Guido Maletti Dakar 1998

Guido Maletti 24° alla Parigi Granada Dakar 1998

 

Boano e la sua Africa Twin fino a Dakar nel 1998

Chi ha compiuto un’impresa fuori del normale è Roberto Boano, quarantasette anni e cinque Dakar alle spalle. Boano, infatti, ha portato al traguardo un’Africa Twin, un bisonte da guidare su strada, figurarsi tra le dune del deserto.

«lo ho un feeling particolare con questa moto, perché anche se pesante è magica, perlomeno in certe occasioni.
Certo, con una Honda XR 400 posso anche tornare alla Dakar, ma maí più con l’Africa Twin. Anche perché la gara è molto cambiata e non ti diverti più ad andare in moto. Però quando arrivi al Lago Rosa dimentichi tutto e, improvvisamente, i 18 giorni d’inferno diventano un ricordo bellissimo».
Roberto Boano si classificò 38°!

10665294_1196818620345455_7327851124434534079_n

In seguito trovammo un’intervista in cui parlava di questa moto:

Oggi usi ancora l’Africa Twin per dei giri?
“Quella rossa da gara, non la Marathon, la uso sempre, perché mi invitano per vedere il vecchio dinosauro fare l’asino in giro e io mi presto volentieri, vado a fare delle corse a destra e sinistra e devo dire che mi diverto ancora come un matto. Ma le Marathon ho rinunciato a utilizzarle perché mi dispiace demolirle. Poi questa Marathon 004 me l’ha usata mio figlio piccolo, Ivan, e praticamente me l’ha demolita. Sai, Ivan è il più pericoloso, Jarno un po’ di testa ce l’ha, Ivan no”.

Quali erano i punti deboli della moto, quelli sui quali intervenivi per andare a correre una Dakar?
“Pompa della benzina a depressione e regolatore da tenere d’occhio. Per il resto era un mulo, pensa che abbiamo portato giù sempre i dischi della frizione e non ne abbiamo cambiato uno…”.

Di regolatori te ne portavi dietro due o tre?
“No, no, io non ho mai bruciato né una pompa né un regolatore, ma la paura era talmente tanta che uno te lo portavi comunque dietro”. Rinforzi al telaio se ne facevano? “No, niente. Guarda che con quella moto, se avevi il coraggio di tenere aperto, lei rompeva te, ma lei non si rompeva mai. Poi io non cadevo mai, perché alzare ‘sta moto con 50 litri di benzina, era quasi impossibile per una sega come me…”.

Tratto da intervista a Roberto Boano su Motosprint
Grazie a Roberto Panaccione

I “nostri eroi”, gli italiani all’arrivo della Dakar 1990

In piedi: Franco PiccoAlessandro Ciro De Petri, Medardo, Mandelli, Petrini, Marcaccini, Cabini e Montebelli;
Accosciati: Gualini, Algeri, Grassotti, Signorelli, Orioli, Mercandelli e Aluigi. Nella foto manca solo Zotti.

Le Gilera private alla Dakar 1991

Anche quattro Gilera private sono arrivate al traguardo della Dakar 1991, guidate da quattro italiani. si tratta di Quaglino (28°), l’unico in rosso del gruppo, e dei tre piloti del Team Assomoto: da sinistra Aldo Winkler (33°), Walter Surini (36°) e Brenno Bignardi (32°). manca solo Carlo Alberto Mercandelli, ritirato.

Arrivo di tappa alla Dakar 1998

Gian Paolo Quaglino, anch’egli gentleman-veterano di origini crossistiche, proprio come Winkler con cui ha condiviso le posizioni di media classifica durante tutto il rally. Qui lo vediamo impegnato a sistemare la sua Honda; sullo sfondo sono Massimo Chinaglia, con l’unica Gilera in gara, ed Emanuele Cristanelli, che non sono riusciti a raggiungere il traguardo della Dakar 1998.

Suzuki DR 800 Z BIG 1989

Anche la gialla Suzuki di Gaston Rahier è praticamente uguale alla moto già vista nell’edizione della Dakar 1988. I più sostanziosi interventi riguardano il motore, maggiorato fino a 810 cc aumentato di potenza ed addolcito contemporaneamente nell’erogazione per migliorarne il comportamento sin dalle minime aperture dell’acceleratore.

Carter in magnesio, nuovi carburatori e nuovo sistema di filtro d’aria incrementano la respirazione del propulsore. Inalterato l’esclusivo sistema di raffreddamento SACS ad aria più olio, con grande circolazione del lubrificante nella testa e nel cilindro.
La distribuzione è monoalbero con quattro valvole e doppia accensione per accelerare la propagazione del fronte di fiamma. Cambio cinque marce e frizione in bagno d’olio. La potenza supera i 65 cavalli con una coppia sostanziosa di ben 8,7 Kgm sin dai bassi regimi. 

Il serbatoio principale è realizzato in alluminio come quelli posteriori, per contere il più possibile il peso, ora ridotto a 151 Kg a secco secondo le dichiarazioni ufficiali.

La linea simile alla DR Big normalmente in vendita, è caratterizzata dal pronunciato “becco”, carenato per migliorare l’efficienza aerodinamica.

Il telaio è monotrave in acciaio al cromo-molibdeno con culla sdoppiata sotto il motore con una nuova geometria e disposizione dei pesi per migliorare la guidabilità, per altro già molto buona.

La geometria della sospensione posteriore è stata rivista per variare la progressione dell’ammortizzatore e la forcella è stata sostituita con un’altra maggiormente dimensionata, di più ampia escursione e ricavata dal “pieno”. Il serbatoio supplementare di destra è stato ridotto nelle dimensioni per alloggiare il lungo terminale di scarico realizzato completamente in titanio.

Gaston Rahier concluderà la Dakar 1989 all’undicesimo posto, Charbonnier 14°.

Giovanni Sala alla Dakar 1998

Molto contento Giovanni Sala, al debutto alla Dakar del 1998 e alla prima vera esperienza con road-book e GPS.

«Dopo la prima settimana – racconta il campione di enduro – credevo di aver imparato tutti í trucchi della navigazione; poi mi sono perso un paio di volte e ho capito di… non aver capito nulla. Ma come fanno a leggere le note?».

Giovanni considera comunque l’esperienza positiva e la Dakar una gara interessante. Ecco le differenze con l’enduro.

«La cosa più incredibile è che mi alleno tutti i giorni, vado in moto almeno due volte alla settimana, poi arrivo qui e prendo una gran paga da uno con la pancia e la sigaretta in bocca! Nell’enduro devi sempre guidare al 100% mentre qui bisogna trovare un giusto compromesso tra velocità e navigazione. 

Sicuramente è un’esperienza da ripetere, anche se è la disciplina più pericolosa che io abbia mai fatto. Appena ti distrai, ed è normale quando stai magari dieci ore in sella, cadi. Ci sono degli sterrati in mezzo alle pietre dove viaggi a 130 km/h e se non sei abituato alla velocità, se non hai i riflessi pronti, finisci per farti male».
Fonte Motosprint

Una “eroica” Maglia Nera

Una storia nella storia quella della Dakar 2007. E’ la storia di Ennio Cucurachi. Perché l’Italia che non vince più la corsa e ha meno iscritti della Polonia, mostra il suo campione a rovescio, 135° e ultimo nelle moto a 78 ore 27’42”, ossia è a più di 3 giorni dal leader. Una Dakar diversa, eroica, tremenda: «Sarò caduto 300 o 400 volte, ma mi sono sempre rialzato e ripartito», spiega Ennio.
Cucurachi ha 45 anni: è nato in Belgio ma è di cittadinanza italiana: «Papà leccese, mamma abruzzese, sulla metà del casco ho le 4 stelle Mondiali, sull’altra il tricolore. Corro con licenza lussemburghese perché mi sento europeista e per anni ho corso il campionato velocità belga, oltre alle 24 Ore e Bol d’Or».
Una corsa all’inseguimento: «Da maglia nera. Essere ultimo è una catastrofe. Cadi in disgrazia e succede di tutto. Ho un faro allo xenon che mi mangia la batteria.

Ogni volta devo stiontare la moto per prendere la batteria di scorta e ripartire. Ho rischiato di bruciare il motore: s’era rotta la pompa dell’acqua, ogni 90 km dovevo aspettare un’auto che mi desse acqua. Poi cominciavo a cadere perché non ce la facevo più. Dormivo 20 minuti per ricaricare la batteria umana, ripartivo. E ricominciavo con altre mille disgrazie».
Questa è la mia nona Dakar. Nessuna cosi dura. Sono l’unico ad avere due batterie di scorta, sono quello che ha corso più di notte. Un calvario. Quando arrivo io, la pista è come il campo di battaglia di Caporetto o Verdura. E tu devi continuare a stringere i denti.

La mia moto, una Ktm 660, è la più pesante e la più alta. Pensavo di avere il fisico giusto, invece mi fa impazzire».

L’importante è non mollare: «Si, é una tragedia di Dogol. Alla fine non ti vuoi arrendere mai, perché è come vivere o morire. Quando correvo in velocità, con una Ducati, ho gareggiato in tutte le posizioni possibili per le ossa rotte. Questa è la sola gara al mondo dove finisce meno del 50 per cento dei partenti. E io l’ho conclusa già due volte».
(fonte Gazzetta)