Prologo maldetto! Aldo Winkler Dakar 1988

Alla partenza a Parigi tanto fiero di essere nella squadra Honda iItalia B avevo trovato anche gli sponsor ma questa foto mi ricorda un preludio drammatico, la moto rattava al prologo e questa foto documenta che volevo lavorarci ma qui a poco arriverà un inserviente che mi sgriderà minacciandomi di squalificarmi se non me ne fossi andato. Il giorno dopo partirò regolarmente, e farò 800 km al freddo e ghiaccio con il collettore rotto con la moto che rimaneva un po’ accelerata. A 5 km dalla Tour Eiffel si scollarono le ganasce del tamburo del freno posteriore, e dovetti smontare la ruota xper renderla libera. Dopo 300 km si romperà la catena, la giuntai e dopo altri 30 km la catena era ancora crepata.

Mollai la moto ad alcuni spettatori e un gentile signore con la macchina mi prese e a folle velocità mi porto via autostrada alla testa del rally perchè i camion partivano per primi, mi feci dare una catena e tornai indietro a riparare la moto. Ripresi la corsa tuto sudato e ripartii, ma era in estremo ritardo praticamente ultimo e di tanto! Cercando di recuperare e con la moto in quelle condizioni andai il più forte possibile, nella foga saltai un controllo timbro (pena 2 ore di penalità) e arrivai per ultimo a Cale Marsiglia,  e mentre la sistemavo per aggiustarla definitavamente mi presi un rinculo alla caviglia senza stivali nel tentativo di avviarla. Salii sul traghetto dolorante con 2 ore di penalità e distrutto dalla fatica e dalla tensione. I camion di Honda Iitalia si ritirarono e Honda France diede supporto ai piloti ufficiali italiani ma io ne fui escluso, il meccanico aviotrasportato si ammalò e ritornò in Italia. Mi trovai senza assistenza e senza meccanico.  Penserete: quanta sfiga! Si e vero ma la cosa più importante e che arrivai 19° Dakar e senza le due ore di penalità avrei fatto 12°!
Quanti ricordi dentro questa semplice foto…

Testo di Aldo Winkler

Yamaha XTZ 660 Super Production

Per cercare di evitare lo strapotere dei prototipi alla Dakar, la direzione di gara verso la fine del 1993 provvede a cambiare il regolamento, ed introdurre la categoria sport prototipi, moto di derivate dalla serie. La Yamaha visto il poco tempo per prepararsi e le divergenze con la direzione gara, non iscrive nessuna squadra alla Dakar 1994.

Durante il 1995 la Yamaha Motor France non potendo più contare sui prototipi provenienti dal Giappone, nel proprio atelier prepara due piccole serie di moto, 15 bicilindrici e 15 monocilindrici. Il bicilindrico direttamente derivato dal prototipo vincente nel 1993, con telaio Barigo e motore di derivazione TDM, come riportato sulle carte di circolazione delle moto, moto adatta a piloti professionisti ed esperti.

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Il monocilindrico derivato dal XTZ 660 con modifiche al telaio, sospensioni, alla cassa filtro e alle sovrastrutture, adattato e preparato per piloti amatori che erano nella sfera di Yamaha France.
Le importanti modifiche vennero state testate da Stéphan Peterhansel al Nevada Rallye. 25577234_10211073917748227_1633602844_o

La capacità del carburante è stata aumentata a 37 litri grazie ai due serbatoi anteriori in alluminio (un optional posteriore da 5 litri), il paramotore riceve una riserva d’acqua in alluminio, il telaietto posteriore rimovibile è in acciaio, la forcella è una Kayaba da 43 mm della gamma YZ preparata nell’idraulica e nelle molle, l’ammortizzatore è un Ohlins dedicato nelle misure e nel serbatoio, il forcellone in alluminio scatolato è realizzato su misura con la possibilità di smontaggio rapido della ruota posteriore, il silenziatore è un First Racing, l’airbox è originale ma modificato (con un’apertura più ampia e un secondo filtro, alcune vennero dotate di cassa filtro in alluminio dedicata).
Il cupolino e i fianchetti laterali sono in poliestere rinforzato con fibra di carbonio, i parafanghi anteriori e posteriori provengono dalla WR 250, la sella è in poliestere specifico. L’equipaggiamento di navigazione è obbligatorio e comprende Trip elettrico MD e triplo ICO.

18817906_10209548817781681_103864442_oIl prezzo di vendita includeva la moto, ma anche un kit di parti molto fornite, l’assistenza e il trasporto dei pasti durante l’evento. Le 15 moto troveranno rapidamente compratori, tra cui il “Team Les Copains” composto da Christian Sarron , Pierre Landereau, Philippe Alliot e Raphael de Montrémy. Jacques Laffite correrà su una TT 350 e Thierry Magnaldi sulla XTZ850R.

Tra gli altri piloti anche il famosl pilota/velista/giornalista Thierry Rannou, Egfried Depoorter e altri.
Circa metà delle 14 moto corsero anche nella Dakar 1996 con Marc Troussard, Michel Servet e altri.
Visto la richiesta e il prezzo altissimo della Super Production, la Yamaha Motor France, preparò nel 1995 due serie di moto per le corse raid, la Marathon e la Marathon Rallye, entrambe preparate su base XTZ 660 ma con poche e mirate modifiche. La Marathon: serbatoi e sospensioni. La Marathon Rallye: serbatoi sospensioni e cassa filtro. Per entrambe nessuna modifica al telaio.

Special Tks Giovanni Tazzone Fantazzini

Yamaha Belgarda al lavoro per la Dakar 1989

Gli addetti ai lavori dicono che la gara, sulla spiaggia di Dakar, non finisce, ma comincia. Nel senso che gli sconfitti, ma anche il vincitore, appena tagliato il traguardo cominciamo già a pensare all’edizione successiva. Dietro le tre settimane di gara, infatti, c’è il lavoro di un anno intero. Ma in cosa consiste questo lavoro? Come si opera nei “bunker” dei reparti corse quando sul deserto è tornato il silenzio di sempre ed il vento ha cancellato le impronte dei pneumatici dalla sabbia? Per rispondere siamo entrati in uno di questi reparti corse (di solito rigorosamente “top secret”), quello della neonata BYRD, (Belgarda Yamaha Racing Division), “figlia” dell’importatore italiano della Yamaha, che si occupa di tutte le attività agonistiche della società.

Il team ha le carte in regola per essere tra i protagonisti della maratona e ha raccolto in passato numerosi successi in Africa con il forte Franco Picco, secondo a Dakar lo scorso anno e vincitore del Rally dei Faraoni nell’86, e con Cyril Neveu, vincitore di cinque Parigi-Dakar. Daniele Papi, consigliere delegato della-BYRD e responsabile della spedizione africana, racconta a “Motociclismo” come il team si è preparato alla “Dakar”. La regola della “Parigi-Dakar che inizia sulla spiaggia di Dakar nel momento in cui termina la edizione precedente” Papi la conferma: i responsabili dei due team ufficiali Yamaha, l’italiana Belgarda e la francese Sonauto, si riuniscono insieme con gli osservatori inviati dalla Casa madre giapponese poche ore dopo il termine della maratona in una sala riservata in un hotel di Dakar.

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La discussione, di taglio esclusivamente sportivo, serve per analizzare a caldo l’andamento della gara ed ha un seguito la settimana dopo, nella sede della Yamaha-Europe, ad Amsterdam, dove si decide l’indirizzo delle attività agonistiche delle tre équipes — francese, italiana e giapponese —Mentre in Europa si smontano e si controllano tutti i pezzi impiegati sulle moto che hanno concluso la gara, in Giappone si gettano le basi del progetto per la costruzione della nuova macchina. Dopo alcuni mesi, completata l’analisi dei materiali usati e fissate le strategie della edizione successiva (numero delle moto in gara e relativa assistenza), inizia la fase “calda” della preparazione: meccanici e piloti volano in Giappone per i primi collaudi del nuovo mezzo. Quest’ultima fase ha una durata variabile fra i 30 e 60 giorni ed è senza dubbio la più interessante: è qui che il prototipo prende forma e viene modificato secondo i consigli dei piloti, consigli tenuti in grandissimo conto dai tecnici giapponesi.

La nuova Yamaha OW94, monocilindrica di 750 cc., in prima uscita al rally dei Faraoni è giunta seconda con Franco Picco. La digitale è posta nel codino della moto, lontano dal motore che potrebbe creare anomali campi magnetici, il lettore è a fianco del road book.

OW94-02Il nostro Picco, in particolare, gode fama di esperto collaudatore ed i giapponesi fanno di tutto per accontentarlo realizzando le modifiche che suggerisce. Si arriva così a settembre, quando si mette a punto la partecipazione ai Faraoni, prova generale della “Dakar”. Le moto arrivano dal Giappone e si intensificano i collaudi delle parti staccate prodotte in Europa, ad esempio l’ammortizzatore posteriore (Ohlins): in gara, poi, si sperimenteranno le nuove soluzioni.

Al ritorno dai “Faraoni” la vita si fa frenetica: si attendono dal Giappone le nuove moto, modificate secondo l’esperienza della gara in Egitto, moto che arrivano anco-ra da assemblare e controllare. Gli ultimi test si concludono pochi giorni prima della partenza per Parigi. Martino Bianchi, responsabile delle relazioni esterne della BYRD, ci fa da guida nella visita al bunker. Cominciamo con la presentazione dei meccanici impiegati a tempo• pieno nella Racing Division: si chiamano Fumagalli, Lanzulli e Lavelli, mentre completano la squadra della Parigi-Dakar Bonetti (che segue Fanton nel cross) e lo specialista delle carrozzerie Vanzulli. Il nuovo regolamento, che vieta la partecipazione ai camion e che limita il numero di mezzi di assistenza, ha costretto tutti i maggiori team a rivedere l’organizzazione dell’assistenza in gara.OW94-07

Il 70 per cento dei ricambi è trasportato su auto e camion, mentre il resto viene parcheggiato ad Agadez, in una base permanente Yamaha. I pneumatici necessari ad una gara del genere tra moto, auto e camion sono quasi duecento (un’idea dei costi totali può darla il prezzo di una gomma speciale per gli autocarri, 2.500.000 lire). I pneumatici moto vengono sostituiti ogni fine tappa: la speciale “mousse” (Michelin) che sostituisce le normali camere d’aria impedisce le forature, ma ha una limi-tata resistenza alle elevate temperature che si creano nei pneumatici fortemente sollecitati. Le tre Range Rover (che partecipano alla gara) di assistenza portano i ricambi di più frequente utilizzo sulle piste, un motore montato, un serbatoio, una ruota completa ed ovviamente un meccanico in grado di assistere il pilota in caso di guasto.

Da tempo del team fa parte anche una donna, l’unica tra 23 uomini: si chiama Matilde Tamagnini, 30 anni, responsabile dell’immagine Chesterfield. Tutte le 24 persone del team si occupano a tempo pieno, durante l’anno, del settore Raid Marathon, ma quantificare la forza umana necessaria alla conduzione dell’intero progetto è impossibile. Tutti i dipendenti della Belgarda sono co-involti e collaborano con il reparto corse an-che se solo saltuariamente. I piloti, oltre a condurre le prove, seguono l’allestimento delle moto per essere in grado, durante la gara, di eseguire riparazioni di fortuna. La preparazione fisica pre-gara, seguita sempre dal responsabile medico, il profes-sor Archetti, comprende, nel periodo del mese precedente la corsa, 3 uscite in moto settimanali, 4 sedute di footing, 3 di palestra (2 leggere ed una con carichi massimi), una giornata in piscina ed una di completo riposo.

Archetti ritiene che nessun atleta usi doping, nelle maratone africane, dato che è impossibile, in uno sforzo così prolungato, smaltire i residui negativi di tali sostanze, ed un pilota che ne facesse uso rimarrebbe vittima dell’accumulo di fatica. Parlare di costi è praticamente impossibile. Oltre alle moto, prezzo stimato 300 milioni di lire l’una, ai mezzi dell’assistenza, agli aerei, alle decine di persone retribuite, alle migliaia di ore di lavoro dedicate al progetto, bisogna considerare l’impegno saltuario di tutti i dipendenti Belgarda e quello di altre decine di persone (fotografi, fornitori, ecc.) che collaborano alla realizzazione del “sogno africano”.

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Picco e Neveu saranno alla guida delle due nuove Yamaha OW 94. Portata in gara da Picco al Rally dei Faraoni, la OW 94 è l’evoluzione della OW 93 affidate a Marinoni e al quarto pilota. Identiche nell’estetica, le nuove Yamaha differiscono nel telaio rinforzato ed in una sospensione modificata nei leveraggi e nella lunghezza del forcellone; il motore è diverso nel gruppo termico (pistone e fasce elastiche di nuovo materiale) ed è dotato di carburatori più grossi ed ha un maggiore rapporto di compressione.

OW94-05La candela ora è unica, in luogo delle due precedenti, la potenza è di 60 CV, due in più, ma soprattutto i consumi sono diminuiti. OW94-04Nei dettagli le caratteristiche tecniche sono le seguenti: cilindrata di 752 cc (105 x 87 mm), motore monocilindrico quattro tempi con testa a cinque valvole, due carburatori Mikuni da 30 e 32 mm, cambio a cinque rapporti, forcella Kayaba regolabile in compressione ed estensione con, escursione di 300 mm, sospensione posteriore monocross con ammortizzatore Ohlins super regolabile, escursione 280 mm, pneumatici Michelin anteriore 90/90×21 oppure 100/80×19, posteriore 140/90×18.

L’autonomia è affidata a due serbatoi, principale più laterali, per un totale di 58 litri; il peso sfiora i 220 kg in ordine di marcia e la velocità massima è di oltre 185 km/h. La strumentazione, oltre all’indispensabile porta road book, comprende un trip master tronico, una bussola elettronica digitale ed una magnetica analogica di riserva. Dopo il secondo posto nella passata edizione, il secondo posto al “Faraoni”, la Yamaha ufficiale, affidata anche al team francese Sonauto, è una delle maggiori candidate alla vittoria .

Fonte Motociclismo
Special Tks Stefano Massenz

Privati italiani a Dakar 1988

Beppe Gualini sulla sua Suzuki DR650

Beppe Gualini sulla sua Suzuki DR650

Quattordicesimo assoluto, e miglior privato italiano a Dakar, Beppe Gualini è l’unico a potersi fregiare del titolo di privato. Aveva soltanto un meccanico in aereo (il celebre Marietto, piccolino per occupare poco spazio) e qualche cassa distribuita tra i camionisti che gli hanno noleggiato lo spazio.

«È stata dura – ha commentato il bergamasco – la più dura delle mie esperienze. Fortunatamente la mia Suzuki DR 600 ha marciato come un orologio, senza mai denunciare guai seri. Ma ho faticato più che mai: questa gara sta diventando davvero proibitiva peri piloti che non hanno una vera squadra alle spalle, con il massaggiatore, numerosi ricambi e tutto».

Aldo Winkler, che ha noleggiato una monocilindrica ufficiale dell’anno scorso e si è appoggiato alla Honda Italia, ha avuto meno problemi; ma ha pagato subito tre ore di penalità saltando un controllo a timbro fra Parigi e l’imbarco: tre ore che alla fine hanno pesato sul piazzamento.

Aldo WInler su Honda a Setè

Aldo Winkler su Honda a Setè

 

«Questa corsa — ha sintetizzato a Dakar — chiede al pilota una sempre maggiore concentrazione. Spesso mi sono chiesto: ma chi me lo ha fatto fare? E devo dire che non ero allenatissimo perché gli impegni di lavoro mi tengono occupato tutto l’anno. Ma è una corsa affascinante: tra pochi mesi morirò dalla voglia di ricominci-re, anche se oggi sono stanco morto».

Bruno Birbes è il privato “ricco”: con due soci motociclisti ha messo insieme un budget di 300 milioni ed era assistito da un camion personale e da due meccanici in aereo. Concessionario BMW a Brescia, ha corso con la bicilindrica finendo diciannovesimo.

«Sono arrivato a Dakar per la prima volta — ha detto Birbes —ma anche per l’ultima. Giuro che una faticaccia del genere non ho più nessuna intenzione di sobbarcarmela. Mi ha salvato l’esperienza».

Bruno Birbes sulla sua BMW

Bruno Birbes sulla sua BMW

Sono stati soltanto otto gli italiani capaci di arrivare in fondo alla Parigi-Dakar. Vederli arrivare sera per sera, stanchi morti e ricoperti di polvere, con mille avventure da raccontare ad ogni bivacco, è stato bello e appassionante.

Fonte Motociclismo
Special Tks Stefano Massenz per l’articolo

Dakar 1990: la prima Yamaha bicilindrica

Il rally dei Faraoni era alle porte. Sarebbe partito ad inizio ottobre e rappresentava un importante banco prova in vista della successiva Parigi-Dakar, l’avvenimento più importante della stagione africana. La gara egiziana assumeva perciò una particolare rilevanza per la Yamaha, che dopo un infruttuoso inseguimento della vittoria con la sua monocilindrica, sempre protagonista, ma sempre sconfitta nelle ultime edizioni, decise di uniformarsi alla formula scelta da Honda e Cagiva (ma non dalla Suzuki) realizzando una bicilindrica contraddistinta dalla sigla YZE 750 T.

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Tramontava così la sigla OW che la moto ufficiale per i rally aveva diviso a lungo con la 500 da gran premio. Prima del debutto ufficiale ai Faraoni la neonata Yamaha mosse i primi passi in Giappone con Franco Picco e Stephan Peterhansel che hanno avuto occasione di riprovarla anche in Francia, opportunamente modificata sulla base delle indicazioni da loro fornite in occasione del primo test. Picco e Peterhansel tornati in sella poco lontano dalle spiagge di Le Touquet dove si disputava la celebre gara di enduro, ed entrambi riscontrarono con soddisfazione come sia stata migliorata la moto, rinunciando a qualche chilometro in velocità di punta in cambio di un maggior tiro ai regimi medio-bassi.YZE1990-1

Della nuova YZE 750 T erano disponibili soltanto due esemplari per Picco e Peterhansel, ma altre due moto verranno ultimate in tempo per la Parigi-Dakar, una per la squadra italiana e l’altra per quella francese. Queste sono le prime immagini della bi-cilindrica ufficiale corredate da dati tecnici non troppo approfonditi per il tradizionale riserbo dei giapponesi, piuttosto restii a svelare i «segreti» delle loro creature.

YZE1990-3La cilindrata era di circa 800 cm3 e la potenza massima superava i 70 CV a 7500 giri per una velocità massima di 170 km/h (contro i 150 km/h della «mono»). Il telaio era più basso rispetto alla OW 94 (ribattezzata oggi YZE 750. La forcella aveva steli di 46 mm con un’escursione di 300 mm. L’escursione del monoammortizzatore posteriore era invece di 260 mm. I freni erano entrambi a disco ed un peso a secco di soli 190 kg. Per la sua ultima nata, la Yamaha aveva realizzato in proprio anche la complessa strumentazione necessaria per affrontare i rally.

Dal trip master alla bussola elettronica tutto era stato allestito ad Iwata e la moto arrivò in Europa già «pronta gara», soltanto da verniciare nei colori degli sponsor. Tradizionalmente erano invece i team ad occuparsi di acquisto e montaggio degli strumenti di bordo, diventati con il passare degli anni sempre più sofisticati e determinanti per l’esito delle gare.

Special tks to Stefano Massenz per l’articolo

Luciano Carcheri, vi racconto la mia ultima Dakar 2002

Quando la corsa diventa quasi demenziale, soprattutto a causa del maltempo, il tutto rasenta la follia. Che in questa edizione GI_112della Parigi-Dakar ci fosse qualcosa di strano lo avevo capito subito nella prima parte europea avendo passato i primi quattro giorni di gara sotto la pioggia. A Madridho dovuto togliere il parafango basso in prova speciale perché il fango mi bloccava la ruota anteriore, cosi una volta sbarcato in Marocco, ho iniziato la vera Dakar dal fondo della classifica. Affrontata la prima parte di gara con molta prudenza a causa delle piste insidiose e delle numerose pietre, sono ripartito dopo la giornata di riposo ad Atar dal 50°posto in classifica generale.

Ne ho corse otto ne ho finite sei. Dopo 100.000 chilometri in Africa mi sento appagato. Direi che può bastare.

Come tattica di gara e come mia consuetudine, la corsa “vera” per me sarebbe partita da Atar, ma invece da li sono iniziati i miei problemi fisici. Provando la moto, di sera, un colpo di freddo mi ha provocato dei problemi intestinali, ho percorso così la tappa di Atar di 404 km in condizioni disastrose. Al traguardo sono letteralmente crollato e da li sono stato caricato su di un mezzo dell’organizzazione che mi ha portato nella tenda medica. Le cure e le numerose flebo (circa una decina a causa della disidratazione) mi hanno rimesso in sesto, ma al mattino all’alba ho dovuto dimostrare ai medici che mi avevano curato sufficienti doti di sicurezza alla guida per poter continuare la corsa. Una volta tolta la flebo, mi sono “esibito” in doti di agilità (stile Cada Fracci) e solo dopo averli convinti mi hanno permesso di ripartire per la tappa successiva Atar-Tidjikja di 502 km. A quel punto mi sono precipitato a mangiare, a sistemare tutto nella cassa che viene trasportata via aerea al bivacco successivo, e a recuperare la moto che nel frattempo il mio meccanico Ramon, aveva sistemato.

GI_097Ho continuato cosi la mia ottava Dakar recuperando giorno dopo giorno e nella tappa Tichit-Tichit, tappa senza punti Gps e dove molti non hanno trovato il CP3 (io per trovarlo ho fatto 50 km in più di notte nell’erba “cammello”) e sono arrivato a Tichit alle 19.30. Quella sera ho dormito circa cinque ore e sono ripartito per la seconda tappa Marathon Tichit-Kiffa-Dakar (in totale di 1.472 km) che per me è stata la più dura soprattutto perché ha piovuto sempre e c’era molto fango. Per poter percorrere questa parte, ho dovuto smontare in prova speciale il parafango basso che con il fango mi bloccava la ruota e di conseguenza mí faceva cadere, per cui ho dovuto percorrere ben 600 chilometri di fuoristrada quasi tutti nel fango, di notte e senza luci, perché il fango spruzzato dalla ruota anteriore si depositava sul faro, sugli occhiali, sul casco e quant’altro riducendomi una maschera di fango.

GI_034Per poter continuare il trasferimento di notte, ho pensato di sfruttare i fari dei camion, ma questo sistema funzionava bene sino a che non si arrivava ad uno dei numerosi bivi e biforcazioni: a quel punto ho dovuto molte volte fermarmi ed aspettare il camion successivo dato che alla biforcazione avevamo scelto strade diverse. Una volta arrivato alla benzina intorno alle 3.00 di notte, ero esausto, mi si chiudevano gli occhi per la stanchezza. A quel punto ho deciso (anche perché finalmente aveva smesso di piovere) di riposare un’ora, cosi mi sono sdraiato a terra al riparo dei fusti della benzina. Finito questo incubo, al confine con il Senegal mi sono fermato ad un lavaggio che oltre a lavare la moto è stato propiziatorio anche per il pilota. Il giorno successivo la tappa Dakar-Dakar, passerella sul Lago Rosa, è stata una vera e propria formalità.GI_001

Devo dire che ho terminato questa ottava Dakar con le orecchie basse; prima di partire davo per scontato che arrivare al Lago Rosa, a parte eventuali problemi meccanici, sarebbe stato molto più facile. Devo dire a questo proposito che la mia KTM ha funzionato benissimo come al solito. Questa ventiquattresima edizione è stata una delle più dure da me disputate; sono sicuramente appagato dall’essere giunto all’arrivo sei volte su otto partecipazioni. Ringrazio quanti mi hanno aiutato in questi anni e in particolare Emilio Giletti, grande uomo e grandissimo sportivo, che con la sua immensa passione e disponibilità mi ha permesso di essere presente al Rally Marathon più duro del mondo contro i piloti ed i team più organizzati e preparati per questo grande evento.

La Parigi-Dakar per me va in pensione. Con questa ottava edizione ho percorso più di 100.000 chilometri in Africa tra rally ed escursioni, e mi sento veramente appagato per tutto quello che ho fatto. L’addio alla Dakar, non significa che me ne starò con le mani in mano o davanti al televisore a ve-der correre gli altri. Una nuova sfida estrema mi sta contagiando… adesso penso un po’ al riposo e subito dopo ne riparliamo.

Luciano Carcheri
Fonte Motosprint

 

Sfortunata Dakar 1991 per Gualini

L’anno precedente è stato il migliore dei privati, nel 1991 deve cercare ora di conservare il platonico titolo. Un compito, non facile per il trentasettenne pilota bergamasco, che comunque ha dalla sua la partecipazione a sette Dakar e ad una trentina di rally Gualini 1991africani. Ha un’esperienza invidiabile unita ad una grande abilità nelle pubbliche relazioni.

Passato alla Honda dopo anni con la Suzuki, gareggia in sella ad un’Africa Twin nella marathon non avendo avuto il tempo di preparare la moto per la categoria proto: l’accordo con l’importatore italiano infatti è stato raggiunto solo all’ultimo momento, tanto che il simpatico «Gualo» (ma il suo vero nome è Giusi) ha dovuto saltare il Faraoni. Per l’assistenza dispone di un camion Mercedes Unimog guidato da Dell’Anna e De Podestà, provenienti dal Camel Trophy, e di Claudio Macario, meccanico aviotrasportato.

Fonte: Motosprint
N.d.r. Beppe Gaulini si ritirò dopo solo 3 tappe rimediando una frattura alla clavicola.
Ringraziamo Roberto Panaccione che ci ha fornito le immagini

Alain Le Grand e la sua Dakar 1979

Novembre 1978, sul campo di motocross di Orly, vicino a Parigi una moto sta girando e fa sensazione con il suo bicilindrico a V e le sue dimensioni impressionanti. Si tratta di un prototipo, il TT500.  Denis Bacholle, direttore di Seudem, importatore Moto Guzzi in Francia, me l’ha prestato per qualche giorno per affinarlo. La moto è potente, molto stabile, molto robusta e relativamente facile da guidare, anche in percorsi fangosi.  Noto subito un problema, è l’albero cardanico che limita la corsa della sospensione posteriore e costringe a mantenere le ruote posteriori in lega di serie – la conversione del mozzo a raggi sarebbe troppo costosa.

Ho iniziato l’enduro con un Ossa Pioneer.  Nel 1977 ho partecipato con successo al Rallye 5-5 Abidjan-Nice di Jean-Claude Bertrand, su una Yamaha DT400 preparata da Gilles Comte.  Ci uniamo a Cyril Neveu, Christian Rayer e… Thierry Sabine, che si perderà nel Ténéré.  Gilles vince la gara.

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La Moto Guzzi TT500 alla Dakar 1979

È stata annunciata una Parigi-Dakar, organizzata dallo stesso Thierry Sabine, creatore dell’ Enduro du Touquet. Denis Bacholle è un uomo appassionato e l’allestimento del team è un vero miracolo, ma il giorno della partenza cinque moto sono regolarmente allineate alla partenza e i loro piloti erano pronti – Martine Rénier, Eric Breton, Piatek, Bernard Rigoni…e io.
L’ assistenza è fornita da due veicoli Toyota che hanno ormai raggiunto l’età della pensione.

La gara inizia e siamo in Algeria, tappe di collegamento: le Guzzi sono degli aerei da caccia!  I funzionari di Honda e Yamaha, sui loro monocilindrici cominciano a guardarci con rispetto.  Le nostre moto sono le migliori in velocità massima e molto stabili.  Il consumo è sotto controllo, come previsto. Dopo Reggane, il ritorno alla realtà è brutale.  I cerchi in lega posteriore non reggono, si rompono. I 105 mm di escursione della sospensione posteriore su buche e dossi non perdonano.  Martine Rénier e Piatek si schiantano e feriti abbandonano la competizione.

Anche io mi esibisco in un bel looping, e rimedio una frattura al polso sinistra.  Decido di tenere questo incidente per me stesso e continuo il rally con una mano sola o quasi. Modifico il manubrio per non affaticare troppo il polso e installo un pneumatico da trail sul cerchio posteriore che si rivelerà meno stressante per il cerchio.  Raggiungiamo Agadès e mentre sfilo a fianco a Martine de Cortanze, sento che la moto sprofonda nella sabbia.  Nonostante i rinforzi il telaio si è rotto all’altezza del piantone dello sterzo.  La stessa disavventura successivamente capiterà a Eric Breton.  È tempo di tornare a casa.

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Le Grand aiutato da Breton armeggiano sulla ruota posteriore della TT500

Il mio compagno Bernard Rigoni, il sorridente motociclista dalle indissolubili qualità morali e fisiche, arriverà a Dakar.
Jean-Patrick Capdevielle canta: “è difficile essere un eroe / da questo lato del pianeta…”. 

Ha ragione, Jean-Patrick, certamente non saremo eroi, ma pionieri, anonimi e appassionati, quello si… sicuramente.  Lanciarsi nel deserto algerino, resistere alle tempeste di sabbia senza GPS, a quei tempi non era così facile.  Il Moto Guzzi TT500 ha dimostrato la competitività delle bicilindriche nel rally-raid, senza l’inconveniente del cerchio posteriore avremmo potuto fare grandi cose. Questa moto era eccezionale sotto ogni punto di vista.  È stato un grande privilegio guidare questa Moto Guzzi.

E’ stato anche un grande privilegio essere stati membri di questa squadra, uniti ed entusiasti.  Un pensiero per Denis Bacholle, scomparso troppo presto.  Saluti da Bogotà, Colombia, agli amici della Storia Della Parigi Dakar.

Alain le Grand, Dakar 1979, pettorale n. 85.

Eugen Eicher su BSA alla Dakar 1985

Eugen Eicher si era iscritto alla Dakar 1985 e veniva dalla Svizzera,  quindi pensò bene di traslare l’utilità del famoso coltellino multiuso dell’ esercito, alla moto inserendo pezzi di ricambio direttamente sul telaio. L’esempio più pratico è la corona posteriore che poteva  eventualmente servire da protezione per il carter motore della sua BSA bicilindrica da 650  cc. Probabilmente molti altri pezzi di ricambio erano montati lontano dagli occhi dei profani. Non sono stato in grado di saperne di più, con mio grande rammarico, ci appelliamo ai fans del sito per saperne di più.

Se necessario, Eugen era determinato a usare attrezzi “antiquati” come il martello e pinze alloggiati in una sacca di cuoio. Una testimonianza fotografica che fa capire lo spirito di avventura che pervadeva i concorrenti dell’epoca.

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Dakar 1986, nel deserto ogni promessa è debito

Nel deserto, ogni promessa è debito e Gilles Picard è la vittima sfortunata e disciplinata. Ecco come sono andati i fatti: la forcella anteriore di Gianpaolo Marinoni è scoppiata e con lei tutto l’olio. Quindi la sua Cagiva si comprime sulle sospensioni quando tocca terra dopo i salti e va a “pacco” così tanto che il filtro dell’olio che si trova sotto il carter arriva a terra e si rompe a sua volta. Marinoni si deve fermare, e quindi anche Picard, che rispetta il suo ruolo di gregario.

Beppe Gaulini in gara con una Elefant privata

Beppe Gaulini in gara con una Elefant privata

Ma Gilles non ha olio e Gianpaolo deve aspettare la Land Rover di assistenza rapida del team Lucky Explorer per poi ripartire con il coltello tra i denti. Un po’ più avanti rompe una ruota e il suo amico Beppe Gualini, in sella a una Cagiva privata, si ferma per cedergli la sua, rimanendo in attesa dell’assistenza Cagiva che provvederà a fornirgli il ricambio, permettendo a Gilles di ripartire e continuare la sua gara con velleità di classifica. È un regalo molto costoso perché il mezzo di assistenza rapida passa senza vedere Gualini che è fermo a bordo pista. Beppe riesce a ripartire molto più tardi ma verrà sanzionato con dieci ore di penalità per essere arrivato dopo la chiusura del controllo orario di arrivo.

Per niente contento va a lamentarsi dal manager del team ufficiale Cagiva che gli promette che in caso di necessità avrà un’assistenza identica a quella dei piloti ufficiali. E infatti il destino prontamente lo mette alla prova, il 6 gennaio Gualini rompe una ruota e fa fermare Picard che è piazzato bene in classifica generale, ventitreesimo. Il patto va rispettato e il gregario deve cedere la sua ruota a Gualini, che si trova in fondo alla classifica. Il volto del povero Gilles, che perde un’ora nella manovra, esprime perfettamente i tormenti del portatore d’acqua.

Tratto da: L’albero perduto della Parigi Dakar di Jean Lui Roy – Edizione Mare Verticale