Dakar 1994 | Il KLX-R di Alvaro Bultó e Xavi Riba

Nel 1994 la Dakar cambiò proprietà e l’evento divenne proprietà del gruppo ASO, che tra l’altro aveva e continua ad avere eventi sportivi come la stessa Dakar o il Tour de France.
Il percorso è stato un esperimento che non ha funzionato da quando la gara ha lasciato Parigi per raggiungere Dakar e poi tornare a Parigi. Ovvero una Parigi-Dakar-Parigi con 13.379 chilometri di percorso a cui si sono iscritte 96 motociclette.

 

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Tra questi la Kawasaki dell’indimenticabile Alvaro Bultó, zio simpatico e sportivo che ha fatto il suo debutto alla Dakar dopo aver attraversato varie modalità e il ignifugo Xavi Riba. Riba ha fatto molta esperienza nel test dato che vi aveva partecipato sei volte prima di fare il suo debutto in Kawasaki.

Figlio del fondatore della Bultaco FX Bultó e all’inizio un pilota di motocross, Alvaro è stato il miglior debuttante allaIMG_7156-e1548414682787-225x300 Dakar di quel lontano 1994. L’affascinante Bultó che divenne famoso tra le altre storie per i suoi programmi su TVE, era un regolare nei rally in asfalto, una specialità che è scomparsa e dove è arrivato secondo in Spagna con il fratello Ignacio.

Si è distinto anche come velocista e pilota di Supermotard, prima di abbandonare la competizione motociclistica dopo la Dakar (è tornato in macchina) e concentrarsi su altre sfide come il volo o la caduta libera. Nel 2005 con la sua tuta alare inizia a volare alto: attraversando lo Stretto di Gibilterra in caduta libera e una velocità media orizzontale … 208 Km h!

Purtroppo ha subito un incidente che gli è costato la vita nell’agosto 2013.
Quando nel 1994 Alvaro Bultó e Xavi Riba andarono alla Dakar con la loro Kawasaki, il marchio fu importato da Derbi Nacional Motor, che diede loro due KLX 650-R che erano completamente preparati per la grande avventura africana. La Kawasaki KLX 650 in versione R produceva 48 CV di potenza a 6.500 giri ed era dotata di un singolo cilindro con doppio albero a camme e raffreddamento a liquido.

Il telaio era un doppio raggio perimetrale in cromo molibdeno ereditato dalla versione da motocross a cui dovettero Kawasaki_1994_2essere apportate alcune modifiche poiché il motore della KLX era più alto. Le sospensioni sono state preparate da Felipe Higuera, che è stato uno dei migliori specialisti del nostro Paese e, mantenendo la forcella Kayaba di serie, molle e olio sono stati modificati preservando i 300 mm. viaggio.

Dietro è stato montato un ammortizzatore Ohlins (280 mm). La sezione più laboriosa è stata il montaggio dei serbatoi di carburante supplementari. Due sono stati posizionati nella parte anteriore, cercando di posizionare il peso il più vicino possibile al centro di gravità per ottenere la maneggevolezza. Due serbatoi laterali sono stati posizionati anche nella parte posteriore. Presentava un’impressionante piastra paramotore in Kevlar e non mancava una via di fuga dall’indimenticabile Tavi.

La gara è stata un’odissea per entrambi i piloti, soprattutto per Alvaro Bultó, che ha mostrato grande orgoglio e IMG_7154spirito di sacrificio al traguardo nonostante abbia subito un doloroso infortunio alla mano, risultato di un incidente in moto d’acqua.

Entrambi hanno finito. Riba 10 ° e Bultó 11 ° dopo aver fatto tutta la gara insieme e aver dimostrato come altri piloti nella storia della Dakar, che con una Kawasaki praticamente standard, il sogno di finire la gara più dura del mondo potrebbe essere realizzato.

L’italiano Maletti ha ripetuto la sua esperienza in questo caso su una KLX nel 1998 concludendo 24° nell’edizione Parigi-Granada-Dakar. Un’edizione in cui il pilota “Xicu” Ferrer non ha concluso la gara in quanto ha dovuto abbandonare la sua Kawasaki nella tappa Smara-Zouerat.

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E negli ultimi tempi con la Dakar in Sud America altri piloti hanno realizzato il loro sogno ai comandi di una Kawasaki, tra cui spicca il cileno Patricio Carrera.
 
testo: Alex Medina
fonte: http://kawasakimotos.es/

Dakar 1991 | Ancora una 2×2 ai nastri di partenza

Stavolta le moto 2×2 (due ruote motrici) di turno sono quelle dei fratelli Auribault (Philippe e Erik) che hanno modificato delle Yamaha XT 600. La trasmisione aggiuntiva prende forza all’esterno del pignone catena dove è collocata una coppia conica; vi è poi un giunto cardanico con albero rigido estendibile (per consentire di sterzare) conneso al giunto sulla forcella ed alla secondà coppia conica.

Chi fosse a conoscenza di altre notizie sull’avventura dei fratelli Auribault può comunicarcele via mail a info@parisdakar.it

DAKAR 2003 | KTM 950 LC8 Factory

Porterò sempre con me il ricordo del giorno in cui mi imbattei in una delle moto da fuoristrada più incredibili che il panorama motoristico potrebbe offrire. Era il 3 settembre 2020 e da li a poco avremmo presentato al pubblico il nostro libro Obiettivo Dakar. Gio Sala sarebbe stato il nostro ospite d’onore e già questo bastava per rendere indimenticabile quella giornata. Quando, con una faccia tosta senza eguali, chiesi a Gio se per caso fosse stato possibile avere anche la sua moto in esposizione, la sua risposta fu immediata e disarmante: “se vuoi vai a Bergamo da Nicoli e te la fai dare, per me non ci sono problemi, li avviso io.” E cosi facemmo. Il pomeriggio del 3 settembre, questa belva blu scese fieramente dal furgone e venne sistemata nel suo ambiente naturale: sulla sabbia, anche se non del deserto, ma della battigia di Marina di Ravenna.

Questo KTM è una moto incredibile: potentissima, alta da terra, pesante. Immaginatevi una moto di 200 kg a secco per oltre 100 cv di potenza. Pretende rispetto e incute quasi timore anche solo per spostarla da ferma. Non oso immaginare cosa voglia dire spingere al limite un simile cavallo di razza. Il progetto di questa moto nasce nel 2000 e allo sviluppo del prototipo che vedete in azione lavorarono alacremente (tradotto: arrivarono a percorrere anche 2.000 km al giorno!) Fabrizio e Giovanni, seguiti in ogni passo dal meccanico Bruno Ferrari. I primi test iniziano nel febbraio del 2001 in Tunisia e la definizione della moto da gara è affidata a Fabrizio Meoni, sempre in collaborazione con Giovanni Sala. Caso più unico che raro, dalle indicazioni dei piloti deriva il prototipo che corre, ma non solo. Anche la moto da strada, la 950 Adventure, è figlia della moto da corsa e sfrutta tutte le direttive impartite dai campioni agli ingegneri austriaci.

La 950 Rally nelle prime versioni arrivava a sviluppare oltre 115 cavalli, ma si preferì contenerne l’esuberanza, per preservare le gomme e le mousse che non reggevano una simile potenza sulle lunghe distanze. Per regolamento il peso minimo a secco imposto era di 200 kg, a cui andavano aggiunti i 55 litri di benzina (oltre all’acqua obbligatoria e a svariati ricambi). Potete quindi immaginare che fatica comportasse guidare la LC8 nel deserto per centinaia di chilometri ogni giorno. Eppure sia Meoni che Sala con lei vinsero numerose tappe e Fabrizio la portò al successo nella Dakar del 2002.

La velocità massima era ed è sbalorditiva: il gps di Gio registrò nel 2003 una punta di 208 km/h in pieno deserto.

Il motore LC8 è un bicilindrico a V di 75° di 942 cc, bialbero con 4 valvole per cilindro e alimentazione a carburatore. Cambio a 6 marce con frizione a comando idraulico. Il telaio è a traliccio in tubi di acciaio, mentre il forcellone è in alluminio.

Moto: KTM LC8 950 Rally Factory 2003
Motore: 2 cilindri a V di 75°, 108 cavalli, 942 cc, 8 valvole, raffreddamento a liquido, alimentazione a carburatore
Peso: 200 kg a secco
Serbatoi: 55 litri
Altezza sella: > 100 cm
Velocità massima: 208 km/h

Dakar 1985 | Beppe Gualini. Ritirato sarà lei!

di Nicolò Bertaccini

E adesso basta, questo sassolino è giusto toglierselo dalle scarpe, anzi, dagli stivali. Perchè in giro ci sono mille documenti, tutti ufficiali e su questi compaiono solo sentenze: fuori tempo massimo, ritirato, squalificato, settanduesimo con ventidue arrivati al traguardo (!?). Invece, sul Lago Rosa e a Dakar, nel 1985 Beppe Gualini c’è arrivato. Eccome. Certo, a modo suo. Però se rompi un motore, ti fai trainare, cadi in mare, ti tirano i ricambi manco fossi Jeeg robot, allora è giusto che ti venga riconosciuto quanto hai fatto.

Dicevamo, anno 1985, il nostro Buon Samaritano Gualini è in sella ad una Yamaha Tenere allestita con un kit Byrd. É giunto alla penultima tappa, il Lago Rosa ed il traguardo sono ad un passo. Manca poco, si tratta di gestire quel che resta della moto, un occhio ai fuori tempo ed è fatta. Succede l’imprevisto, anzi, l’ennesimo imprevisto. La moto si ferma. Beppe fa mille controlli, mille check ma la moto non ne ha più, il motore è andato, cotto. Manca poco, si sente già l’odore di acqua salata ma non basta. Beppe non demorde. Ci prova. Da lì a poco incredibilmente passa il camion assistenza Byrd (Belgarda Yamaha Racing Division) che “non si sono neppure fermati, mi han buttato giù un motore e sono ripartiti”.

Il camion era preso dal seguire i piloti ufficiali Belgarda ma si ferma per capire di cosa avesse bisogno Beppe. Serve un motore, ad una tappa dall’arrivo c’è la possibilità di scaricarne uno al volo e lasciarglielo perché provasse a montarlo e farlo funzionare. Un motore non nuovo, anzi un po’ sfatto. Però con un grandissimo pregio: si accendeva e funzionava. Per Beppe parte una corsa contro il tempo, smontare e rimontare per poter arrivare entro il limite. Quindi, dopo una ventina di giorni di competizione, con la moto che ormai si regge assieme solo per miracolo ed una stanchezza fisica che difficilmente si può immaginare, il nostro si mette a sostituire il motore della sua Ténéré. Roba complessa in una officina.

 

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Ma Beppe ha metodo, conoscenze, pazienza e una forza disumana. Sostituisce il motore e riparte. Certo, la moto riparte alleggerita di alcune inutili infrastrutture, come si può vedere in alcune foto. D’altronde non è che potesse mettersi a rifinire le virgole, l’importante era arrivare al bivacco con la moto accesa, poi avrebbe potuto rattoppare ulteriormente in vista dell’ultimo giorno di gara. E siamo al fatidico ultimo giorno, l’ultima tappa, quella in cui nella testa di ogni pilota riecheggia una sola frase “non fare cazzate”. Eppure, come abbiamo visto succedere per tanti, l’ultimo km è sempre il più insidioso.

Beppe corre con la sua Yamaha che ormai sembra uscita dal film Mad Max. Corre lungo il bagnasciuga, dove la sabbia è più compatta e più agevole da attraversare. Succede ovviamente un imprevisto, altrimenti non sarebbe la Dakar. Sta procedendo assieme ad altri due piloti, sono abbastanza ravvicinati. All’improvviso un’onda anomala o comunque spinta un po’ più in avanti sulla battigia ed ecco i tre che si ritrovano in terra. Beppe fa un bel tuffo. Si rialza biascicando qualcosa in bergamasco e prova a riavviare la moto scaricando sul pedale di avviamento rabbia e frustrazione. Nulla. Riprova e nulla. Riprova con sempre più rabbia fino a quando rompe il kicksarter.

É finita, la moto non parte più. Anche se ormai è fatta, potrebbe caricarsi la moto in spalla e arrivare al traguardo. Il destino però non ha finito con Beppe e gli mette sulla pista un altro partecipante. Legano la moto e la Yamaha si fa trascinare per qualche metro. Un centinaio ne serviranno prima che un borbottio ed uno scoppio annuncino la ripartenza. La manovra non rientra fra quelle vietate, farsi aiutare per avviare la moto è concesso. É fatta, la moto riparte e Beppe può portarla fino al traguardo, trattenendo il fiato. Ventitreesimo recita il documento nelle sue mani. Ed alla fine, fra mille siti, mille reportage, mille documenti ufficiali l’unico che contiene la verità, per noi, è quello di Gualini. Lui nel 1985 a Dakar ci arrivò, entro il tempo limite.

Dakar 1992 | Patrizio Fiorini: quando persino Peterhansel mi chiese chi fossi…

È vero, alla Dakar ci sono persone speciali. Ne ho conosciute tantissime e con grande stupore, anche tra i piloti ufficiali. Tanti, anzi, tutti quelli coi quali ho avuto a che fare, anche per uno scambio di battute, sono stati tutti gentili, disponibili e per nulla superiori. Franco Picco non ha esitato a smontarmi sella e serbatoi per trovare il motivo di un piccolo inconveniente. Anche quando mi investì l’ubriaco a Montpellier, lui e Edi Orioli si fermarono per aiutarmi a ripartire con una pacca sulla spalla “dai tieni botta che ce la fai” che fece più effetto di qualsiasi antidolorifico. Franco mi diede gli strumenti senza esitare… “me li paghi poi a casa”.

Danny La Porte alla Le Cap fece il mio tempo al prologo e ci scherzammo su in fila per la cena al primo bivacco in Africa. Meoni non avevi neanche bisogno di cercarlo, ti salutava prima lui e ti chiedeva come va. In Passato il “Bogio” Andrea Marinoni mi diceva “bravo, vai piano…” ed io “non c’è problema, più di così non vado!!”

Ma chi mi ha fatto persino sorridere è stato il grande Stèphan Peterhansel. Alla Le Cap mi accompagna sul suo furgone camperizzato “Tullio Provini”, con Chicco Piana e rispettive signore. La moto infilata metà in bagno e metà in corridoio. Una tirata fino a Rouen dove erano allestite le verifiche. Passo la parte amministrativa e entro in un capannone affollato di gente coi piloti in fila per marche. Io spingo la mia moto e mi accodo, tutte Yamaha, private e ufficiali, in testa Motor France e Byrd.

Arrivo e già mi guardano, unico coi meccanici al seguito e due signorine che mi aiutavano a tenere documenti, casco e tuta, mentre Tullio e Chicco si prodigavano a fissarmi le luci obbligatorie posteriori che avevo ignorato. Pochi istanti e nel capannone irrompono dieci (10!) miei amici con un urlo da stadio “FIOREEEE” partiti da Bologna senza dirmi nulla, tutti in un camper da sei. Una vergogna incredibile, pure i tifosi!

Poi finalmente si parte! Con i road book di metà gara infilati ovunque nella giacca, vestito come un palombaro dal freddo che c’era. Due giorni di statali e provinciali fino a Marsiglia, passando da Parigi e la Borgogna. In un tratto di montagna, nevicava e l’ansia di arrivare in ritardo mi fece saltare diversi punti di ristoro dove i locali avevano allestito delle vere e proprie feste di paese con rampe, archi, striscioni e interviste. In un paesino mi diedero un caffè ustionante e mi appoggiarono due croissant sulla cassa filtro, via al volo anche lì con la merenda in bilico sui serbatoi.

Così raggiunsi un gruppo e mi accodai, c’erano persino le due Yamaha ufficiali e il passo era buono per me, in terra c’era uno sottile strato di neve compatta. Arrivati ad una grossa area di servizio vedo che entrano tutti per una sosta e il pieno, mi accodo, ma prima di entrare Peterhansel, probabilmente ingannato dal mucchio di neve a lato strada, non vede il marciapiedi e scivola in terra. Lo sento smadonnare, il suo assistente (su moto stradale) lo aiuta a sollevare a fatica, allora scendo e gli afferro il codino e in tre tiriamo su al volo la moto.

Appena entrati, insieme al distributore, un’altro urlo da stadio “FIOREEEEE”, quattro amici ubriachi, in giro per cantine a festeggiare il capodanno! Appena hanno visto delle moto sono corsi urlando ad abbracciarmi. Sento una mano sulla spalla ed era lui, Peterhansel, che mi guarda dietro la schiena per leggere il nome e mi dice: “excuse moi Fiorini, ma tu chi sei in Italia con tutti si tifosi che ti porti dietro?” La mia risposta fu: “nessuno, non ho mai vinto niente, ma ho un sacco di amici”. E ancora risate!

DAKAR 1994 | CIRO DICE BASTA

Foto Gigi Soldano
Testo di Biagio Maglienti tratto da Motociclismo

Ciro ha detto stop; basta con la Dakar e le gare. «A trentotto anni — dice Alessandro De Petri, in arte “Ciro” — bisogna anche saper smettere». Conoscendolo sappiamo quanto gli possa essere costata questa decisione. Tanto è che ha voluto concludere un’importante parentesi della propria vita in modo poco traumatico, schierandosi al via della 16a Dakar da semplice partecipante, quasi un turista. «Ma non pensiate sia stato comunque facile — continua il bergamasco — reprimere il mio istinto. Mi sono dovuto imporre una forma di autocontrollo. Nelle prime tappe ha prevalso il De Petri pilota. Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un 10458928_10203400208157276_1120159053910473021_n - Copiamatto. Assurdo! Al termine della seconda speciale ero 35esimo; sono partito e ho iniziato a tirare. Ho sorpassato quasi tutti, arrivando a un minuto dai primi. Li superavo nei posti più impensati, difficili, rischiando il tutto per tutto. Poi ho riflettuto; ho capito che non era questo il motivo per il quale avevo deciso di prendere parte a questa gara ancora per una volta. Nella tappa successiva ho preso il via e, percorsi dieci chilometri, mi sono fermato. Ho messo la moto sul cavalletto e ho aspettato un quarto d’ora. È stata una vera e propria sofferenza vedere gli altri passare e io lì fermo; ma alla fine ce l’ho fatta. Frenato l’istinto agonistico ho iniziato la mia vera Dakar; una Dakar da “esploratore”, per apprezzare tutto quanto in questi undici anni mi ero perso. Nuove emozioni, luoghi e persone; ho fotografato tutto nella mia mente e presto, anzi prestissimo lo racconterò in un libro. Beninteso, non per protagonismo o a scopo di lucro (il ricavato andrà in beneficenza). Unicamente per dare una volta per tutte il reale volto ad una gara troppo spesso non capìta».

 

 

Alessandro De Petri ha detto basta a trentotto anni, dopo aver vinto per tre volte il Rally dei Faraoni, due il Tunisia, raccogliendo un totale di 67 successi parziali di tappa. È stato per anni l’italiano simbolo di questo genere di competizioni. Gli è mancata, forse più per sfortuna che per altri motivi, la vittoria importante. Quella Dakar sognata ad occhi aperti in diverse occasioni, della quale ha sentito più volte il profumo e che il destino avverso gli ha sempre negato. Ma De Petri non sembra curarsi di questo “piccolo” particolare.

«È chiaro, mi pesa non aver mai vinto una Dakar, perché da pilota professionista quale ero, non vincere questa competizione è un po’ veder 11140119_10204842355488178_6697427028410064163_nsfumare il sogno per il quale hai impegnato tutte le forze e parte della tua vita. Però analizzando obiettivamente il problema, senza farmi illusioni, sono ugualmente soddisfatto. Se avessi corso questa gara con un’altra testa probabilmente il successo non mi sarebbe sfuggito. Il mio carattere esuberante me lo ha impedito. Con questo non rinnego nulla di ciò che ho fatto in questi anni. Sono così in gara e nella vita, non avrei potuto comportarmi diversamente. Se dovessi tornare indietro rifarei tutto quanto, non cambierei nulla e soprattutto non cambierei mai i miei successi parziali con una vittoria finale».

La Dakar è una gara dura, invivibile, ma proprio per questo affascinante. «È unica al mondo — continua Ciro — e solo chi vi ha partecipato può realmente capire le motivazioni che spingono i piloti ad affrontare fatiche sovrumane, mettendo a dura prova e a volte superando il limite di sopportazione per qualsiasi essere vivente». E dieci anni di Dakar non si dimenticano tanto facilmente. Soprattutto se, come nel caso di De Petri, sono stati parte integrante della sua vita di pilota e inevitabilmente di uomo.

 Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un matto, assurdo!

Così Ciro inizia: «Che avventura incredibile. Il mio passato è indissolubilmente legato alla motocicletta. Ho iniziato a gareggiare prestissimo e con buoni risultati, nel cross e nell’enduro. Terzo in un mondiale cross 125 e campione europeo di enduro. Poi ho deciso di abbandonare le corse per dedicarmi alla mia attività principale, quella di odontoiatra. Ma il futuro stava per riservarmi ancora un qualcosa di straordinario. A ventott’anni sentii parlare di una gara con un “matto” che attraversava l’intero deserto sino a Dakar, partendo da Parigi. Gareggiava contro le auto e vinceva».

Per la cronaca il “matto” era Neveu e la gara la Parigi-Dakar «Non ho avuto dubbi e mi imbarcai in quella che poi sarebbe divenuta, a breve, la mia vera professione. Andai da Farioli e chiesi una moto; poi comprai una Range-Rover usata e ingaggiai Felicino Agostini (fratello di Giacomo e cognato di De Petri) e Giacomo Vismara. L’avventura era iniziata».

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Lo guardi e il suo volto tradisce l’enfasi. La prima esperienza e l’ultima sono indubbiamente quelle che lo coinvolgono di più a livello emotivo. I ricordi lo riempono e si accavallano. Si ricorda di Claudio Torri, un illustre sconosciuto, ma… «La Dakar, non vorrei cadere nella retorica, è una vera scuola di vita. Ti insegna a lottare, a cavartela da solo e ti aiuta a capire la gente. Un personaggio in particolare mi è rimasto nel cuore. Un “privato”, l’architetto milanese Claudio Torri. Si è presentato al via con noi nel 1983. Era per tutti la prima esperienza, ma per lui lo fu ancora di più. Si era già mezzo distrutto (fisicamente) nel prologo e continuò questa sua opera di annientamento nel prosieguo della competizione. All’imbarco per l’Africa rischiò di non espatriare; aveva posato i documenti e il portafogli sulla sella della moto. Quando l’elicottero si alzò in volo lo spostamento d’aria sollevò i documenti e i soldi che finirono in acqua. Poi, qualche giorno più tardi, al limite tra il comico e il grottesco, nel tentativo di raddrizzare il manubrio della mia moto, aiutando Agostini, prese in mano il martello e distrattamente si diede una martellata in testa. Per quasi tutta la gara Torri fu il protagonista di un continuo succedersi di eventi di questo genere. Mai un lamento. Ore e ore consecutive in sella senza dire una parola: fantastico e incredibile!».

Tra i ricordi spunta anche il mito, quello di Sabine. La Dakar è legata a questo nome nel bene e nel male. De Petri lo ricorda così: «Non DePetri_1994_1sbagliava mai, era capace di prendere decisioni importanti, dalle quali dipendeva l’incolumità di tutta la carovana della Dakar Ha sempre avuto ragione e i piloti, i meccanici e tutto l’entourage al seguito della gara hanno iniziato a fidarsi ciecamente di questo francese spuntato dal nulla, sino a quando la sua figura è divenuta un punto di riferimento costante per tutti noi, un faro da seguire. E quando è mancato, quando è giunta la notizia che l’elicottero si era schiantato al suolo, tutta la carovana in silenzio è ritornata sui propri passi andando sul luogo del tragico evento. Era notte; quando arrivammo ci si presentò una scena apocalittica: lamiere sparse ovunque, non c’era il minimo segno di vita. Non potrò mai dimenticare».

Questa è la Dakar, nei suoi accenti più forti, ricordata da Ciro De Petri. Il terribile incidente al Faraoni nel 1992 lo ha convinto ad abbandonare. «Sì probabilmente la molla che ha fatto scattare in me la decisione di smettere è venuta anche a seguito dell’incidente. Due mesi di coma non sono uno scherzo. Ma, sembrerà strano, un controsenso, l’incidente è stata l’occasione per risalire nuovamente in sella, per l’ultima volta. Uscito dal corna mi sono lentamente ripreso, ma mi rimaneva una sorta di intorpidimento e di stanchezza; un vero e proprio tormento. Una mattina, tre mesi fa, ho deciso che sarei ritornato a correre. Ho ripreso ad allenarmi e immediatamente mi sono passati tutti i disturbi; avevo già vinto, ancor prima di iniziare la gara».

Dakar 1985 | La Cagiva si regala Hubert Auriol

Se c’è qualcuno che può giudicare BMW e Ligier-Cagiva costui è senz’altro Hubert Auriol, il trentenne francese vincitore con la BMW di due Parigi-Dakar, passato quest’anno alla Cagiva per sviluppare la 750 Elefant. Naturalmente Auriol ammette la superiorità della sua moto attuale.

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«Non posso sbilanciarmi più di tanto – dice – perché ho provato la Ligier-Cagiva solo nel Rally di Algeria il cui percorso è assai diverso da quello della Parigi-Dakar; l’impressione iniziale è che la potenza tra le due moto sia più o meno equivalente; la sospensione posteriore della Cagiva è assai più efficiente, quanto al peso credo che la Ligier-Cagiva sia inferiore di una quindicina di chilogrammi rispetto alla BMW, quindi…»

Per l’ex pilota BMW e «re» delle gare africane è meglio la Cagiva

 I maligni dicono che hai lasciato la BMW per via della rivalità con Rahier, l’ex crossista belga che era stato assunto per farti da spalla due anni fa e nell’ultima edizione ti ha soffiato la vittoria…

«E una spiegazione semplicistica questa: ho cambiato squadra per diverse ragioni. Dopo tanti anni passati con la BMW cercavo nuovi stimoli, e collaborare con un team entusiasta come quello della Cagiva per realizzare dal nulla una moto vincente è uno stimolo enorme».

Rahier?

«No, non è stato lui la causa».

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La squadra Ligier-Cagiva è in realtà italiana o francese?

«Marinoni. uno dei piloti, è italiano; due meccanici al seguito sono italiani, tutti gli altri sono francesi. Ci siamo divisi i compiti: la Cagiva ha costruito la moto, l’ha modificata seguendo le nostre indicazioni dopo le prime prove; io che ho più esperienza di loro di corse africane ho organizzato il team».

Al Rally di Algeria le Ligier-Cagiva hanno sofferto di un guasto corrente: la rottura dei cuscinetti del cambio e la bruciatura dei dischi frizione. Per la Dakar il problema verrà risolto con nuovi cuscinetti e con l’adozione di un circuito di raffreddamento integrale dell’olio che lubrifica cambio e frizione.

Tratto da Rombo

Dakar 1985 | La Cagiva Elefant 750 secondo Giampaolo Marinoni

Il deserto? Per un bergamasco abituato alle montagne come me è comunque stupendo; mi piace correrci, mi piacciono le piste africane. mi piacciono i raid perché sono una scuola di vita, un modo di sentirsi libero». Eppure Giampaolo Marinoni. 26 anni, nato in provincia di Bergamo, un passato di corridore professionista nelle gare europee di regolarità, una militanza che dura ancora nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro, quelle cui appartengono parecchi crossisti, porta ancora sul volto, a giorni di distanza, i segni del “suo” deserto.

Giampaolo Marinoni non crede alla superiorità della BMW

Rimasto appiedato per la rottura della frizione della Ligier-Cagiva nella penultima tappa del rally d’Algeria, Marinoni prima ha percorso una dozzina di chilometri a piedi da solo nella sabbia, poi ha trovato un passaggio sulla Yamaha 600 dell’americano Stearns, finito fuori tempo massimo, e infine è caduto rovinosamente di faccia assieme all’americano perché questi, forse per la rottura della sospensione posteriore o per aver messo le ruote in due solchi diversi, aveva perso il controllo della moto in pieno rettilineo.

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Rancore nei confronti del deserto Marinoni non ne porta: «sarei pronto a ripartire anche oggi per un’altra corsa», dice. Non dovrà aspettare molto perché la Parigi-Dakar, la gara alla quale prenderà parte sulla Ligier-Cagiva al fianco di Auriol e Picard per contrastare il passo a BMW, Honda, Yamaha e Suzuki, avrà inizio tra un mese esatto: il primo gennaio. Marinoni e Auriol hanno preso molto sul serio la corsa africana: la Ligier-Cagiva (ma chissà perché il nome Ducati, che è la marca che ha fornito il motore e il cui reparto corse ha materialmente lavorato dietro la moto non viene mai citato…) nel momento in cui debutterà alla Paris-Dakar avrà alle spalle due sole corse di prova: la Baja spagnola e il rally di Algeria novembrino; in questa ultima gara la moto italiana ha evidenziato doti enormi anche se la fragilità di alcuni componenti, frizione in particolare, l’hanno costretta al ritiro.

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La Ligier-Cagiva monta il motore bicilindrico a L 4 tempi di 750 cc della Ducati: è lo stesso motore usato nelle corse di endurance, anche se la potenza è notevolmente inferiore. Anche il motore della BMW è bicilindrico, ma con i cilindri boxer (a 180 gradi tra loro); il fatto che il 980 cc BMW favorito derivi da un propulsore stradale assai più «calmo» del Ducati significa che il motore italiano, a proprio agio nelle gare in circuito, sia meno adatto per competizioni desertiche?

Marinoni non è di questa opinione, tutt’altro. «Io penso che le caratteristiche del motore Ducati siano buonissime per gare africane. Anche perché in pista la Ducati utilizza motori che sviluppano circa 95/96 cavalli. Nel deserto serve molta meno potenza. Questo motore avrà dai 65 ai 75 cavalli: è stato depotenziato per guadagnare coppia, tiro in basso. Questo motore da Africa, che è un 750, gira a regimi inferiori del Ducati 650 stradale ma ha molta più progressione: a 5000 giri sviluppa già 52 dei 70 cavalli di potenza massima.» La rivalità tra Ligier-Cagiva e BMW alimentata dalle dichiarazioni polemiche dei rappresentanti delle due squadre. La marca tedesca ha spavaldamente dichiarato che le loro bicilindriche, edizione ’85, vincitrici un paio di mesi fa del Rally Faraoni, sviluppano oggi un centinaio di cavalli. Almeno trenta in più di quanto ammesso dalla Cagiva. Il che, se fosse vero, significherebbe possibilità di ottenere velocità di punta più alte.

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Marinoni invece giudica queste affermazioni pura pretattica. «Non ci credo; a me piace dire le cose come stanno: anch’io potrei dichiararti 90 cavalli di potenza senza averli, BMW dichiara 100 cavalli c Rahier, il loro pilota, dice che la sua moto a vuoto, senza benzina, pesa 140 chili, cosa per me inaudita perché tutti sanno fare i conti: una moto come la BMW, di serie, non può pesare meno di 155 chili. Ammettendo pure che i tedeschi ci abbiano lavorato attorno per alleggerirla, non possono aver guadagnate, tanti chili perché troppi sono i componenti da aggiungere a una moto perché sia in grado di affrontare una Parigi-Dakar. Componenti che hanno una massa. Poi un motore 1000 come il loro ha bisogno di determinate masse per funzionare. Solo il motore BMW pesa 60 chili; hanno forcelle eguali alle nostre, le ruote sono le stesse, la trasmissione a cardano BMW penso pesi di più della nostra catena; allora dove hanno guadagnato quei 20-30 chili rispetto alle nostre Cagiva che arrivano a 160-170 kg? Solo con serbatoi in plastica?».

Una delle modifiche più curiose apportate al motore Ducati 750 della Ligier-Cagiva, rispetto al propulsore da strada, è il capovolgimento della testata del cilindro posteriore. «Lo scopo – spiega Marinoni – è quello di avere tutti e due i carburatori compresi tra i cilindri. Il vantaggio è immediato: il carburatore dietro al cilindro avrebbe ricevuto troppa aria calda: questa sistemazione invece ci per-mette di avere i due carburatori vicini, a portata del grosso filtro aria che ha una aspirazione diretta dal telaio tramite due fori ovalizzati». Un serio problema nelle moto per gare africane è l’autonomia: devono essere in grado di coprire almeno 450-500 km senza rifornimenti. Inoltre nel deserto i consumi medi aumentano vistosamente perché il fondo sabbioso, peggiorando l’aderenza. obbliga spesso motore e ruota a lavorare a vuoto; si spiegano perciò i giganteschi serbatoi che hanno ispirato la moda «africana».

La Cagiva, il cui motore bicilindrico è ancor meno parco di altri, ha aggirato l’ostacolo con due serbatoi. «Quello superiore contiene 49 litri – dice Marinoni – in più ne abbiamo uno sotto la sella da 14 litri; prima consumiamo tutta la benzina del serbatoio principale in modo che si abbassi il baricentro della moto; per ultimo impieghiamo il serbatoio secondario. Abbiamo una pompa a depressione. che alimenta i carburatori. Naturalmente con una sessantina di chili di carburante a serbatoi pieni l’assetto cambia, bisogna regolarsi di conseguenza prima di partire».

Tratto da ROMBO
di Alberto Sabbatini

DAKAR 2003 | Il bilancio del giorno dopo di Gio Sala e Arnaldo Nicoli

intervista di Danilo Sechi

I frenetici ritmi imposti dal Rally Dakar sono alle spalle, i campioni dell’enduro Giovanni Sala e Arnaldo Nicoli – tra i protagonisti della gara in terra africana quest’anno conclusasi sulle spiagge di Sharm El Sheikh, in Egitto – hanno ripreso le attività abituali, i loro pensieri sono già rivolti ai prossimi appuntamenti previsti dalla loro disciplina d’elezione  ma prima corre l’obbligo di fare un bilancio sull’ultima esperienza vissuta.

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“Non posso proprio dire di essere soddisfatto di come sia andata” racconta Sala, 39 anni, di Gorle “questa era una edizione della Dakar piuttosto vicina alle mie caratteristiche, dove potevo fare proprio bene, invece mi ritrovo solo con un 14° posto finale. Stavolta però le mie colpe sono davvero limitate, devo prendermela con altri fattori. Innanzitutto la gara non era adatta al mio bicilindrico, troppo pesante e quindi poco maneggevole tra le tante pietraie e piste sinuose che abbiamo incontrato, e questo mi ha rallentato molto soprattutto in Tunisia, poi sono stato frenato dapprima da una gomma che mi si è letteralmente squagliata, poi da problemi al motore proprio nella tappa più adatta ai bicilindrici e infine anche da un tubicino di alimentazione che non faceva arrivare il carburante al motore. Insomma un continuo tribolare che mi ha

Paris-Dakar 2003 Gigi Soldano

Paris-Dakar 2003 foto Gigi Soldano

demoralizzato.”

2003-giovanni-sala 2– Comunque un paio di acuti non sono mancati. “Si, due vittorie di tappe sono arrivate. E volendo vedere il bicchiere mezzo pieno non sono neanche incappato in brutte cadute, da questo punto di vista è andata bene. Va però anche detto che mi sono preso una brutta influenza e per qualche giorno ho corso con la febbre e imbottito di medicinali… non mi era mai capitato, sarà stata l’incredibile escursione termica della Libia. Vorrà dire che la prossima volta farò anche il vaccino antinfluenzale!”

– Per la stagione enduro 2003 quali sono i programmi e gli obiettivi? “Dovrei correre nella classe 250 4 tempi ma al momento non ne sono ancora del tutto sicuro perchè la nuova Ktm non è ancora pronta. Parto per vincere i titoli mondiale e italiano e per meritarmi un posto nella nazionale che correrà in novembre la Sei Giorni in Brasile, naturalmente me la vedrò con avversari fortissimi e nessuna sarà un’impresa facile. In questi giorni mi concederò qualche giorno di sci in montagna, ospite del mio meccanico della Dakar, che abita a Innsbruck, poi la prima gara sarà ad Arcore il 9 febbraio”.

Ancora più romanzata la Dakar di Arnaldo Nicoli che, su un camion di assistenza veloce del team Ktm, ha rischiato la vita quando una mina, all’ingresso in territorio egiziano, ha distrutto la ruota posteriore del loro mezzo costringendolo alla resa. “Ho quindi proseguito la mia avventura sull’auto del meccanico di Fabrizio Meoni” spiega il pilota di Ardesio “e siamo arrivati sino al traguardo finale, seppur seguendo tracciati alternativi più agevoli. Fra l’altro la mia presenza è risultata anche assai utile alla fine della 14a tappa, tra Dakhla e Luxor, dopo che Meoni era caduto malamente ed aveva semidistrutto la moto nel tentativo di recuperare terreno sul leader Sainct. Ci abbiamo lavorato fino alle tre di notte, per riconsegnarla al meglio al campione toscano e consentirgli almeno di tentare la difficile rimonta. Lui ci ha provato ma non ce l’ha fatta, peccato”.

– Poi cosa è successo? “Sono rientrato a Bergamo e ho ripreso il mio lavoro alla Ktm Italia, a Gorle, ma adesso mi prendo una settimana di vacanza, penso proprio di essermela meritata!” – Nel settore enduro cosa l’attende? “Quest’anno correrò con la Husaberg partecipando al campionato italiano nella classe oltre 4 tempi”.

DAKAR 1998 | L’ultima fatica di Aldo Winkler

La Dakar è come una malattia ti entra nel sangue e non te ne liberi più. Il lavoro era diventato molto impegnativo e il tempo a disposizione scarseggiava. Però la Dakar stava cambiando, potevi comprare una moto KTM già pronta per I’Africa, quasi uguale a quelle ufficiali, un sogno! Bellissima! Potevi fare il kit assistenza dove prendere quello che ti serviva (a pagamento). Potevi anche comprare e farti montare i copertoni con mousse!!! (Esagerato! Questo, prima, era un dramma). Tutte queste facilitazioni non potevano non farmi cadere in tentazione. Con Alberto Morelli, ormai diventati super amici, prendiamo la decisione. Ci iscriviamo e portiamo il meccanico aviotrasportato Adriano Micozzi in comune. L’esperienza Dakar è unica nel suo genere, ti devi concentrare e pensare solo ad una cosa, con una intensità fortissima, Winkler_1998_1 vivendo intensamente la natura e la competitività! Questa immersione totale nella corsa ti fa sentire pieno di vita e scompaiono tutte le ansie esistenziali che ci affliggono nel quotidiano. Per questo ci sono ricaduto! Sapendo che ci sarebbero molti momenti in cui avrei maledetto il momento in cui avevo deciso di tornarci.

Partenza da Parigi, sempre una grande emozione, il tempo è brutto, molto brutto, nebbia, freddo. A metà della Francia ci fanno fare una speciale. Siamo attrezzati per fare 1.000 km invernali .cado nella speciale. Che caldo così vestito e con il casco che traballava! E dopo aver lavato la moto via, si riparte completamente sudato. A Narbonne ci sono doccia e albergo, ma poche ore di sonno. Micozzi arriva col furgone con tutte le nostre cose.

Winkler_1998_2Colazione e trasferimento al parco chiuso. Prima della speciale ci devono dare la tabella di gara ma siamo in tanti ed è difficile dar retta a tutti. Sono in ritardo sulla tabella a causa della coda, che pensavo fosse veloce e scorrevole così ho lasciato la moto accesa, ma quando riparto la frizione non stacca. Preoccupato, faccio la speciale molto piano, e subito dopo ci sono i lavaggi. Per fortuna ci lasciano imbarcare le moto sul furgone e dormo dietro sotto le moto. Arriviamo a Granada alle 2 del mattino.

GRANADA ALMERIA
Sveglia all’alba, in programma due speciali: la prima su un fettucciato fangoso, la seconda molto bella con bellissimi paesaggi ad allietare i concorrenti. Poi ci imbarchiamo. Nel porto il primo spavento. La moto, che era bellissima e super guidabile e stabile, aveva solo un difetto: la messa in moto era a sinistra, e non solo non ero abituato, ma avendo la caviglia sinistra bloccata e dolorante, era davvero difficile metterla in moto. A causa di questo del mio problema fisico e dal fatto che in Austria avessero, non so per quale motivo deciso di rendermi la vita così difficile, fatto sta che la moto non ne voleva più saperne di partire. Ho impiegato ben 20 minuti per rimetterla in moto.

ER RACHIDA – OUARZAZADE
Speciale difficile con molta navigazione. Diversi concorrenti in ricerca del “cp”, navigo senza tracce per GPS, capisco però che sono Winkler_1998_3indietro, probabilmente ho fatto meno chilometri ma più lenti. La moto è fantastica, essendo così stabile puoi andare fortissimo. Si fa rifornimento. Che bello, danno 15 minuti a disposizione, mentre prima si faceva la coda in speciale e tutti si azzuffavano per passare davanti. Probabilmente, in un rettilineo molto veloce a onde, trovo una sequenza che mi rimbalza facendomi cappottare in avanti. Mi ricordo che vedevo tutto crepato come avessi davanti un parabrezza rotto. Sono totalmente “sbaccalito”, per fortuna arriva Alberto che prende in mano la situazione. Prima cosa mi ripara la visiera del casco perchè chi batte la testa con segni sul casco viene fatto ritirare d’ ufficio. Infatti, passa auto dell’organizzazione, ci guarda, vede che è tutto ok e va via. La moto è distrutta, non avevo più il cupolino e il telaietto posteriore era tutto piegato, il manubrio storto, e quando la accendo esce l’olio dal tubo del radiatore dell’olio che tranciato di netto. Alberto fa il miracolo: fa un “by pass” e così mi fa ripartire. Sono stato dietro di lui per un po’, ma non ero in me, in evidente stato di shock. Vedo la polvere di un’ auto e parto a manetta per raggiungerla, Alberto non riesce a starmi dietro, così lo perdo. L’auto purtroppo si era persa, insieme cerchiamo la strada giusta e solo in quel momento mi accorgo che Alberto non c’era più dietro di me! Nell’urto perdo la “balise”, la recupero e la tengo tra le gambe. Mi accorgo che mi sanguina il naso. Lascio perdere l’auto e proseguo con il GPS, così arrivo alla fine della speciale. Trovo chi mi dà un po’ di olio motore per rabboccare la perdita. Faccio il trasferimento e comincio a sentire dolori dappertutto, il ginocchio e il pollice destro in particolar modo. All’arrivo vado direttamente in infermeria. Adriano vede la moto e si mette le mani nei capelli, va da KTM e comincia una lunga notte. Spenderò 6.000.000 di lire di ricambi.

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OUARZAZADE – SMARA
Un po’ titubante riparto al mattino, non mi sarei osato a non partire per rispetto verso Adriano che ha lavorato tutta la notte facendomi trovare una moto meglio che nuova, perfetta come l’avevo comprata! Si parte prestissimo, ancora al buio per il trasferimento, con un freddo pazzesco per poi farci attendere un sacco alla partenza in attesa dell’alba, perché si parte solo con la luce. Parto cauto quasi un tipo di guida turistica, sia per il dolore che provavo, che per “la strizza” presa. Mi si rompe la mousse, monto la camera d’aria e arrivo a Smara col buio. Mannaggia, avevo bisogno di riposo. Faccio fatica a piegare il ginocchio, è molto gonfio. Il pollice mi fa male e faccio fatica ad impugnare la manopola, e ancor più fastidioso, mi fa male il coccige, dolore che mi condiziona nella guida. Anche la mascella è tutta anchilosata, soffro tanto.

 

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ZOUERAT – EL MREITI
Tappa difficilissima, molto lenta con passaggi degni di una gara di trial. Tantissime dune di sabbia difficili. Una tappa veramente estenuante. Le botte prese nei giorni precedenti le sento tutte. Mi insabbio molte volte. Arrivo al rifornimento, raggiungo Quaglino fermo poche centinaia di metri prima senza benzina. Sto per tornare ad aiutarlo ma mi accorgo che mi si era aperto un serbatoio posteriore che perdeva copiosamente, e nel frattempo qualcuno si era fermato ad aiutarlo. Riparto, ora però vado a manetta senza consumare benzina. Sono Winkler_1998_6stanchissimo. Arriva il terribile buio e devo fare ancora 60 km. Andare al buio è veramente difficile e rischioso. Arrivo sfinito, ma a El Mreiti non ci sono nè assistenza, nè aviotrasportati. Smonto il serbatoio, dei signori gentili di un auto olandese mi aiutano, con un coltello rovente sciolgo la plastica del serbatoio e saldo la crepa che si era aperta. Dormo poco e sono tutto rotto, ora il dolore è davvero forte. Mi sono maledetto più volte di essere tornato a correre.

EL MREITI – TAOUDENNI
Un’altra tappa difficile, tante dune e molto ripide, per fortuna la sabbia è relativamente dura. Anche se ormai sono in “cruise-mode”, cerco di essere regolare senza correre rischi e soprattutto non farmi ulteriormente male. Ho fatto una gran parte della tappa senza nessun tentennamento, ho superato molti piloti, ma ad un certo punto mi infilo in un buco di sabbia e mi insabbio. Mannaggia! Per uscire di lì ho speso tutte le mie residue energie mettendoci parecchio tempo, più di 30 minuti per tornare in sella. Riparto ma non più lucido, non riuscivo ad andare come prima. Mi accorgo che perde di nuovo il serbatoio, e si rompe la guarnizione dell’olio. Benzina e olio mi finiscono addosso, sono tutto macchiato e sporco. Arrivo alla fine, controllo l’olio e il misurino è inesorabilmente asciutto! Combinazione, quando succede qualcosa di storto, è sempre quando non c’è l’assistenza di Adriano, sono proprio un pò sfortunato. Lavoro molte ore sul serbatoio e lo riparo definitivamente. Nel frattempo dei briganti rapinano un camion vicino a me e sparano ad alcuni concorrenti, ho visto personalmente auto con i fori dei proiettili.

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TAOUDENNI – GAO
Parto con la guarnizione dell’olio rotta. Trovo chi mi da 2 kg. di olio e li porto con me. Per fortuna annullano la tappa per l’episodio della tappa (di solito la tappa prima del giorno di riposo è bella tosta) partiamo senza orario, tutti insieme. Aiuto Salvador che si era capottato lo trovo svenuto, ma si riprende, si rialza e riparte. Al “pc”, controllo l’olio e rabbocco, ma lo finisco troppo presto. Mancano ancora 400 km!! Il GPS ti da fiducia anche se odio mettere tutti quei numeri per programmarlo, lo seguo, incurante di seguire le tracce. Ad un certo punto perde il segnale, lo spengo, lo riaccendo, nulla!! Decido di andare nella stessa direzione, mi viene I’ansia e dopo un bel po’ ormai disperato per essermi perso, ritrovo le tracce e faccio un gran respiro di sollievo.
Al punto di rifornimento benzina mi faccio dare altro olio e rinfrancato, riparto facendo gli ultimi 100 km.al buio. Sono stanchissimo, tutto Winkler_1998_9 sporco di olio e faccio gli ultimi 112 km di trasferimento. Gao mi sembra un posto di briganti, le persone hanno atteggiamenti aggressivi. Dormiamo in un albergo fetido e fa paura solo uscire. Mi rubano la balise e i ferri della moto (per i ferri quasi piango, li avevo scelti con grande cura e sono fondamentali per restare in corsa). In infermeria mi guardano il ginocchio e il pollice, mi bendano, fortunatamente non avevo nulla ai legamenti ma avevo del versamento di liquido, soffrivo molto a freddo le prime due ora al mattino prima che si scaldassero. Il male alla mandibola era passato quasi del tutto (a casa dal dentista mi toglieranno 2 denti che si erano crepati, mentre la cosa più fastidiosa era il dolore al coccige. In ogni caso mai come in questa Dakar ho apprezzato il giorno di riposo. Adriano ha fatto molta fatica, visto che il camion KTM dei ricambi non era arrivato, ma grazie a Roberto Boasso, meccanico ufficiale KTM, hanno risolto il problema della guarnizione.

GAO – TOMBOUCTU
Tappa bellissima, la prima che mi godo veramente a guidarla. Corro solo un rischio prendendo una pampa perché stavo andando veramente forte. Arrivo presto, tutto ok. Con sorpresa vedo che arrivano anche i camion KTM dell’assistenza.

TOMBOUCTU – NEMA
Ci avevano detto che la tappa era facile, invece sono tutti molto lenti, incontro tanta erba di cammello, l’andatura è molto lenta, avrò messo al massimo la terza. Arrivo con la luce, ma al tramonto.

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NEMA – TIDJIKJA
Dicono che è la tappa più difficile della corsa, ed è vero! L’ho già fatta in edizioni precedenti, ma in due giorni. E’ lentissima, con il tipico paesaggio della Mauritania (sabbia molle con molte pietre). Sono sempre solo. Al famoso passaggio degli elefanti bisogna scendere da un altipiano tra rocce enormi, sembra di essere in una mulattiera ligure. Cado parecchie volte. Al secondo punto di rifornimento benzina sono già le cinque e mancano ancora 250 km. Ero andato troppo piano per risparmiare le forze. Preso dalla paura del buio, vado a manetta per fare meno strada al buio. Penso che sia stato il momento in cui sono andato più forte in tutto il rally. Alle 18,30 è buio e mancano 150km!! E’ terribile andare al buio, non vedi I’altezza delle dune e senza riferimento non è facile passarle. Cadute e insabbiamenti a non finire. Arrivo a fine speciale alle 23,30 giusto in tempo per non prendere la forfettaria. Sono esausto. Dall’arrivo della speciale aI bivacco ci metto ancora un’ ora. Finita la tensione della speciale, cado ogni 100 metri in più mi perdo e in più non trovo il bivacco. Ennesima giornata senza assistenza, controllo da solo tutta la moto, il filtro aria, rabbocco l’olio e ne metto troppo. Mi fa di nuovo molto male il ginocchio e dormo male.

TIDJIKJA – ATAR
Winkler_1998_11Sono pochi chilometri, ma tutti di pietraie da superare in prima marcia. A volte devo persino spingere la moto a piedi. Trovo Sala disperato, mi dice che si deve ritirare, sa che il camion KTM non passa, ha già controllato tutta la moto ed è sicuro che è il rotore/volano ad averlo abbandonato. Gli dico: “che problema c è?” Cerco tra le mie cose e gli do il mio rotore di ricambio. E mi chiede come cavolo mai mi porto un rotore/volano con me? A dire la verità avevo un pò di tutto, memore delle vecchie Dakar. Verso la fine tappa, mi perdo, il GPS non funziona, non prende, seguo delle tracce che poi finiscono. Traffico sul GPS e finalmente ricomincia a prendere il segnale, faccio gli ultimi 80 km in mezzo ai camion, tutto a GPS. Arrivo e sono stanchissimo, ovviamente non c’è l’assistenza. Devo cambiare gomme. Sul duro si sono finite. Vedo il “camion balai” e rubo la mousse anteriore ad una moto ritirata. Rimedio anche una ruota posteriore completa, usata ma con mousse buona, che mi prestano facendomi promettere di ridarla il giorno dopo. Anche perchè non avrei avuto la forza di cambiare la gomma posteriore dopo aver smontato e montato la mousse anteriore.

ATAR – BOUTILIMIT
Probabilmente questa sarà I’ultima speciale difficile di questa Dakar 1998, almeno me lo auspicavo. Partiamo da Atar, ci sono dei camion bellissimi, è una zona molto pietrosa. Si capisce che I’orientamento sarà molto importante. Sicuramente sarà la speciale più bella dal punto di vista paesaggistico. Dune e scenari pazzeschi!! Viaggio tutta la tappa con Quaglino. Ci si insabbia, sbagliamo strada, torniamo indietro e troviamo la pista giusta, era un sentierino, anzi una mulattiera in salita molto brutta, penso che fosse impossibile che le auto e ancor peggio i camion potessero passare di lì. Saliti sull’altopiano, ci troviamo in una tempesta di sabbia, non si vede nulla, e il road book dice di seguire montagne diverse, con disegni di picchi da aggirare come riferimento. L’unica è affidarsi al GPS. Siamo un gruppo di 6/ 7 moto e ci infiliamo in un bruttissimo erg di dune con sabbia molle. Mi sembra impossibile che dovessimo fare ancora 80 km in quelle condizioni. Vediamo delle auto da lontano e le inseguiamo. Sala non ci segue e si perderà. Fermano la speciale al rifornimento causa le condizioni metereologiche. Ci resta ancora da fare un lungo trasferimento di cui 100 km difficili. Arriviamo col buio. Metto a posto la moto (altra giornata senza assistenza) e facendo il pieno per il giorno dopo, vedo che il serbatoio perde ancora! Per fortuna trovo il camion KTM e di nascosto (era vietato fornire assistenza perchè era una tappa “marathon”, do il mio serbatoio in cambio di uno nuovo. Cerco di montarlo ma non quadra con il telaietto. Non so come fare, alla fine mi stufo e lo lego con cinghie e fascette. Trovo alloggio in una tenda tuareg ma quando mi accorgo che come compagni di notte ho degli scorpioni, riesco a dormire pochissimo.

BOUTILIMIT -SAINT LOUIS
La prima speciale della giornata è bellissima e sinuosa. Avevo Quaglino davanti a me in classifica di 10 minuti, I’obiettivo era di riprenderglieli. Lo prendo, lo supero e tiro come un matto, tutto va bene ma alla fine sbaglio e perdo 2/3 minuti ma gli arrivo sempre davanti. Seconda speciale, devo partire con il mio orario ma la moto non parte, sono in affanno, perdo 3/4 minuti, finalemente parto e dopoWinkler_1998_13 pochi km mi insabbio in una salitina tra la vegetazione quasi raggiunto il mare. La moto non riparte più perdo altri 5 minuti, sento che sono in affanno e poco lucido. Per fortuna la speciale è facile lungo la spiaggia. Riprendo Quaglino, lo passo e gli do 2 minuti. Peccato senza tutti questi problemi probabilmente lo avrei superato in classifica.

SAINT LOUIS – DAKAR
Speciale del Lago Rosa: ormai la mano sinistra è inutilizzabile, ho il tunnel carpale che mi fa malissimo. Anche nelle Dakar precedenti ho sofferto di questo problema, soprattutto alla mano destra.. Nelle prime ore dovevo andare piano e poi piano piano mi passava, ma quelli che mi avevano superato non volevano più farsi superare per non prendere la polvere di nuovo. Mi ero fatto operare alla destra ma alla sinistra mi è rimasto il problema. In ogni caso sto davanti a Quaglino nel PS. anche se non basta per superarlo nella generale. Questa è stata la Dakar più sofferta che abbia mai corso. Che soddisfazione portarla alla fine! Invece di essere euforico mi sento malinconico, probabilmente perchè sento che questa felicità che provo, cosi intensa, non la proverò più perchè capisco che questa sarà la mia ultima Dakar.

NDR: Aldo Winkler concluderà la Dakar 1998 al 30° posto su 55 piloti al traguardo, quinto italiano al traguardo.

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