappone, poi due mesi prima della Dakar, le 50 moto vennero consegnate a Parigi. È una serie speciale, con numeri di serie del motore e del telaio che iniziano con 5. Nel parcheggio di Honda France, sembra un campo di battaglia. Tende militari sono allestite per accogliere queste 50 moto e i pezzi provenienti dal Giappone, le attrezzature di assistenza, tutto questo sorvegliato giorno e notte.

Ci siamo dovuti occupare anche di trovare i veicoli di supporto. Avevamo tre camion, due Unimog 4×4 più un Kamaz 6×6 affittato in Svizzera. Abbiamo organizzato un concorso per i meccanici della rete. Ce n’erano dieci in uno degli aerei dell’organizzazione, più uno su ogni camion. Altrettanti autisti e anche tre magazzinieri. In totale, 21 persone con il mio vice ed io per supervisionare l’operazione!

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“Tutto incluso, per 81.500 franchi all’epoca, Honda forniva ai candidati una moto completa e un pacchetto di assistenza con dieci meccanici. “Mi sono detto che i ragazzi che sono partiti per la Dakar hanno spesso dimenticato un sacco di cose. Hanno cercato di fare una bella moto, ma spesso non avevano gli attrezzi per riparare una semplice foratura, nessun cavalletto su cui lavorare la sera, non la giacca giusta in cui mettere le carte. Con i miei sei o sette anni di esperienza, mi sono assicurato che avessero un kit pronto per la gara.”

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Anche se la moto non era un missile, andava bene. Ma bisognava saperla portare, non era proprio una moto per principianti, ma i due terzi di loro lo erano. Gli è stato insegnato a leggere un roadbook. Era l’epoca dei primi scrollers. Ho anche fatto preparare dei panini a qualcuno di loro prima dell’inizio. I ragazzi non si sono occupati di nulla! “Un budget per i pezzi di ricambio di 15.000 franchi fa parte del pacchetto, ogni pezzo usato viene poi detratto successivamente.

Tratto da:

https://www.trailadventuremag.fr/50-africa-twin-a-dakar/?fbclid=IwAR373OfAVcrDNFis1m3Oa62OuiPye-vaHeiIbV0kY9Gx9CMzFevCwKbhCl0

Dakar 1989 – Torri e il suo ritiro inspiegabile

Testo di Nicolò Bertaccini

I problemi che possono capitare durante una Paris-Dakar sono innumerevoli e di tutti i tipi. Alcuni sono eclatanti, prevedibili ma altri sono difficili da prevedere e diagnosticare. Quello del rifornimento è sempre stato un momento delicato. Ci sono racconti di ogni tipo, travasi fatti con buste della spesa, trattative coi locali, rabbocchi fatti di bicchiere in bicchiere.

E la benzina non era certamente di prima qualità. Alcune volte, per incomprensioni linguistiche o per furbizia, alcuni locali hanno venduto gasolio ai partecipanti, lasciandoli a piedi dopo pochi km. Quello accaduto a Claudio Torri nel 1989 rientra fra i problemi di difficile comprensione e diagnosi. Quelle volte in cui la moto ti pianta, si tacce e non ti fa capire quale sia il problema, come una compagna capricciosa che non voglia rivelare il motivo dell’arrabbiatura.

Torri guida una KTM 620 LC e siamo al termine di una tappa libica, al confine col Niger.

Quando si fa ora di ripartire, al mattino, la moto non risponde. Torri prova una, due, dieci, cento volte ma la moto non accenna ad avviarsi. Nulla. Il bivacco pian piano si sveglia e si prepara ed il Bergamasco è ancora accanito contro l’avviamento della sua moto. Ogni calcio accumula rabbia e nervoso. Ma la moto se ne frega. Immobile. Inerme.

Il bivacco ormai è attivo e non passa inosservato quel privato così frustrato ed accanito contro la monocilindrica austriaca. Gli offrono anche di provare a tirarla con un camion, per aiutarlo a ripartire. Nulla, non serve la forza bruta, la KTM di Torri non ne vuole sapere.

Nessuno ha un’idea, nessuno capisce, nessuno ha un suggerimento che possa far capire come intervenire. Sembra tutto perfetto. Solo che non parte. Non c’è diagnosi, non c’è cura. Torri decide di arrendersi. Se la moto non parte e non si capisce il perchè, inutile insistere. Il mezzo viene così caricato su un camion alla volta di Dakar, dove dovrà essere rimpatriato, da ritirato.

Appena arrivata il meccanico la scarica dal camion, la guarda un’altra volta e poi prova a fare come facciamo noi con gli elettrodomestici: rifacciamo la stessa cosa a distanza di tempo, per vedere se è vero che il tempo aggiusta ogni cosa. Magari non sempre funziona ma quel giorno, in Africa, alla prima mezza pedalata del meccanico la moto è ripartita ed ha ripreso a cantare, come nulla fosse.

Superato lo stupore è arrivata anche la diagnosi: all’ultimo rifornimento la benzina era annacquata come il cocktail di un gioco aperitivo di un villaggio turistico e durante la notte l’acqua era diventata ghiaccio, impedendo al motore di accendersi.

Perchè di notte, alla Dakar, poteva fare molto, molto freddo. Lo sapevate?

Franco Picco sul sui mono alla Dakar 1989

2016-04-08 19.03.41Con Franco Picco è d’obbligo parlare della 750 Yamaha.
“Ho provato tempo fa in Giappone un bicilindrico; certo ha molta più potenza, dalla parte del mono giocano però l’affidabilità e la sicurezza. La nostra monocilindrica in ogni caso è molto evoluta; ha il raffreddamento a liquido, cinque valvole, è ormai super affidabile. Le modifiche di quest’anno (una sola candela, circuito di lubrificazione potenziato ecc.) hanno portato a una potenza di 58-60 cv con un peso di 165 cv con un peso di 165 kg; la velocità di punta non è tanto diversa, invece il tiro ai bassi, che di serve e guidare meglio, è notevolmente migliorato”.

Motosprint – Gabriele Gobbi

Ermanno Bonacini preparazione alla Dakar 1989

La preparazione della mia Yamaha nella mia solita cantina 3×4 metri. Ogni volta che dovevo effettuare qualche prova, per portare fuori la mia Yamaha dovevo smontare tutti i serbatoi e rimontarli!

La ruota ruota anteriore e la forcella mi furono gentilmente prestati dalla mia fidanzata che aveva un Suzuki 125 RM. Per far funzionare il trip del Yamaha TT occorreva modificare un rinvio del Cagiva 600 con il filo interno a sezione quadrata del V35 della Moto Guzzi, il tutto era tarato alla perfezione. Nella seconda tappa Tozeur Gadames a seguito di una caduta importante mi si strappò il filo e addio al trip master.. ho terninato la Dakar seguendo le tracce, la polvere e molto ha fatto il mio istinto!

Notare il tappo sulla testa dove era collocato il contagiri, il radiatore sotto al fanale e tutti i tubi allungati con un supporto unico da me ideato!

Dakar 1989 – L’indimenticabile Guinea

TAMRACOUNDA – Vista dall’alto la Guinea è uno smeraldo incastonato nel deserto. Per gli equipaggi dell’undicesima Parigi Dakar, però, è un inferno verde, solcato dalle rosse arterie che sono le infide piste di laterite, velocissime ma scivolose. Al suo terzo impatto con la giungla il rally più massacrante del mondo ha riscoperto che non è solo il Ténéré a far soffrire. La Guinea se la ricorderanno a lungo Clay Regazzoni, Claudio Terruzzi, ma anche lo spagnolo Prieto, ed i due buoni samaritani del team Assomoto Giuseppe Cannella e Davide Pollini.

Speciale disumana: in corsa per 24 ore nell’inferno verde

Sono stati questi ultimi, infatti a tirare fuori dalla sua Mercedes semidistrutta da un capottamento Clay infischiandosene di prendere penalizzazione forfettaria.
Eravamo circa al chilometro 270 della speciale – raccontano questi due ragazzi trentenni, di Brescia – quando su di una pista veloce a gobba d’asino, abbiamo visto una macchina a ruote per aria. Era in una pozza di benzina ed il navigatore che era già fuori, perdeva sangue da un braccio. Lo abbiamo riconosciuto subito: era Del Prete, Clay era ancora dentro e stava tentando di liberarsi. Incuranti che il tempo scorreva, Giuseppe e Davide hanno sistemato Regazzoni lontano dalla macchina, appoggiato ad un masso perché la sua carrozzella era andata distrutta, e medicato Del Prete.
Nessuno si è fermato a darci una mano – ricordano i due – uno ci ha buttato una bottiglia d’acqua dal finestrino.
É passata gente che non aveva problemi di classifica… non capiamo, quando si è in speciale tutti si sentono dei campioni.

Terruzzi Cagiva 1989-3

Si è fermato, invece, Claudio Terruzzi ed anche Klaus Seppi. Una storia della Dakar, un frammento che, insieme ad altri, ricostruisce una delle giornate più dure del rally.
É stata una speciale disumana – dice senza mezzi termini Terruzzi, arrivato al campo a notte inoltrata – prima di incontrare Regazzoni ne avevo viste di tutti i colori. Sono finito in un guado al chilometro 130 lo stavo facendo a piedi perché la mia Cagiva andava ad un cilindro. Improvvisamente, mentre ero con l’acqua alla vita. il motore ha ‘”preso” e sono scivolato sul fondo viscido. Ci ho messo un’ora a tirare fuori la moto dal guado, grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che venivano da un villaggio vicino, e con loro mi sono messo a smontare la moto per tentare di farla ripartire.
Ci sono infine riuscito, ma un ritorno di fiamma ha dato fuoco al filtro dell’aria ed uno dei miei improvvisati aiutanti, impaurito, ha gettato una manciata di terra nei carburatori… per fortuna mentre ero impegnato a smontare tutto di nuovo e arrivato Savoldelli, la mia assistenza, con la macchina, che mi ha tirato fuori. Ero triste quando ha lasciato dietro dirne tutti quei ragazzi che si erano dati da fare per aiutarmi, ma non ci ho più pensato quando, nel buio mi sono trovato a dover fare la pista dietro alle auto.

Terruzzi Orioli

In un polverone che limitava la visibilità a pochi metri Terruzzi è caduto, ha centrato una vacca, e ripartito di nuovo tirando alla cieca, ma non ha potuto evitare la penalizzazione.
E dire – ricorda – che ero partito benissimo… davanti a me avevo solo due tracce. Dovevo essere terzo prima di cadere in quel maledetto guado… il road book era fatto da cani, per un pelo non ho rischiato la pelle nella secca curva a sinistra nella quale è poi caduto Magnaldi.

Savoldelli, che lo ha aiutato la sera è con lui al campo. Un altro tassello si inserisce nel rompicapo della speciale Bamako – Labè.
Ci siamo trovati tutti in un guado profondo, noi delle macchine – racconta l’assistenza veloce della Cagiva – in acqua c’era la Nissan di Prieto. Non riusciva ad uscire. Lui era alla guida, mentre il suo secondo si era tuffato per sistemare le slitte sotto le ruote. Andava e veniva, in quell’acqua limacciosa, quando d’improvviso l’ho sentito urlare. Li per li non ho capito, poi l’ho visto sorreggere Prieto, che era in acqua svenuto, per le ascelle. La marmitta sfiatava all’interno della carrozzeria e lui, respirando ossido di carbonio, si era addormentato, accasciandosi alla guida. Aveva avuto appena la forza di aprire la portiera prima di lasciarsi andare nell’acqua. Per fortuna che, in tutta quella confusione il navigatore se ne accorto.

regazzoni

É l’alba del giorno dopo quando, con una macchina dei medici, arriva Regazzoni al bivacco. Sporco, con la barba lunga, è quasi irriconoscibile, ma non stanco, né disfatto. Il giorno più lungo della Dakar si chiude nel suo racconto.
Non riesco a capire – dice scuotendo la testa – eravamo appena usciti dalla parte più dura della speciale quando in un rettilineo di terra rossa, la macchina si è messa traverso. L’ho controllata per un po’, ma poi mi è partita. Si è fermato dopo quattro giravolte con le ruote in aria. Sentivo puzza di benzina e Del Prete lamentarsi. Poi sono arrivati i due motociclisti italiani che mi hanno aiutato ad uscire.

Mentre Clay parla gente continua ad uscire dalla speciale. Sono i camion che non ce l’hanno fatta ad arrivare nella notte. Rivediamo il bivacco buio, privo della luce dei generatori, e quei pochi mezzi pesanti arrivati a far da punto d’appoggio per tutti. La speciale Barnako – Labè è durata esattamente 24 ore. Nessuno se l’aspettava cosi dura.

Yamaha Belgarda al lavoro per la Dakar 1989

Gli addetti ai lavori dicono che la gara, sulla spiaggia di Dakar, non finisce, ma comincia. Nel senso che gli sconfitti, ma anche il vincitore, appena tagliato il traguardo cominciamo già a pensare all’edizione successiva. Dietro le tre settimane di gara, infatti, c’è il lavoro di un anno intero. Ma in cosa consiste questo lavoro? Come si opera nei “bunker” dei reparti corse quando sul deserto è tornato il silenzio di sempre ed il vento ha cancellato le impronte dei pneumatici dalla sabbia? Per rispondere siamo entrati in uno di questi reparti corse (di solito rigorosamente “top secret”), quello della neonata BYRD, (Belgarda Yamaha Racing Division), “figlia” dell’importatore italiano della Yamaha, che si occupa di tutte le attività agonistiche della società.

Il team ha le carte in regola per essere tra i protagonisti della maratona e ha raccolto in passato numerosi successi in Africa con il forte Franco Picco, secondo a Dakar lo scorso anno e vincitore del Rally dei Faraoni nell’86, e con Cyril Neveu, vincitore di cinque Parigi-Dakar. Daniele Papi, consigliere delegato della-BYRD e responsabile della spedizione africana, racconta a “Motociclismo” come il team si è preparato alla “Dakar”. La regola della “Parigi-Dakar che inizia sulla spiaggia di Dakar nel momento in cui termina la edizione precedente” Papi la conferma: i responsabili dei due team ufficiali Yamaha, l’italiana Belgarda e la francese Sonauto, si riuniscono insieme con gli osservatori inviati dalla Casa madre giapponese poche ore dopo il termine della maratona in una sala riservata in un hotel di Dakar.

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La discussione, di taglio esclusivamente sportivo, serve per analizzare a caldo l’andamento della gara ed ha un seguito la settimana dopo, nella sede della Yamaha-Europe, ad Amsterdam, dove si decide l’indirizzo delle attività agonistiche delle tre équipes — francese, italiana e giapponese —Mentre in Europa si smontano e si controllano tutti i pezzi impiegati sulle moto che hanno concluso la gara, in Giappone si gettano le basi del progetto per la costruzione della nuova macchina. Dopo alcuni mesi, completata l’analisi dei materiali usati e fissate le strategie della edizione successiva (numero delle moto in gara e relativa assistenza), inizia la fase “calda” della preparazione: meccanici e piloti volano in Giappone per i primi collaudi del nuovo mezzo. Quest’ultima fase ha una durata variabile fra i 30 e 60 giorni ed è senza dubbio la più interessante: è qui che il prototipo prende forma e viene modificato secondo i consigli dei piloti, consigli tenuti in grandissimo conto dai tecnici giapponesi.

La nuova Yamaha OW94, monocilindrica di 750 cc., in prima uscita al rally dei Faraoni è giunta seconda con Franco Picco. La digitale è posta nel codino della moto, lontano dal motore che potrebbe creare anomali campi magnetici, il lettore è a fianco del road book.

OW94-02Il nostro Picco, in particolare, gode fama di esperto collaudatore ed i giapponesi fanno di tutto per accontentarlo realizzando le modifiche che suggerisce. Si arriva così a settembre, quando si mette a punto la partecipazione ai Faraoni, prova generale della “Dakar”. Le moto arrivano dal Giappone e si intensificano i collaudi delle parti staccate prodotte in Europa, ad esempio l’ammortizzatore posteriore (Ohlins): in gara, poi, si sperimenteranno le nuove soluzioni.

Al ritorno dai “Faraoni” la vita si fa frenetica: si attendono dal Giappone le nuove moto, modificate secondo l’esperienza della gara in Egitto, moto che arrivano anco-ra da assemblare e controllare. Gli ultimi test si concludono pochi giorni prima della partenza per Parigi. Martino Bianchi, responsabile delle relazioni esterne della BYRD, ci fa da guida nella visita al bunker. Cominciamo con la presentazione dei meccanici impiegati a tempo• pieno nella Racing Division: si chiamano Fumagalli, Lanzulli e Lavelli, mentre completano la squadra della Parigi-Dakar Bonetti (che segue Fanton nel cross) e lo specialista delle carrozzerie Vanzulli. Il nuovo regolamento, che vieta la partecipazione ai camion e che limita il numero di mezzi di assistenza, ha costretto tutti i maggiori team a rivedere l’organizzazione dell’assistenza in gara.OW94-07

Il 70 per cento dei ricambi è trasportato su auto e camion, mentre il resto viene parcheggiato ad Agadez, in una base permanente Yamaha. I pneumatici necessari ad una gara del genere tra moto, auto e camion sono quasi duecento (un’idea dei costi totali può darla il prezzo di una gomma speciale per gli autocarri, 2.500.000 lire). I pneumatici moto vengono sostituiti ogni fine tappa: la speciale “mousse” (Michelin) che sostituisce le normali camere d’aria impedisce le forature, ma ha una limi-tata resistenza alle elevate temperature che si creano nei pneumatici fortemente sollecitati. Le tre Range Rover (che partecipano alla gara) di assistenza portano i ricambi di più frequente utilizzo sulle piste, un motore montato, un serbatoio, una ruota completa ed ovviamente un meccanico in grado di assistere il pilota in caso di guasto.

Da tempo del team fa parte anche una donna, l’unica tra 23 uomini: si chiama Matilde Tamagnini, 30 anni, responsabile dell’immagine Chesterfield. Tutte le 24 persone del team si occupano a tempo pieno, durante l’anno, del settore Raid Marathon, ma quantificare la forza umana necessaria alla conduzione dell’intero progetto è impossibile. Tutti i dipendenti della Belgarda sono co-involti e collaborano con il reparto corse an-che se solo saltuariamente. I piloti, oltre a condurre le prove, seguono l’allestimento delle moto per essere in grado, durante la gara, di eseguire riparazioni di fortuna. La preparazione fisica pre-gara, seguita sempre dal responsabile medico, il profes-sor Archetti, comprende, nel periodo del mese precedente la corsa, 3 uscite in moto settimanali, 4 sedute di footing, 3 di palestra (2 leggere ed una con carichi massimi), una giornata in piscina ed una di completo riposo.

Archetti ritiene che nessun atleta usi doping, nelle maratone africane, dato che è impossibile, in uno sforzo così prolungato, smaltire i residui negativi di tali sostanze, ed un pilota che ne facesse uso rimarrebbe vittima dell’accumulo di fatica. Parlare di costi è praticamente impossibile. Oltre alle moto, prezzo stimato 300 milioni di lire l’una, ai mezzi dell’assistenza, agli aerei, alle decine di persone retribuite, alle migliaia di ore di lavoro dedicate al progetto, bisogna considerare l’impegno saltuario di tutti i dipendenti Belgarda e quello di altre decine di persone (fotografi, fornitori, ecc.) che collaborano alla realizzazione del “sogno africano”.

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Picco e Neveu saranno alla guida delle due nuove Yamaha OW 94. Portata in gara da Picco al Rally dei Faraoni, la OW 94 è l’evoluzione della OW 93 affidate a Marinoni e al quarto pilota. Identiche nell’estetica, le nuove Yamaha differiscono nel telaio rinforzato ed in una sospensione modificata nei leveraggi e nella lunghezza del forcellone; il motore è diverso nel gruppo termico (pistone e fasce elastiche di nuovo materiale) ed è dotato di carburatori più grossi ed ha un maggiore rapporto di compressione.

OW94-05La candela ora è unica, in luogo delle due precedenti, la potenza è di 60 CV, due in più, ma soprattutto i consumi sono diminuiti. OW94-04Nei dettagli le caratteristiche tecniche sono le seguenti: cilindrata di 752 cc (105 x 87 mm), motore monocilindrico quattro tempi con testa a cinque valvole, due carburatori Mikuni da 30 e 32 mm, cambio a cinque rapporti, forcella Kayaba regolabile in compressione ed estensione con, escursione di 300 mm, sospensione posteriore monocross con ammortizzatore Ohlins super regolabile, escursione 280 mm, pneumatici Michelin anteriore 90/90×21 oppure 100/80×19, posteriore 140/90×18.

L’autonomia è affidata a due serbatoi, principale più laterali, per un totale di 58 litri; il peso sfiora i 220 kg in ordine di marcia e la velocità massima è di oltre 185 km/h. La strumentazione, oltre all’indispensabile porta road book, comprende un trip master tronico, una bussola elettronica digitale ed una magnetica analogica di riserva. Dopo il secondo posto nella passata edizione, il secondo posto al “Faraoni”, la Yamaha ufficiale, affidata anche al team francese Sonauto, è una delle maggiori candidate alla vittoria .

Fonte Motociclismo
Special Tks Stefano Massenz

Hédouin e Scheck Dakar 1989

Nella foschia spuntano l’Africa Twin di Hédouin e la Maico 500 di H.Scheck durante la Dakar 1989.

Philippe ed Erick Auribault Dakar 1989

Fratelli da corsa, Philippe ed Erick Auribault. Arriveranno appaiati a Dakar nel 1989 in 52° e 53° posizione. Epici!