Walter Surini al traguardo di Città del Capo nel 1992

Due volte al via e due volte al traguardo, nel ’91 a Dakar, 36esimo, a Città del Capo, 20esimo. Walter Surini ha nuovamente dimostrato di avere le capacità ed il temperamento per ben districarsi nella massacrante maratona africana. Difendendo i colori della Kawasaki IP Italy  ripagò la fiducia accordatagli portando la 500 Kle bicilindrica quattro tempi da un capo all’altro del Continente nero sfiorando il successo nella categoria 500 (è stato a lungo in testa alla graduatoria provvisoria) e centrando quella della 500 international, riservata ai piloti con buoni risultati nei rally internazionali.

Il pilota di Rogno portò a termine anche la sua seconda avventura nella Dakar piazzandosi ventesimo assoluto su Kawasaki – il salto di un timbro per una nota errata del road-book gli costò una penalizzazione di dodici ore.

Grande soddisfazione all'arrivo. Maletti risulterà vincitore della cat. fino a 500 cc.

Grande soddisfazione di Surini con il compagno di team Maletti all’arrivo.

– E’ stato più emozionante raggiungere Dakar l’anno scorso oppure Città del Capo quest’anno?
“Sono state entrambe sensazioni bellissime. A Dakar si trattava della prima volta, era la fine di un’avventura tutta da scoprire, a Città del Capo mi ha colpito l’accoglienza che ci hanno tributato, l’entusiasmo degli spettatori. Se devo proprio scegliere è stato più bello l’arrivo ’92 perché la gara è stata più difficile, più faticosa e stressante. Non è vero, come si è detto e scritto, che nella seconda parte la corsa sia stata una passeggiata. Si, non ci sono più stati colpi di scena ai vertici delle classifiche ma abbiamo attraversato percorsi insidiosi e molto difficili, non è stata una vacanza, lo posso assicurare. Chi ha affermato il contrario o si è ritirato a metà oppure ha effettuato i trasferimenti in aereo.”

– Che sia stata comunque deludente non si può però negare. Se facesse parte dell’organizzazione che modifiche apporterebbe?
“Continuerei a puntare sul completo attraversamento dell’Africa ma effettuerei la gara al contrario, da sud a nord, da Città del Capo a Tripoli. Pensa, all’inizio tappe con brevi distacchi tanto per creare il clima giusto e poi, nel deserto, la grande selezione finale. Certo ci sarebbero inconvenienti anche in questo caso, per esempio il trasporto dei mezzi in Sudafrica condizionerebbe i tempi di effettuazione, ma dal punto di vista prettamente agonistico si proporrebbe una competizione sicuramente più interessante ed incerta sino all’ultimo.”

Surini.Dakar

Walter Surini sulla Kawasaki KLE 500 del Team IP Italy

– Da trentaseiesimo a ventesimo è stato un bel passo avanti. Merito della maggiore esperienza o anche di cos’altro?
“Innanzitutto poteva andare anche molto meglio, senza il salto di timbro nelle battute conclusive e la conseguente pesante penalizzazione avrei potuto guadagnare anche cinque posizioni. Certo l’esperienza ha giocato un ruolo non indifferente ma determinante è stata l’affidabilità della mia Kawasaki, una moto talvolta non adeguatamente potente, con un assetto non specifico ma davvero affidabile. Rispetto a dodici mesi prima ho tribolato molto meno, non ha avuto rotture gravi anche se per qualche giorno ho corso senza la quinta marcia, ho potuto raggiungere i bivacchi in tempi ragionevoli e quindi ripresentarmi molto pi` riposato e lucido al via della frazione successiva. E tutto questo nonostante la nostra organizzazione abbia dovuto fare a meno molto presto del camion d’assistenza costringendoci a limitare le sostituzioni dei pezzi usurati e spesso ad elemosinare qualche copertone o altri pezzi di ricambio.”

– Ma esattamente cosa è successo quel giorno che ha saltato il controllo a timbro?
“Quella è stata una tappa micidiale, davvero molto impegnativa, e l’inconveniente capitato a me è successo anche a parecchi altri piloti. Certo io sono arrivato in ritardo di qualche minuto al briefing mattutino ma quello che mi ha indotto all’errore è stata una nota inesatta del road-book. Mi ha fatto imboccare una pista parallela a quella giusta, in mezzo alla vegetazione, e non ho potuto accorgermi del timbro, che magari era vicinissimo a dove sono transitato. Sono stato penalizzato con dodici ore, l’inconveniente mi è costato davvero caro.

– Ai suoi livelli si riesce a pareggiare le spese o addirittura partecipare a questa gara comporta sacrifici economici?
“Stavolta ho pareggiato i conti ma obiettivamente dopo una tale faticaccia, aver trascorso un mese tra polvere e sudore, aver macinato migliaia di chilometri non mi sembra di dire un’eresia se affermo che qualcosa in tasca dovrebbe anche rimanere. D’altronde noi piloti siamo così, la passione troppo spesso ci fa fare cose irrazionali.”

– Adesso nel suo futuro cosa c’è?
“Alla fine di febbraio conto di conseguire il brevetto commerciale come pilota d’elicotteri mentre come pilota aspetto che la Kawasaki definisca i suoi prossimi programmi. Certamente conto di partecipare a qualche rally importante.”
di Danilo Sechi
http://www.motowinners.it/spazio%20interviste/Surini%20Dakar%201992.htm

Cagiva Elefant Marathon Dakar 1994

Gli appassionati più facoltosi, festeggiarono la nascita del regolamento Marathon per la Parigi-Dakar 1994, che vincolava all’uso di mezzi con derivazione diretta dai mezzi di serie (scelta che uccise i costosissimi prototipi ufficiali).
Cagiva allestì quindi la 944 Marathon, che costituì la base per la moto portata in gara dal team CH Racing di Roberto Azzalin e che vinse poi per la Casa varesina la seconda Dakar con Edi Orioli.

La Marathon riguadagnò diversi particolari di pregio della precedente 900 IE ma andò anche oltre: a parte appunto il ritorno dell’accoppiata Marzocchi Magnum – Ohlins, su questa versione speciale si adottò un cerchio anteriore da 21”, più adatto all’impiego in fuoristrada (misure complete 90x90x21″ e 140x90x18″) ma soprattutto l’inedito (nella produzione di serie) propulsore da 944 cc alimentato da raffinatissimi carburatori a valvola piatta Keihin FCR capace di erogare 75 cavalli e 7,2kgm.

Yamaha YZE OW08 850 Dakar 1993

Nel 1993 si correva la 15a edizione della Parigi-Dakar, competizione durissima attraverso il deserto africano, con partenza da Parigi e con arrivo nella capitale del Senegal. Edizione strana con solo 46 moto che si presentarono alla partenza e fra tutte si è distingueva la Yamaha YZE OWD8 di Sephane Peterhansel, vincitore delle due precedenti edizioni.

Un pezzo davvero unico, ancor più che raro questa Yamaha che è stato in vendita sul sito www.classic-motorbikes.com.
La moto in vendita era l’ufficialissima versione da 850 cc, nata sulla base della 750 stradale ma completamente rivoluzionata da Yamaha Motor France in collaborazione con il reparto corse giapponese. Il motore era un bicilindrico parallelo, come tradizione vuole, e il frontale con il serbatoio maggiorato  il caratteristico cupolino con lente faro ovale, la rendono senza dubbio una delle più belle dakariane degli anni ’90.

Questa moto è appartenuta alla collezione di Yamaha Motor France per 20 anni e non è stata minimamente toccata dopo aver tagliato il traguardo di Dakar ’93. In sostanza, si trattava di una moto conservata e ben lavata.
I graffi, la verniciatura scrostata il alcuni punti, il cupolino e il codino rotti, il carter rovinato dalle protezioni dello stivale, sono tutte “ferite di battaglia” che raccontano la storia.

Fabrizio Meoni Tribute

Ci piace ricordarlo così: sanguigno e sincero!
Ciao Fabrizio

Dakar 1991, la cavalcata gloriosa di Edi

Spezzoni di un’epoca mai dimenticata. Bignardi del Team Assomoto, Edi e la sua Cagiva, Ciro alle prese con una gomma, Mas che fa benzina, Montebelli al self service…meraviglioso!

Patrizio Fiorini, le mie Dakar

Categoria Malles Moto: ovvero, l’organizzazione ti trasporta una cassa coi tuoi ricambi e, credo, due ruote complete. Tu in un campo allestito, illuminato, con vari servizi tipo: gazebo, compressore, idropulitirice, saldatrice, meccanici dell’organizzazione quando disponibili, spazio tende, docce… devi arrangiarti a fare tutto.

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Praticamente quello che in Africa negli anni ’80 e inizi ’90 era un trattamento da pilota semi-ufficiale. In quegli anni il privato partiva con lo zaino, e al massimo, un pò di ricambi su un camion. I più “ricchi” avevano un meccanico assieme ad altri piloti e qualche ricambio in più.
Poi c’erano una decina di “ufficiali”, ma erano su una altro pianeta. Io potevo ritenermi fortunato, grazie ad un amico, avevo caricato su un camion in gara, una cassa con olio, filtri, camere d’aria e un motore di ricambio. E una borsa con qualche vestito oltre quelli che avevo addosso fin dalle verifiche a Rouen.

Alla seconda tappa in Libia il camion del mio amico Stefano Pirola di Lissone si rompe, decidono di salvare il salvabile tornando a casa. Tutto quello che riuscirono a fare fu consegnare la borsa coi vestiti ad un’auto di un team francese, un Toyota privatissimo del Team Sud che rimase a piedi due tappe dopo. Appena in tempo per lasciare la borsa al bivacco, il sacco a pelo no, quello se lo lasciarono sull’auto… mi arrivò mesi dopo a casa con saluti e gadget del Team Sud.

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Così al bivacco della seconda tappa in Libia, mi ritrovai com’ero da giorni, solo stivali nei piedi, senza un goccio d’olio per la moto, senza sacco a pelo (la tenda non era prevista), filtri o qualsiasi cosa per gli imprevisti. I vestiti che trovai erano l’ultima cosa di cui avevo bisogno, avevo viaggiato per anni da solo senza prevedere nulla per me, solo per la moto, e vedermi recapitare la borsa da due colleghi di sfighe su 4 ruote, mi sembrò una presa in giro, ma erano talmente malconci che li ringrziai, passammo una bella serata insieme, ci scambiammo gli indirizzi promettendoci un bel team auto e moto per l’anno dopo (sogni da falò sotto le stelle).

Al bivacco della prima tappa non riuscii nemmeno a trovare il mio camion, il marasma era totale, una bufera di vento e pioggia aveva ridotto l’area a ridosso di un aeroporto in un pantano di sabbia e fango. Ricordo Montebelli e Marcaccini, gli amici che mi vendettero la moto, fare manutenzione ai loro 660 sotto un diluvio nello spazio improvvisato dalla Yamaha BYRD. Io vagai fino all’alba tentando di sdraiarmi sui teli di plastica di chi era riuscito ad aprire le tende sotto un grande gazebo. Da lì in poi, fino al mio abbandono per rottura del cambio tra Tenere e Ciad, ho vissuto di espedienti, a scrocco di tutto, a dormire avvolto nel telo di sporavvivenza sotto i camion.

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Leggere oggi che sei stanchino perché dormirai 3 ore e mezza, perché “ti tocca” la Malles Moto, mi fa sorridere.

Nella foto, sono l’anno dopo alla seconda tappa in Marocco, guido ancora col piede destro sul motore, la pedana è rimasta tra Montpellier e Marsiglia forse incastrata nella macchina di Paul Maurice, un ubriaco che mi tagliò la strada in trasferimento. Lasciai in giro per il fosso tutti gli strumenti, i fari, pezzi di carena, codino, la tuta antiacqua (pioveva anche li…), il dito mignolo della mano destra e due costole. Vedere Franco Picco ed Edi Orioli aiutarmi e, a pacche sulla schiena dirmi “dai resisti”, mi fece continuare, sempre con la mia cassa da privato a cercare una pedana compatibile da saldare col troncone di leva del freno che mi era rimasta.

Abbandonai anche lì, in Algeria, arrivai a fine tappa oltre la partenza del giorno dopo, 980 km dentro e fuori il grande Erg Occidentale, la classica tappa di sfoltimento che alleggeriva la TSO in vista dell’ingresso in Africa Nera. Dal giorno dell’incidente in Francia dormii (male) solo quella prima notte, le costole si stavano svegliando… dopo, per quattro tappe non mi sdraiai mai. Alla partenza di ogni tappa i medici, che sapevano dell’incidente, mi facevano una visita per vedere com’ero messo, pressione, occhi, riflessi e altre boiate che avrei evitato volentieri, pur di mettere a posto altre cose nella moto (luci obbligatorie per es.).

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Tornai a casa in moto come nei miei viaggi, col Tunisi-Genova, più in forma di quando ero partito, con la moto schiacciata ma finalmente a posto ed efficiente.

Nel ’97 ho scoperto il benessere della categoria Malles Moto. Di avere un mio meccanico comunque non se ne parlava. Trovarmi tutti quei servizi a disposizione, mi sembrò un’altro mondo, pulire il filtro con l’aria compressa è roba importante, avere un meccanico ed un gommista che prima o poi ti consegna la tua ruota o il pezzo di ricambio (solo per possessori di ktm al tempo) mi sgravava di un sacco di ore di lavoro che potevo impiegare sul road book e fare quel bel lavoro con gli evidenziatori colorati che spesso si vede nelle foto di oggi. Dormire sempre poco comunque.

Abbandonai la corsa tra Mali e Senegal prima di farmi male seriamente, prendevo troppi rischi per andare avanti a tutti i costi, si partiva da Dakar e il caldo era troppo. Bene per me che mi rimase quel pelo di lucidità per decidere di fermarmi. Male andò ad un collega francese che vidi a terra con le auto attorno su una pista rossa con solchi fondi come tutta la ruota. Al bivacco si seppe che era morto e mi rimase impresso, forse troppo, o per fortuna.

 

fiorini-1997Anche oggi questa Dakar ci fa vedere storie e personaggi al limite della resistenza, mi piace meno rispetto alle Paris-Dakar, ma rimane una bella gara. Peccato per tutta quella “civiltà” che vedo attorno ai piloti, troppa gente, troppi servizi, troppo tutto (al bivacco girano persino delle belle signorine…).

L’Africa e il Sahara sono irripetibili, per fortuna ci ho provato.

Dakar 1998, Sala e Meoni e i piccoli gesti che resteranno nella storia

Sono in molti a chiedermi della “pacca” sul casco di Meoni in un video della Dakar.
Niente di che, solo che con Fabrizio avevo raggiunto un grande feeling e quindi potevo “permettermi” di fare una cosa del genere.
Il feeling è nato e cresciuto nel corso degli anni, a partire dalla mia prima Dakar nel 1998, quando in un ultimo dell’anno a Parigi, a poche ore dalla partenza, mi chiedeva se eravamo normali a stare nella stanza dell’hotel davanti alla TV guardando cartoni animati, quando fuori tutti erano di festa. Scoppiai a ridere e cominciammo a parlare di Dakar e mi rivelò alcune malizie per affrontare meglio la gara.
Sempre insieme nei trasferimenti, ore e ore in sella, e spesso con la pioggia, (non si vede l’ora di arrivare in Africa), condividendo i pochi minuti di sosta ai punti ristoro. “Vietata” la consumazione quando ci si fermava per fare benzina, mi diceva che alla Dakar non si deve perdere tempo e all’assistenza si deve arrivare il prima possibile, “ricordatelo bene!”.
In società al bivacco era un grande, saluti e consigli per tutti, olio toscano sempre in “tavola” nella sabbia del bivacco, e chiederne un po’ gli faceva girare le palle, aveva nella cassa la quantità giusta per i giorni di gara, ma poi te lo offriva volentieri. Ti chiedeva poi un parere, credente e attivo come sempre, tutti sappiamo della sua missione a Dakar.

Parlando della città di Dakar, quando nel 2001 vinse per la prima volta la gara, alla cena/festa lo obbligai a “ubriacarsi”. Non potevo vedere Fabrizio brindare con Coca Cola tutta la sera mentre lo staff KTM, al contrario, brindava alla sua vittoria con vino e birra, così gli imposi di bere almeno tre bicchieri di vino nel corso della serata, mi rispose: “e che ci vuole?”. Uno due tre in fila… in meno di mezz’ora avevamo un Meoni in forma strepitosa, che parlava austriaco come il toscano.

Strategico e combattivo proprio come un “Cinghiale”, e così lo chiamavano, sapeva aggredire speciali con forza e irruenza, ma sapeva anche passare “senza lasciare traccia”.

Infatti, fu la strategia che gli permise di vincere con la bicilindrica LC8, in una tappa dove si doveva passare su un Wait Point, situato in cima a una ripida falesia, (quella che Roma cercò di salire ma poi cadde e andò in crisi). Fabrizio con un rapido e astuto ragionamento di CAP (i gradi della bussola), capì che Roma ed io, che partivamo davanti a lui, stavamo sulla pista sbagliata, così uscì dalla pista per non lasciare tracce e, tagliando in fuori pista per alcune centinaia di metri, imboccò la pista giusta che portava in cima alla falesia. Fu così l’unico a trovare in breve tempo la direzione mentre noi tutti “pascolavamo” alla ricerca della pista, chiedendoci dove fosse finito Meoni. Il distacco acquisito gli permise di vincere la sua seconda Dakar con una moto – credetemi ve lo assicuro – veramente impegnativa, la LC8.

Oltre alle gare ho condiviso con Fabrizio anche tantissime settimane di test. In queste occasioni si consumavano giorni e notti condividendo la stanza, scoprendo le varie abitudini, le manie, i gusti, i programmi televisivi più amati, le preferenze alimentari, oltre allo stare in sella fianco a fianco negli odiosi Chott di sabbia soffice per chilometri e chilometri per testare l’affidabilità dei motori in condizioni estreme. Arrivò a percorrere 1.007 chilometri in un giorno su un anello di 38 km, (io ne feci 150 meno). Anche lo sviluppo della LC8 fu molto interessante perché era una moto tutta nuova e Fabrizio mi sorprese con la sua sensibilità quando capì che la posizione delle pedane andava cambiata per far sì che la moto non si avvitasse.
Finiti i test, ci allenavamo in palestra, in piscina e correndo, ma con lui era impossibile, troppo allenato, persino il preparatissimo Arnaldo Nicoli ne sa qualcosa.
Inoltro ricordo le risate alle Battle of King, memorabile quella di Ibiza. Ci fu la manche con i Jet Ski da Ibiza a Formentera, Fabrizio ed io, “Vecchi Lupi di Mare”, scegliemmo il modello della moto d’acqua sbagliata per il mare aperto e arrivammo alla fine così stremati che sembravamo due naufraghi.

Potrei raccontarvi ancora tante storie, ma non voglio annoiarvi, e così vi spiego il perché del famoso “schiaffo” sul casco.
Era la Dakar del 1998 ed eravamo in Mali, nella tappa che portava da Taudenni a Gao dove per sicurezza, visto il chilometraggio, fu annullata la speciale che divenne un trasferimento di oltre 1000 chilometri. Come dicevo prima, “lui in Africa, voleva arrivare presto al bivacco”, così si mise a guidare quasi come fosse in speciale ed io, da buon portant d’eau, dovevo stare con lui, ma intorno al km 800 iniziavo ad averne un po’ le palle piene di tenere un ritmo del genere, così mi avvicinai e gli diedi il famoso “schiaffetto” per richiamare la sua attenzione e avvertire che avremmo anche potuto rallentare per qualche chilometro, visto che non mi pareva tardissimo, ma lui non abbassò più di tanto il ritmo. Aveva ragione perché, nonostante fossimo tra i primi ad arrivare all’assistenza, era calata la notte da diverse ore, in quanto gli ultimi 150 chilometri si snodavano tra un intreccio di piste nel Fesh Fesh che, affrontate con le luci dei fari, risultò molto complicato guidare mantenendo il giusto CAP e l’equilibrio.
Chi lo ha provato sa cosa vuol dire.

Purtroppo la sua gara prediletta gli ha tolto la vita, lasciando una profonda tristezza a Elena, Gioele e Chiara, come a tutti noi, ma lo ricorderemo sempre per la sua simpatia e disponibilità da grande campione e persona quale era.

Giovanni Sala

Tratto da Endurista Magazine nr.42

Incredibile Pierre Marie Poli alla Dakar 1988


Claudio Terruzzi, dalla buca del Parco Lambro alla Parigi-Dakar

Claudio Terruzzi ha partecipato ed anche vinto gare di enduro in tutto il mondo ma è ricordato soprattutto per le sue partecipazioni alla Parigi-Dakar.
 Claudio è nato in via Amalfi lungo la Martesana nel 1956 e ha trascorso la sua giovinezza a Crescenzago.
Striscione di bentornato esposto nel 1988 in via Padova, in occasione del rientro di Terruzzi dalla Parigi – Dakar
Ancora giovanissimo, assieme ad altri patiti del fuoristrada della zona, in sella a dei cinquantini si cimentava nella buca di via De Notaris (di fronte alla Rol Oil) o al Parco Lambro.
 Al Parco Lambro, oltre ai classici percorsi sulla “montagnetta”, c’era anche una buca a fianco di via Crescenzago e dietro al Tennis Club che una vera palestra per il motocross, con tracciati molto belli. Inoltre al Parco oltre che primeggiare con gli amici, c’era spesso da battere anche le guardie ecologiche, ma per i ragazzi era abbastanza facile, con una sgasata, sfuggire ai “verdoni” che cavalcavano biciclette.

arrivo-dakar-1988

Orioli, Terruzzi e Picco, i componenti della squadra Honda Italia alla Parigi- Dakar del 1988.
Terruzzi, per gli amici, “El Teruzz”, ha iniziato a correre negli anni 70 in gare di regolarità con vari successi, fino ad approdare alla squadra azzurra. Dopo risultati alterni, alla 6 giorni di San Pellegrino è stato notato da Massimo Ormeni di Honda Italia e dopo alcuni test positivi è diventato pilota ufficiale Honda. 
Claudio ha partecipato a tre Parigi-Dakar negli anni ’80, nel periodo in cui era ancora una gara massacrante che si correva in Africa.
Ha partecipato per la prima volta nel 1987, in sella ad una Honda XR 650 R, ha vinto una tappa a Goa, in Mali il 14 gennaio ed ha vinto il premio “Rookie of the year” quale miglior pilota di moto esordiente.
 La seconda partecipazione nel 1988, quell’edizione è stata irripetibile per gli italiani che correvano con le moto, delle 183 moto alla partenza solo 34 sono arrivate a Dakar e nei primi cinque posti della classifica finale si sono piazzati ben tre italiani: il vincitore Edi Orioli su Honda, al secondo posto Franco Picco su Yamaha ed al quinto Claudio Terruzzi su Honda HRC NXR750R. In quell’edizione Terruzzi ha riportato anche 6 vittorie di tappa e senza alcuni problemi meccanici avrebbe anche potuto concorrere per la vittoria assoluta.

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Durante una intervista del 2012, Claudio, rispondendo ad una domanda sul suo gradimento a correre eventualmente di nuovo la Parigi-Dakar, ricordando quegli indimenticabili momenti, ha risposto: “ No, perché la Dakar, quella Dakar, non tornerà più. Ho ancora un VHS del TG1 condotto da Paolo Fraiese, la prima notizia parlava di Ronald Reagan, la seconda di Claudio Terruzzi che aveva vinto la tappa della Dakar. Ricordo gli striscioni in via Padova a Milano con scritto bentornato Claudio… All’epoca i piloti si perdevano e non si trovavano più, di molti non si è più saputo nulla: smarriti nel deserto per sempre. Oggi con il navigatore è tutto più facile, tutto più sicuro, quasi noioso: meglio fare una gara d’enduro“ .

Nel 1989, Terruzzi lascia la Honda e passa alla Cagiva. La squadra con con Terruzzi, Orioli, De Petri e Picard, forma un gruppo potenzialmente vincente ma una serie infinita di problemi meccanici e di eccessivo deterioramento delle gomme tormentano le moto, la terza partecipazione di Terruzzi alla Dakar non lascia tracce degne di nota.
Oggi a quasi 30 anni dalla sua ultima partecipazione alla Dakar, nonostante nel frattempo sia diventato un manager di successo, amministratore delegato di una società all’avanguardia che fornisce servizi per il miglioramento della qualità ambientale, non ha affatto dimenticato la sua innata passione per le corse di enduro e per il mondo che le circonda.

Fonte: http://www.lagobba.it

Henno Van BergeiJk a Dakar su una XT500

Quando si cerca di trovare l’avventura…nell’avventura la citazione è praticamente d’obbligo.
Era il 2006 quando un pilota olandese, HENNO VAN BERGEIJK, si mise in testa di partecipare alla Lisbona-Dakar (quell’anno si partiva dal portogallo) su una moto preparata interamente da solo.
E fin qui nulla di strano, se non fosse che la moto con cui decise di partecipare alla più dura competizione nel deserto era una vecchia Yamaha XT500!

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Ad occhio la moto si presentava molto simile alla versione che partecipò nei primi anni 80, salvo la forcella anteriore (di tipo a steli rovesciati) e il freno a disco anteriore…la sicurezza prima di tutto.
Per il resto, dal motore, ai doppi ammortizzatori (a gas) posteriori, ricalcano la configurazione base.
Ovviamente le velleità non erano quelle di raggiungere le vette di alta classifica, ma dimostrare la bontà del mezzo e la possibilità di raggiungere il traguardo con un mezzo, ai più considerato “obsoleto”.
Hanno raggiunse il traguardo…in ultima posizione, ma a distanza di anni, la sua impresa è rimasta nella memoria degli appassionati di avventura.