Edi Orioli, lo stratega

La curiosità dell’ignoto deve scorrergli nel sangue, viste le scelte fatte nella sua lunga carriera agonistica. Ma Orioli-1998-1ciò che emerge prepotentemente dall’elenco, lungo, delle competizioni cui ha partecipato e dei risultati che ha ottenuto, è la capacità strategica. Senza cui il talento può anche non trionfare. Di esperienza ne ha da vendere: in totale ha percorso in Africa, in gara, duecentoventimila chilometri. Ed è forse l’unico ad aver partecipato alle prime undici edizioni della Dakar senza mai ritirarsi e chiudendo quasi sempre tra i primi dieci. Inevitabile quindi parlare del rally più conosciuto al mondo, soprattutto pensando a quel periodo buio del 1998, quando si presentò alla partenza coi colori del team Schalber con una monocilindrica del marchio tedesco. Ma la storia di Edi Orioli è fatta di scelte controcorrente, di razionalità e di passione. Perché nel suo DNA è scritta anche una predilezione per le auto, per la perfezione. Come trent’anni fa preparava minuziosamente ogni singolo dettaglio della sua moto, controllando che anche lo stile, oggi vuole bellezza intorno a sé.

Edi Orioli, da pilota a imprenditore. Come è avvenuto questo passaggio?
“Nella mia storia non è che ci siano passaggi. La mia storia è fatta di tante cose. Sin da bambino avevo la passione delle bici e poi della moto. Andavo in bici per i campi e l’evoluzione è stata prendere il Ciao di mio zio e usarlo in fuoristrada. Tornavo ogni sera con qualche pezzo rotto. Allora mio papà mi prese una Gori 50, la prima e unica moto che mi regalò. Da qui in poi ho iniziato a correre in gare regionali e la mia escalation motociclistica è avvenuta così: ho imparato da solo senza seguire corsi e tecniche particolari. Si vede che ce l’avevo nel sangue. Oltre alle corse, negli anni sono sempre rimasto all’interno dell’azienda di famiglia, la Pratic, una realtà che negli ultimi anni è diventata leader nel suo settore. Vedi, nel 1995 morì mio papà, il capo dell’azienda. lo riuscii a finire comunque la Dakar, era l’edizione del 1996, vincendola, e poi mi riavvicinai all’azienda in cui comunque sono sempre stato. Nel 2007 poi ho smesso tutte le competizioni, anche se le moto fanno sempre parte della mia vita. Ma in modo diverso. Il mondo di eventi e riflettori non mi interessa più molto. Preferisco vivere le mie passioni e i miei momenti privati e usare le moto per lo svago”.

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Quali sono gli highlights della tua vita?
“Certamente la scelta di partecipare ai raid africani. Quello è stato il cambio di rotta nella mia carriera da endurista. Decisi di andare in Africa anche se avevo un ingaggio e avrei dovuto correre con una Honda del team Puch al Rally di Sardegna. Lasciai l’ingaggio e andai a fare una gara in Africa: mi innamorai immediatamente di quel modo di affrontare il fuoristrada. Ebbi un ingaggio con la Honda e da lì partì la mia carriera. Poi ti direi il passaggio alle auto: l’altra mia passione nascosta erano le macchine da rally. Con cui ho corso e anche vinto. Quando correvo la Dakar, la sera mettevo giù la moto e andavo nei tendoni dei team auto. Mi ha sempre affascinato l’auto. E quindi le ultime edizioni della Dakar le ho fatte in auto”.

In Africa ho percorso 220.000 km di gara!

Affrontare e vincere la Dakar ti ha segnato?
“lo non sono uno che se la tira. Ho sempre corso per il piacere di correre. Per farti capire cosa penso delle vittorie della Dakar ti dico cosa mi ha confidato un amico tanto tempo fa: “Edi, tu hai capito come si fa a vincere”. In queste poche parole in effetti mi è sembrata chiara la mia situazione. Capire come si fa a vincere è una cosa sottile, che non puoi raccontare. Sono attimi che seguono una preparazione lunga. Sono attimi di decisione. È strategia. E una volta che la provi sai come riproporla. Solo così ottieni dei risultati. E devo dire che mi manca l’adrenalina di un evento come la Dakar e oggi vado spesso alla ricerca di emozioni del genere. Ad esempio sono appena stato all’Isola di Man per il Tourist Trophy dove ho finalmente respirato l’adrenalina vera. Lì tutto ha un senso: non è un evento, è un rito”.

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Qual è la sfida più dura che tu abbia affrontato?
“Per me il momento impegnativo è stato il passaggio dalla Honda alla Cagiva. Mi ero schiacciato tre vertebre al Rally dei Faraoni e i medici mi avevano dato sei mesi di prognosi. Ma io dovevo correre la Dakar! Il dottor Costa venne da me e iniziai terapie e allenamento. Ho passato tre mesi duri, in cui non mi sono mai rassegnato a non poter partecipare. Ogni giorno facevo magnetoterapia e poi mi allenavo sdraiato su una panca per non caricare la schiena. Alla fine riuscii a partire, non proprio a posto. Non potevo davvero pensare di non esserci alla Dakar, che avevo vinto l’anno prima. Partii e finii la gara tra i primi dieci. Ma fu davvero un momento duro”.

Auto o moto?
“Guarda, ho appena comprato la macchina: una Audi RS6, e godo ogni volta che l’accendo. Come faccio a risponderti “moto”? Nonostante tutto quello che fatto sulle due ruote io amo le auto. E poi mi piace il bello: come nella mia tecnica di preparazione. Quando dovevo partire ero preciso: tutto doveva essere in ordine, dall’estetica alla meccanica. Per me questa era la base per una buona gara. E anche adesso mi piace essere a posto. Ho la mia bella moto e la mia bella auto. E vado in cerca di adrenalina: la RS ti regala adrenalina. Se non la usi ti manca e se la usi non riesci ad assuefarti. Non amo mostrarmi ma mi piacciono le cose belle e sportive”.

Beh, hai detto qual è la tua auto, ora dimmi qual è il tuo parco moto attuale.
“In box ho una BMW R 1200 GS Adventure, una BMW HP2, una Husqvama 300 da enduro, una trial Honda Montesa e la Honda RC30- VFR750R. E la Gori 50 con cui ho iniziato”.

E cosa pensi delle moto special, quelle customizzate che impazzano da un po’?
“In prima battuta potrei dirti che sono felice di questa moda perché così moto che erano abbandonate nei sottoscala tornano a vivere. Anche se customizzate. E poi apprezzo chi le personalizza perché è un po’ un artista a prescindere che uno se la faccia da solo o la faccia fare ad altri. Per contro forse a volte il risultato non significa proprio usare la moto, ma solo creare un’immagine. Comunque non mi dispiace questa moda, mi sta simpatica. In fondo ognuno cerca l’unicità del pezzo, a volte con cura maniacale”.

Oggi in quali rapporti sei con i marchi con cui hai corso?
“lo sono uno dei pochi che si è fatto benvolere da tutti i miei sponsor. Avevo la mia filosofia: se qualcuno mi dava io dovevo ritornare almeno altrettanto. Ho mantenuto anche ottimi rapporti con i giornalisti”.

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E la tua storia con BMW?
“Con BMW ho un rapporto strano. lo sono stato più hondista, per l’inizio della mia carriera. Ma avevo una forte simpatia per BMW. Feci lo sviluppo del loro monocilindrico per un anno, oltre a correre alla Dakar. Dopo questo però arrivò un pilota più giovane, Richard Sainct e da Monaco mi offrirono condizioni di contratto inaccettabili. Andai via allora. Oggi però io continuo ad amare e apprezzare questo brand. Del resto non potrei mai fare a meno di una moto BMW in box. E la mia filosofia mi pare in linea con quella di BMW: mi piacciono le cose minima, ma ben fatte, solide. lo credo in questo motto: il deserto esalta le cose più solide. Me lo disse un tuareg quando mi fermai dopo una lunga tappa. Vedendomi in moto mi chiese da dove e quando fossi partito: gli descrissi il percorso, quel giorno avevo percorso seicento chilometri. Mi chiese: “Com’è possibile? Io ci metto due settimane e mezzo, col cammello!” Quel tuareg mi ha fatto molto pensare. Però come ex-pilota BMW non ho mai avuto un rapporto come invece ho avuto con gli altri marchi. Ad esempio con Cagiva e Honda Italia ho avuto rapporti diretti e coinvolgenti: parlavo direttamente con chi aveva potere decisionale. Con BMW il rapporto era freddo, ho avuto a che fare solo con dirigenti che spesso cambiavano e quindi non si è mai creato un rapporto, tutto molto impersonale. Devo ammettere che l’organizzazione era impeccabile: da pilota avevo tutto quello che mi poteva servire ed ero trattato dawero bene. Il rapporto umano era un po’ meno soddisfacente. A pensarci mi dispiace di non aver potuto provare a far parte del mito di Gaston Rahier e Hubert Auriol, e poter scrivere anche il mio nome negli albi d’oro di Monaco. Mi sarebbe piaciuto provare col boxer”.

Com’era la monocilindrica che guidavi?
“Quando ho corso con BMW ero ufficiale ma non ufficiale: il mio contratto era con Monaco ma mi schierai Orioli 1998alla partenza della Dakar con il team Schalber. BMW non voleva comparire perché era la prima edizione e non voleva rischiare figuracce. Mi ritirai per una rottura proprio incredibile: si era infilato un sasso tra il paracoppa e il paramo-tore. E me ne sono accorto che il motore era già fuso. Tutte le monocilindriche erano comunque moto più fragili rispetto alle bicilindriche. Meno veloci anche se aveva-no comunque raggiunto un buon livello. Ma eravamo costretti ad usare la monocilindrica per regolamento, per-ché in quegli anni era stata vietata la bicilindrica. E con le mono eri sempre impicca-to invece con la bicilindrica avevi margine di potenza e velocità”.

Bicilindrica, allora?
“Bicilindrica tutta la vita. Anche se pesa di più la goduria di un bicilindrico in qualsiasi configurazione ha un’erogazione inarrivabile. Le monocilindriche le definisco “i vibratori”. Parlando di GS in fuoristrada, devo dire che il limite principale è il cardano”.

E quali erano le difficoltà più grandi per un pilota di moto a cavallo tra gli anni 80 e 90? E oggi quali credi che siano le difficoltà più grandi?
“Allora potessero il fatto di non conoscere l’Africa. Si andava organizzati ,a allo sbaraglio per quanto concerneva il territorio: si mettevano le ruote su terreni ignori e in continuo mutamento. Dune, fesh fesh, rocce, l’Africa è imprevedibile. E allora si affrontava la fatica meno preparati: ad esempio non sapevamo di dover bere molto di più di quanto non facessimo. C’era la difficoltà di risparmiare la testa e il mezzo: chi non lo faceva tornava con l’aereo ambulanza. E bisognava conoscere la navigazione e la strategia. Per i piloti di oggi le difficoltà non sono queste. Non c’è la navigazione, non c’è il risparmio del mezzo: la sera l moto viene rifatta da capo se necessita e con le tappe più brevi diventa difficile perdersi. Oggi la difficoltà è percorrere tutto il tratto a fuoco; la gara è più serrata. Ecco, potrei dire che oggi è una vera gara, allora invece era un’avventura: si era soli con il proprio mezzo. Oggi ci sono tantissime persone che ti supportano”.

Hai tracciato rotte, attraversato terre inesplorate, organizzato raid in giro per il mondo. Oggi cos’è il viaggio per Edi Orioli?
“Il viaggio per me deve essere interattivo. Quando parto devo vivere il territorio da viaggiatore e non da turista. Io affronto un viaggio l’anno. Di più non riesco mi manca il tempo. Pensa che se fosse per me, finita questa intervista, metterei una maglietta e un pacchetto di Toscanelli in una borsa e partirei in moto. Però mi piace anche andare sul sicuro: avendo poco tempo voglio che le mie uscite siano certe per divertirmi. Quando parto quindi pianifico bene il viaggio perché voglio anche divertirmi. Un viaggio con una moto completamente carica sulle dune non lo farei: questo cancellerebbe il divertimento di guida”.

Della Dakar di ieri e delle evoluzioni di oggi abbiamo approfondito parecchio nell’intervista apparsa sul volume di febbraio 2018 di Motocross. Mi domando: se la potessi organizzare a modo tuo quali sarebbero i punti chiave della competizione?
“Sicuramente tornerei alle origini. Ovviamente non si può tornare in Africa, oggi per diversi motivi non si riuscirebbe a organizzare la gara lì. Ma parlando di regolamento io mi ispirerei all’avventura e alla navigazione, alla natura del luogo e alla sicurezza. Per la sicurezza oggi si è arrivati a livelli molto avanzati. Terrei quindi i sistemi di geolocalizzazione. Ma tornerei per quanto possibile alle origini, con bivacchi lontani dai villaggi, allungando, e quindi diminuendo, le tappe. Ridurrei il comfort, lasciando più spazio all’avventura. Certo occorre fare i conti con il budget, con gli sponsor e la visibilità. Dovrei ragionare su questo. In fondo la gara è nata così, quindi penso potrebbe essere apprezzabile da molti. Sarebbe una vera sfida, penso. Perché chi ci ha provato, basti guardare l’Africa Race, fatica a decollare perché i team ufficiali vanno a fare la nuova Dakar. Rispetto all’Africa Race bisognerebbe riuscire a richiamare più team che differenzino un po’ l’insieme dei piloti, dei risultati e delle soluzioni. Anche per i giornalisti oggi credo sia difficile raccontare la Dakar. La tecnologia poi ha un po’ snaturato questa competizione”.

Difficile però immaginare una gara fuori dal tempo: bandire la tecnologia si può?
“Difficile sì, ma magari potrebbe funzionare. Chissà se i piloti accetterebbero di lasciare a casa il cellulare?”

Tratto da: About BMW
intervista di Maria Vittoria Bernasconi
Foto di Orazio Truglio & web

Claudio Torri “Pink Panter”, dalla Dakar 1986 all’Australia

Di ritorno dalla sfortunata Dakar 1986, terminata con un ritiro a causa di un problema al forcellone della sua Moto Guzzi, Claudio Torri non si perde d’animo e organizza subito una nuova avventura.

La moto viene aggiornata aerodinamicamente con un cupolino portafaro, come da tendenza in quegli anni, e verniciata completamente di rosa e iscritta al Safari Australia dell’anno successivo. Purtroppo l’esperienza australe non ebbe molta fortuna, culminata con un ritiro causa incidente stradale con un pick-up che provocò la frattura del bacino del povero Torri.

 

Ermanno Bonacini preparazione alla Dakar 1989

La preparazione della mia Yamaha nella mia solita cantina 3×4 metri. Ogni volta che dovevo effettuare qualche prova, per portare fuori la mia Yamaha dovevo smontare tutti i serbatoi e rimontarli!

La ruota ruota anteriore e la forcella mi furono gentilmente prestati dalla mia fidanzata che aveva un Suzuki 125 RM. Per far funzionare il trip del Yamaha TT occorreva modificare un rinvio del Cagiva 600 con il filo interno a sezione quadrata del V35 della Moto Guzzi, il tutto era tarato alla perfezione. Nella seconda tappa Tozeur Gadames a seguito di una caduta importante mi si strappò il filo e addio al trip master.. ho terninato la Dakar seguendo le tracce, la polvere e molto ha fatto il mio istinto!

Notare il tappo sulla testa dove era collocato il contagiri, il radiatore sotto al fanale e tutti i tubi allungati con un supporto unico da me ideato!

I 16 eroi italiani alla Dakar 1990

Nessuno si sognerebbe di chiamarli azzurri, perché dopo venti giorni di gara tanto azzurri non sono più. Tendono piuttosto al marroncino, coperti di fango e sabbia ben oltre i limiti dell’immaginazione. Però sono arrivati anche loro a Dakar, forse con qualche rischio in meno degli ufficiali, ma tanta, tanta fatica in più. Sono i nostri privati, quelli che hanno dovuto contare quasi solo sulle proprie forze per riuscire nell’impresa, appoggiandosi al massimo all’amico compiacente che per l’occasione è stato promosso meccanico aviotrasportato. Una carica importante per una mole di lavoro da far paura. Ambizioni di classifica poche, peraltro richiuse nel cassetto dopo le prime tappe, una volta constatato che senza moto ufficiale è come andare a caccia di elefanti con la fionda. Senza essere Davide. Lo ha scoperto anche Angelo Signorelli, che ufficiale in effetti lo è stato ma ha potuto disporre solo di una moto derivata dalla serie e non del prototipo arrivato dal Giappone. Così si è preoccupato solo di fare l’assistenza veloce di Franco Picco, non disdegnando però di togliersi una soddisfazione nella difficile tappa di Nema: secondo dietro a De Petri, con il cruccio di un ammortizzatore scoppiato. In classifica generale è sedicesimo, proprio davanti a Massimo Montebelli, il primo degli uomini del Wild Team: tre riminesi partiti con moto costruite in casa, con base Yamaha e ciclistica autarchica. Meccanici al seguito non ne avevano, ma i loro problemi sono finiti ad Agadez, visto che il camion sul quale erano caricati i loro ricambi si è fermato. Una vera «benedizione» che ha finalmente impedito a Montebelli, Fabio Marcaccini e Giampaolo Aluigi di rimanere svegli fino a mattina per rimettere a posto la moto.

Sono sedici i temerari italiani che hanno portato a termine la gara.

Eppure anche così ce l’hanno fatta, e con risultati molto più che buoni: solo Gualini ha strappato all’erculeo Montebelli — diciassettesimo — il primato del miglior privato, e con mezzi molto superiori. Quanto a Marcaccini, problemi a ripetizione lo hanno fermato più volte in speciale, ma l’ex velocista è passato tutt’altro che inosservato una volta risolti i guai principali:imm paris dakar addirittura nella tappa di Agadez è rimasto al comando fino a metà giornata. Con una monocilindrica privata è tutto dire. Ha finito trentesimo, giusto due posizioni dietro ad Aluigi il quale, dal canto suo, è riuscito ad arrivare a Dakar alla prima partecipazione: se l’è meritato, non fosse altro perché è riuscito a costruire la moto negli ultimi venti giorni, lavorando giorno e notte assieme a Davide Goretti e Luca Elementi. Ha patito il sonno anche Batti Grassotti, che di Dakar aveva già una certa esperienza: l’unico «sopravvissuto» del GR Team (dopo il forzato arresto di Quaglino per rottura del telaio) si è esibito in una 48 ore no stop tra Nema e Kayes, saltando a piedi pari dormita e cena. Persosi come tutti gli altri nella tremenda tappa di Tidjikja, infatti, è arrivato a destinazione solo alle 7.30 del mattino dopo. Orario di partenza le 8.00. Come cedere a tre tappe dalla fine? Il povero Grassotti non si e nemmeno tolto i guanti, ha bevuto un caffè ed è ripartito. Un vero duro, che ha meritato fino in fondo la spiaggia del Lago Rosa. Franco Zotti, ventitreesimo, si è distinto per abilità e tattica. Ormai un veterano di queste maratone, il friulano è partito con passo regolare e l’ha mantenuto fino alla fine, badando bene a risparmiare una moto che — nonostante qualche ricambio trasportato dal Team Rahier – era privata a tutti gli effetti. Si è arrangiato da solo riuscendo ad arrivare bene anche in tappe lunghe e dure come quella di Tidjikja che hanno falcidiato la gran massa dei concorrenti. Il risultato lo premia anche dell’essersi licenziato per coprire con la liquidazione i debiti contratti lo scorso anno per partecipare alla gara, una pratica già sperimentata in passato. Ora restano da coprire i buchi della Dakar ’90, magari con gli sponsor di quella ’91.

L’immagine più viva che abbiamo di Luigi Algeri, invece, è all’arrivo di Agadez: distrutto, stanco e affamato, ma al traguardo in buona posizione. Il meccanico non l’aveva, ed i suoi ricambi sono spariti praticamente subito, assieme al camion cui aveva pagato il trasporto di una cassa, ritirato. Così è rimasto anche senza sacco a pelo ed ha dormito al freddo per 15 giorni, vestito; ma ce l’ha fatta, riuscendo anche ad ottenere ogni tanto qualche discreto piazzamento. Ha avuto una gran forza di volontà, ed è stato davvero bravo ad arrivare in fondo solo, che più solo non si può. Trentatreesimo. Antonio Cabini invece ha potuto contare su di un meccanico, ma non sui ricambi che hanno fatto la stessa fine di quelli di Algeri. Così se l’è cavata come ha potuto, con molta fantasia e spirito di adattamento, che gli hanno permesso di arrivare quarantunesimo a Dakar. Ci è riuscito per la seconda volta, dopo sei tentativi, uno dei quali in auto. Chiudono la fila Ettore Petrini quarantaduesimo e Carlo Alberto Mercandelli quarantaquattresimo. Il primo, toscano, non era solo un debuttante dakariano: è anche alle prime esperienze fuoristradistiche dopo aver corso nella velocità, ed ha avuto davvero un bel coraggio nel gettarsi in un’impresa del genere con un così ridotto bagaglio d’esperienza. Ma con prudenza e senso della misura ce l’ha fatta a sua volta, senza scossoni. Esattamente il contrario di Mercandelli, l’uomo-avventura di questa edizione: dei problemi di Agadez e del suo rocambolesco arrivo via cammello, camion e pullman di linea avete già letto nei numeri scorsi. Sarebbe bastato per chiunque, ma non per lui, che ha replicato con 48 ore di no stop assieme a Grassotti, e si è poi esibito nel gran finale a St. Louis, quando ha centrato in pieno un mulo che gli aveva tagliato la strada, a 120 km/h. Risultati da bollettino di guerra: il mulo morto sul colpo, la moto distrutta e Mercandelli svenuto per 10 minuti, con una frattura al metacarpo destro. Ma l’irriducibile non ha ceduto: si è fatto rimettere in sesto da una macchina dell’assistenza medica giunta sul posto ed è rimontato sulla moto, che nel frattempo era stata risistemata alla bell’e meglio dal meccanico di Villa-Delfino, sul camion Perlini. E con una fasciatura rigida ha guidato fino al giorno dopo, arrivando a Dakar. Più che meritatamente.

Fonte Motosprint

Avventura irlandese alla Dakar 1998

Ci saranno sempre quelli che affermano che la vera Dakar ha avuto luogo nel continente africano. Hanno ragione, poiché questo era, dopo tutto, il concetto originale – l’amore del fondatore Thierry Sabine per la regione sahariana e del motorsport, riuniti in unico spettacolare evento. E mentre i raduni africani non sono mai stati giorni di innocenza, quelli erano i giorni in cui l’organizzazione si concentrava più sul concorrente che sui media. Non era possibile terminare alle 15:00, quindi tutte le interviste di fine giornata potevano essere condotte alla luce del sole, in tutta comodità. La prima priorità era aiutare i concorrenti e i media dovevano semplicemente fare del loro meglio per adattarsi a questo. E quelli erano i giorni in cui un bivacco era esattamente questo, solo una manciata di tende nel deserto, non una distesa di camper, suite per i media e Hospitlity VIP.

 

“C’era una magia negli eventi africani” ricorda Nick Craigie. “La solitudine.”

 

Craigie, un appassionato enduro (allora e ora), aveva deciso che avrebbe corso per il ventesimo anniversario dell’evento. Aveva corso la 19a edizione, nel 1997, ma era stato costretto a ritirarsi dopo otto giorni con problemi al motore.

“Pensavamo che il motore CCM-Rotax funzionasse al meglio con Castrol R40, un olio vegetale. Questo era probabilmente vero per gli eventi di breve durata [tali motori erano ampiamente utilizzati nelle corse su pista piatte americane] ma con il prolungato funzionamento a caldo in Africa ciò ha portato all’accumulo di carbonio nel motore, in particolare sui piccoli terminali. Ciò ha fermato la mia moto, e quelli di Adrian Lappin e Vinny Fitzsimmons. Un disastro, ma lezione è stata appresa. ”


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Con l’edizione del 1997, sempre intesa come riscaldamento del rally del 1998, Craigie imparò la lezione e tornò l’anno seguente come membro di un team di quattro uomini tutti irlandesi su CCM. 
Craigie ricorda ancora che i primi due giorni – ancora in Europa – furono duri come nessuno. La partenza era a Place d’Armes, Versailles, in Francia, 937 km al primo giorno, sotto zero fino alla fine. Il secondo giorno furono altri 1182 km corsi in temperature gelide, prima che il terzo giorno finalmente i concorrenti arrivarono nel porto mediterraneo di Almeria.

“Ho commesso l’errore di pensare che a quel punto il freddo fosse finito. Ho rinunciato al mio kit per il freddo, è il suo grido liberatorio fu “calda Africa, arrivo!”

 

Solo che Craigie aveva trascurato la piccola questione della catena montuosa dell’Atlante…

 

“Quella terza tappa, per Er Rachidia, è stata probabilmente la mia peggior giornata in assoluto su una moto. Avevo già cavalcato per ore a temperature di -4 ° C attraverso la Francia, ma ora avevo le stesse temperature mentre cercavo di attraversare le montagne dell’Atlante in Marocco. Non avevo più la mia attrezzatura calda e con venti forti l’effetto del windchill il freddo era enorme. Passai sei o sette ore, cavalcando completamente da solo, contando solo su me stesso, cercando di ignorare le mie dita intorpidite e scuotere il corpo, cercando di andare avanti. Sono stato fortunato, abbiamo visto un po’ di sole nel pomeriggio e questo è stato come il paradiso. Il tenue tepore che mi ha offerto mi ha fatto continuare. In tutto è stato una tappa di 14-15 ore. Avrei fatto una cavalcata molto dura nel deserto nei giorni a venire, ma mentalmente giudicherei quel giorno, come peggiore in assoluto. “

 

La quinta tappa sarebbe stata il test finale. Una giornata super lunga, 1050 km di lunghezza con molte dune di sabbia, ai concorrenti toccava attraversare il famoso Erg Chebbi.

“La sabbia profonda era davvero dura e costringeva le moto a consumare tanto carburante, mediamente un litro per 7 km, che sostenuta, avrebbe ridotto la nostra autonomia effettiva da circa 450 km a soli 300 km. Gli organizzatori non avevano previsto questo problema e impostarono il punto di rifornimento troppo lontano da dove saremo rimasti a secco. Non c’era carburante in prestito da un altro concorrente – tutti cercavano di conservare ogni singola goccia che avevano.ccmrear2
“La nostra Dakar sarebbe potuta finire lì – come è successo per così tanti – ma abbiamo trovato una soluzione da parte di tre di noi, i cavalieri del team CCM. Abbiamo unito in modo efficace il nostro carburante, mettendo tutto in una sola moto (quella di Adrian Lappin) e lui è andato al rifornimento. Lì riempì ogni serbatoio che aveva e tornò indietro, percorrendo il percorso al contrario, per ripartire il carburante. Fu una strategia ad alto rischio – poteva facilmente perdersi, crollare, schiantarsi, certamente non trovarci – ma era tutto ciò che avevamo. Fortunatamente ci ritrovò, ma ci vollero quattro ore e altri incredibili 350 chilometri in più per Adrian.
“Ed è a quel punto, verso le 17:00, nel tardo pomeriggio, che la nostra Dakar cambia. Il crepuscolo arriva veloce, ed è nero come la pece prima che tu te ne accorga. Questo cambia tutto. Una distanza che che percorri in un’ora alla luce del giorno ti diventa di quattro al buio. Puoi immaginare che la navigazione sia un incubo. Alle 18:00calcolammo che avevamo ancora 450 km da percorre fino alla fine della tappa. “

 

Quando abbiamo visto spuntare l’alba, raggiungemmo il bivacco, proprio mentre i primi concorrenti partivano per la sesta tappa. Per i compagni di squadra del CCM c’è stato appena il tempo di fare rifornimento, prendere uno snack da mangiare e fare il line-up per iniziare la fase successiva.

“Siamo rimasti insieme dopo la partenza. Non è stato facile abbiamo corso tutto il giorno e di nuovo ci siamo ritrovati a correre all’imbrunire. A un certo punto le luci di Vinny Fitsimmon si accesero. Eravamo ognuno sulla nostra duna di sabbia in quel momento. Mi sono fermato, sono andato da lui per aiutarlo, quando sono tornato alla mia moto mi sono seduto e mi sono subito addormentato. Mi sono solo svegliato solo quando Vinny arrivò e mi prese a calci, dicendomi. “Se dormi ora non ti sveglierai mai”.
“Quella tappa la finimmo verso le 4 o alle 5 del mattino’, dice Craigie. “Poi, un’ora o due dopo era già il momento di ripartire.ccmstat
“Abbiamo avuto due ore preziose per dormire quella volta, ma sono state essenzialmente 72 ore in sella non-stop – dovevamo solo arrivare al giorno di riposo.
“Succedevano così tante cose, durante la corsa. Accadevano sempre. In quell’ultima tappa prima del giorno di riposo abbiamo trovato Si Pavey [anche lui su un CCM], che aveva avuto un incidente molto duro. Siamo rimasti con lui per un po’ poi lo abbiamo caricato in moto e lo abbiamo scortato fino a un posto di blocco e gli abbiamo detto di rimanere lì fino al mattino; con il giorno successivo che era un giorno di riposo, sarebbe rientrare al mattino e partecipare ancora alla manifestazione. Era il giorno nove con 11 ancora da fare!
“Ovviamente il giorno di riposo è stato tutt’altro. Abbiamo trascorso la giornata cambiando il motore della mia moto”.

I pericoli nei rally provengono da tutte le direzioni. Un pericolo particolarmente sgradevole è quello che arriva dai piloti di auto. Dato che ogni giorno le moto partono per prime, succede che le macchine più veloci che seguono supereranno una buona parte di queste qualche lungo il percorso. Essere superati da un’auto sulla strada non è un grosso problema, ma in un rally nel deserto è un’esperienza decisamente più brutta …

 

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“Se c’è un regolamento sulla sicurezza che ho piacevolmente condiviso è stato il sistema Sentinel per avvertire le moto di un’auto che ti sta sorpassando. Quando le auto ti superano è sicuramente il momento più pericoloso della manifestazione. Tirano su così tanta polvere che per tanto tempo guidi praticamente alla cieca e in quel momento potresti colpire una roccia o cadere in una buca – insomma farti male. Potresti anche rallentare, ma questo aumenta solo il pericolo dato che l’auto successiva si scaglia contro di te e sarai un bersaglio molto lento. Mentalmente lo stress di sapere che stavano arrivando, aspettando l’improvvisa esplosione di rumore e polvere accecante, era estremo, molto molto spaventoso, e una paura che avremmo affrontato ogni giorno. L’unica moto era uscire dalla pista, letteralmente a mezzo chilometro dal tracciato, fino a quando non erano passati. Certo, questo ti rallenta in maniera evidente.
“Alla fine è successo che anch’io sono stato investito! Eravamo in una sezione di dune e lì ti fai strada a zig zag. Ho visto questo Schlesser Buggy arrivare, lui ha visto me, ma mentre passavo su una duna, lui mi ha letteralmente passato sopra. Io e la moto eravamo completamente sotto di lui, stavo guardando la coppa della sua auto. Ovviamente non ero molto contento, ma lui non si è fermato, lasciandomi lì. L’ho trovato al bivacco quella notte e gli ho detto i miei sentimenti in merito!

 

Il 1998 è stato il primo anno in cui il GPS è stato adottato su tutta la linea per Dakar. Gli organizzatori hanno fornito un sistema GPS ERFT.

“Peccato che il mio non ha mai funzionato. O meglio, ha funzionato nel bivacco, fino a circa cinque minuti dall’inizio poi non ha più funzionato per il resto della giornata. Il team tecnico degli organizzatori ha tentato inutilmente di ripristinarlo: alla fine hanno pensato che fosse la frequenza del circuito elettrico della moto a fermarlo. Poco male, ho guidato scorrendo le note sul roadbook e seguendo le tracce sul terreno o le nuvole di polvere. Ammetto che non sono mai stato un ottimo navigatore. “

Anche con il GPS funzionante non sarebbe andata meglio. Un giorno Craigie ricorda che il suo roadbook aveva un messaggio che diceva “Next 358km – navigate by sight”!

“Un altro giorno stavamo soffrendo quello che immagino fosse una forma di cecità da neve. Anche con gli occhiali colorati, il sole splendente della sabbia bruciava le tue retine. Stavo cavalcando con Adrian e dovevamo fare a turno uno per condurre mentre l’altro riposava gli occhi concentrandosi sul parafango posteriore del pilota davanti a lui. Quando il dolore diventava insopportabile, ci scambiavamo.

E quando il bivacco è stato finalmente raggiunto – nel buio – non sempre trovavamo quello he ci serviva.

“Avevamo un meccanico di supporto e anche le ragazze venivano, ma ci incontravamo con loro ogni tre giorni perché ci seguivano in aereo e quindi avevano bisogno di una qualche forma di pista di atterraggio. Non c’era neanche modo che i camion di supporto potessero tenere il passo con il rally e raggiungere ogni sera il bivacco. Era troppo difficile. Quindi per la maggior parte del rally abbiamo fatto noi nostra manutenzione alle nostre moto.
“Al bivacco ci attendeva una grande tenda con i tappeti, ma quando arrivavamo tutti i top rider e piloti erano già nei loro sacchi a pelo – e quindi nessuna camera nella locanda! Quindi facevano i lavori di manutenzione, e ci coricavamo nei nostri sacchi a pelo accanto alle nostre moto con una zanzariera sopra le nostre teste. Comunque non c’è mai stato molto tempo per dormire…”

Craigie è stato fortunato che avesse avuto un solo incidente serio durante il rally.

“Era tardi. Stavo andando troppo veloce su alcune whoops, quando tutto a un tratto sono andato fondo corsa e la moto mi ha lanciato per aria. Mentre stavo volando in aria pensavo: “questo farà male, molto male“. Ma sono stato fortunato. Mi sono rialzato senza nulla di rotto, stavo bene. La moto era un po’ ammaccata e le luci puntavano nella direzione sbagliata. Ma ero ancora in corsa, di nuovo dietro a Vinny [anche questa volta al buio] per raggiungere il traguardo. “

 

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Raggiungere il traguardo di Lac Rose è il sogno di ogni pilota che prende il via della Dakar. Solo che arrivarci è stato un incubo …

“Non ti riprendi mai dagli ostacoli della Dakar. Recuperi un po’ giusto il giorno di riposo. Ma da lì in poi siamo diventati sempre più stanchi, se non dormi non recuperi. Stai in sella ignorando i chilometri, semplicemente contando i giorni. Spesso capita che stai correndo in mezzo ad una foschia, non sei molto connesso, consapevole che prima o poi succederà qualcosa per spaventarti, così almeno l’adrenalina ti entrerebbe in circolo e staresti vigile per un po’.
“Alla fine ero in uno stato di totale collasso. Avevo preso in pieno due pietre e mi ci è voluto molto, molto tempo per tornare alla normalità. Finita la gara per i successivi otto mesi sono rimasto fisicamente esausto. Le mie mani e le mie braccia erano a brandelli. Alcuni potrebbero riprendersi rapidamente ma per me è passato molto tempo prima che mi sentissi di nuovo normale. “

 

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DATI TECNICI
Motore Rotax 600cc dual start raffreddato ad aria, monocilindrico, con una potenza di circa 50 CV, con una velocità massima di circa 130 km / h. 
Telaio standard CCM ma a doppia saldatura con soffietti extra per resistenza. Una capacità di carburante totale di 45 litri. Pesato circa 240 kg

Fonte:
https://www.rustsports.com/bikes/adventure/ccm-dakar-special_3419.html

Dakar 1989 – L’indimenticabile Guinea

TAMRACOUNDA – Vista dall’alto la Guinea è uno smeraldo incastonato nel deserto. Per gli equipaggi dell’undicesima Parigi Dakar, però, è un inferno verde, solcato dalle rosse arterie che sono le infide piste di laterite, velocissime ma scivolose. Al suo terzo impatto con la giungla il rally più massacrante del mondo ha riscoperto che non è solo il Ténéré a far soffrire. La Guinea se la ricorderanno a lungo Clay Regazzoni, Claudio Terruzzi, ma anche lo spagnolo Prieto, ed i due buoni samaritani del team Assomoto Giuseppe Cannella e Davide Pollini.

Speciale disumana: in corsa per 24 ore nell’inferno verde

Sono stati questi ultimi, infatti a tirare fuori dalla sua Mercedes semidistrutta da un capottamento Clay infischiandosene di prendere penalizzazione forfettaria.
Eravamo circa al chilometro 270 della speciale – raccontano questi due ragazzi trentenni, di Brescia – quando su di una pista veloce a gobba d’asino, abbiamo visto una macchina a ruote per aria. Era in una pozza di benzina ed il navigatore che era già fuori, perdeva sangue da un braccio. Lo abbiamo riconosciuto subito: era Del Prete, Clay era ancora dentro e stava tentando di liberarsi. Incuranti che il tempo scorreva, Giuseppe e Davide hanno sistemato Regazzoni lontano dalla macchina, appoggiato ad un masso perché la sua carrozzella era andata distrutta, e medicato Del Prete.
Nessuno si è fermato a darci una mano – ricordano i due – uno ci ha buttato una bottiglia d’acqua dal finestrino.
É passata gente che non aveva problemi di classifica… non capiamo, quando si è in speciale tutti si sentono dei campioni.

Terruzzi Cagiva 1989-3

Si è fermato, invece, Claudio Terruzzi ed anche Klaus Seppi. Una storia della Dakar, un frammento che, insieme ad altri, ricostruisce una delle giornate più dure del rally.
É stata una speciale disumana – dice senza mezzi termini Terruzzi, arrivato al campo a notte inoltrata – prima di incontrare Regazzoni ne avevo viste di tutti i colori. Sono finito in un guado al chilometro 130 lo stavo facendo a piedi perché la mia Cagiva andava ad un cilindro. Improvvisamente, mentre ero con l’acqua alla vita. il motore ha ‘”preso” e sono scivolato sul fondo viscido. Ci ho messo un’ora a tirare fuori la moto dal guado, grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che venivano da un villaggio vicino, e con loro mi sono messo a smontare la moto per tentare di farla ripartire.
Ci sono infine riuscito, ma un ritorno di fiamma ha dato fuoco al filtro dell’aria ed uno dei miei improvvisati aiutanti, impaurito, ha gettato una manciata di terra nei carburatori… per fortuna mentre ero impegnato a smontare tutto di nuovo e arrivato Savoldelli, la mia assistenza, con la macchina, che mi ha tirato fuori. Ero triste quando ha lasciato dietro dirne tutti quei ragazzi che si erano dati da fare per aiutarmi, ma non ci ho più pensato quando, nel buio mi sono trovato a dover fare la pista dietro alle auto.

Terruzzi Orioli

In un polverone che limitava la visibilità a pochi metri Terruzzi è caduto, ha centrato una vacca, e ripartito di nuovo tirando alla cieca, ma non ha potuto evitare la penalizzazione.
E dire – ricorda – che ero partito benissimo… davanti a me avevo solo due tracce. Dovevo essere terzo prima di cadere in quel maledetto guado… il road book era fatto da cani, per un pelo non ho rischiato la pelle nella secca curva a sinistra nella quale è poi caduto Magnaldi.

Savoldelli, che lo ha aiutato la sera è con lui al campo. Un altro tassello si inserisce nel rompicapo della speciale Bamako – Labè.
Ci siamo trovati tutti in un guado profondo, noi delle macchine – racconta l’assistenza veloce della Cagiva – in acqua c’era la Nissan di Prieto. Non riusciva ad uscire. Lui era alla guida, mentre il suo secondo si era tuffato per sistemare le slitte sotto le ruote. Andava e veniva, in quell’acqua limacciosa, quando d’improvviso l’ho sentito urlare. Li per li non ho capito, poi l’ho visto sorreggere Prieto, che era in acqua svenuto, per le ascelle. La marmitta sfiatava all’interno della carrozzeria e lui, respirando ossido di carbonio, si era addormentato, accasciandosi alla guida. Aveva avuto appena la forza di aprire la portiera prima di lasciarsi andare nell’acqua. Per fortuna che, in tutta quella confusione il navigatore se ne accorto.

regazzoni

É l’alba del giorno dopo quando, con una macchina dei medici, arriva Regazzoni al bivacco. Sporco, con la barba lunga, è quasi irriconoscibile, ma non stanco, né disfatto. Il giorno più lungo della Dakar si chiude nel suo racconto.
Non riesco a capire – dice scuotendo la testa – eravamo appena usciti dalla parte più dura della speciale quando in un rettilineo di terra rossa, la macchina si è messa traverso. L’ho controllata per un po’, ma poi mi è partita. Si è fermato dopo quattro giravolte con le ruote in aria. Sentivo puzza di benzina e Del Prete lamentarsi. Poi sono arrivati i due motociclisti italiani che mi hanno aiutato ad uscire.

Mentre Clay parla gente continua ad uscire dalla speciale. Sono i camion che non ce l’hanno fatta ad arrivare nella notte. Rivediamo il bivacco buio, privo della luce dei generatori, e quei pochi mezzi pesanti arrivati a far da punto d’appoggio per tutti. La speciale Barnako – Labè è durata esattamente 24 ore. Nessuno se l’aspettava cosi dura.

Jean Claude Olivier e la sua Sonauto

Attorno a Thierry Sabine si era creato un cenacolo. Dell’avventura. Un drappello di seguaci che si accodavano al Messia. C’erano “Fenouil”, Neveu, 1390481_10202247482058581_718400453_nAuriol, Comte, Vassard… Tutti motociclisti, i prediletti. Chi spiccava nel gruppo era Jean-Claude Olivier. Personalità e intelligenza, una naturale predisposizione per l’organizzazione. E, come non bastasse, centauro lui stesso. Aveva dato una grossa mano a Thierry nei mesi che precedettero la prima edizione dell’Oasis Dakar.

Non erano mancati i suggerimenti e la promessa di schierare una squadra. Nato a Croix il 27 febbraio 1945, a 33 anni aveva già fatto di tutto e di più, partendo da zero. Già, una vita come fosse stata lunga un secolo. A vent’anni era stato assunto dalla Sonauto, importatore della Porsche in Francia dal 1950. Lo avevano spedito a pulire i magazzini, quella la sua prima mansione. Capelli rossicci, occhi chiari, sguardo intenso, intuitivo, il cammino verso l’alto iniziò quando i titolari dell’azienda decisero di affiancare alle gran turismo tedesche il settore dedicato alle motociclette.

Yamaha, il marchio giapponese, da far conoscere e diffondere sul mercato francese: Il problema era come. A Jean-Claude venne l’idea di andare direttamente dai meccanici in Francia a mostrare alcuni modelli del marchio ancora sconosciuto. Il progetto venne approvato. Si fece assegnare un furgone, lo dipinse con la scritta Yamaha a caratteri cubitali, caricò all’interno quattro moto della produzione: un 50, un 80, un 125 e un 250.

Battè la Francia a tappeto. Un lavoro difficile, doveva con-vincere, creare punti di servizio e vendere. Vendere, l’imperativo. Nel primo anno, 1966, riuscì a perfezionare accordi per 28 punti di assistenza e piazzare 177 moto. Tre anni più tardi toccò le mille unità. Una crescita vertiginosa per un marchio ancora senza storia in Europa. I volumi aumentarono con l’importazione degli scooter, un’altra sua intuizione. Non trascurò comunque mai la sua passione.

Continuò a correre e quando Sabine allestì la prima Dakar, JCO, ormai era chiamato con questo acronimo, schierò la prima formazione Sonauto Yamaha-BP. Quattro le 500 XT schierate per Gilles Comte, Christian Rayer, Rudy Potisek e, naturalmente, Jean-Claude Olivier. La sua squadra dominò aggiudicandosi sei tappe su dieci. La Arlit-Agadez e Agadez-Niamey, tra le più dure vennero siglate JCO.

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Della Sonauto era intanto diventato il “boss”, l’azienda in crescita continua. Come le gare. Raid e pista. Partecipò a nove Dakar, portando al secondo posto la Yamaha FZ 750 4 cilindri nel 1985 (Ndr in realtà portò sul podio una XT600, la FZ750 debuttò solo l’anno successivo).  Dietro alla Bmw di Rahier. Anche in pista, con il team che aveva allestito, non mancarono le soddisfazioni. Fu lui lo stratega che riuscì a portare Max Biaggi alla Yamaha nel 1999.

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Ma soprattutto fu lo scopritore di Stephane Peterhansel. Sei centri nel deserto africano. Il 24 febbraio 2010 passò la mano alla Yamaha Motor France, diventata un impero. Dopo 43 anni di lavoro. La sua vita da grande protagonista si concluse tragicamente. In un fine settimana del gennaio 2013 un camion invase la corsia dell’autostrada Parigi-Lille, sulla quale sta-va procedendo. Lo schianto fu inevitabile e terribile. A fianco viaggiava la figlia che riuscì, miracolosamente, a salvarsi. Non lui. La leggenda di JCO finì così. Un maledetto destino.

Tratto da Dakar l’inferno del Sahara di Beppe Donazzan

DAKAR 1987 – Squalifica contestata da De Petri

NIAMEY – È il torrido pomeriggio del 14 gennaio, nella mattinata i concorrenti della Paris-Dakar hanno abbandonato gli agi della capitale del Niget, ripartendo velocissimi alla volta di Gao. Ai bordi della piscina del lussuoso Hotel Gaweye sono rimasti solo i piloti ritirati dalla gara più dura dell’anno e qualche giornalista; in una decina delle tante stanze dell’albergo i feriti si lamentano in attesa del volo previsto per la nottata del giorno dopo che riporterà tutti in Europa. Tra le palme e la fresca acqua della piscina, in uno scenario degno di Simon Le Bon, facciamo una lunga chiacchierata con Alessandro «Ciro» De Petri, uno tra gli uomini più veloci mai visti in azione sulle piste africane, alla ribalta, purtroppo, per essere uno dei piloti squalificati dalla TSO alla partenza della tappa Agades-Tahoua.

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De Petri è molto più rilassato rispetto alla mattina del 13, quando Patrick Verdoy non consegnò a lui e a Gualdi la tabella di marcia, mettendoli così fuori gara. Quella mattina all’aeroporto di Agades avrei avuto quasi paura ad intervistare il pilota della Cagiva, furente per l’esclusione della gara. Ai bordi della piscina, però, la tensione inevitabilmente scema e Ciro si dimostra più loquace e tranquillo al microfono del mio registratore. La prima domanda è ovviamente dedicata al «fattaccio» della tappa del 5 gennaio.

Allora Ciro, la moto è stata sostituita?
 «No, avevo un problema alla frizione e mi sono dovuto fermare. Poco dopo sono arrivati Gualdi e Picard e, insieme, abbiamo iniziato a lavorare sulle moto. La Cagiva ha il comando della frizione di tipo De-Petri-1987-2idraulico e lavorarci sopra è cosa molto laboriosa: c’è anche da effettuare lo spurgo. Non dimentichiamo poi che si trattava della prima prova speciale ed eravamo parecchio nervosi. In quei momenti il tempo sembra volare e abbiamo fatto confusione nel rimontare le carene delle tre moto».

Ma non vi siete accorti che l’elicottero della Sierra (la società che filma in esclusiva la Parigi-Dakar) vi girava sopra la testa?
«Certamente, e non c’era nulla di male, addirittura abbiamo notato che l’operatore si stava sporgendo per riprenderci». Siete stati squalificati in base a prove fotografiche e filmate, ma le vostre moto sono state verificate la sera, all’arrivo di tappa? «No, né la sera e nemmeno nei giorni successivi».

Cosa è successo di preciso la mattina del 13 alla partenza da Agades, quando siete stati messi fuori gara?
«Mi ero presentato, come tutti i giorni, al briefing, ma prima che questo iniziasse mi sono accorto che la bussola non funzionava e sono quindi rientrato alla “villa” che il team Cagiva aveva affittato in centro ad Agades, per rimediare a questo guaio. Effettuata la sostituzione dello strumento sono ritornato alla partenza, il briefing si era già concluso ed ho notato che tutti mi guardavano. Prima di chiedermi il motivo di tanta attenzione mi è venuto incontro Gualdi, mi ha detto che eravamo fuori gara e che non ci avrebbero consegnato la tabella di marcia. Pensavo scherzasse, ma subito dopo è arrivata la conferma di Auriol. In ogni caso ho detto a Gualdi di seguirmi sino alla partenza della prova speciale. Arrivati alla partenza Verdoy ci ha detto che se entro due minuti non fossimo rientrati ad Agades avrebbe squalificato anche Auriol».

Come hai reagito a questa notizia?
«Con delusione per una decisione che io definisco sconvolgente che andava contro a quello che pensavo della TSO, un’organizzazione che stimavo e nella quale avevo la massima fiducia. La Dakar è diventata un grande business per le Case, gli sponsor e i piloti bisogna che questi interessi siano tutelati da una Federazione».

Magari da quella internazionale, dico malizioso.
«Certo, la Dakar è una gara internazionale ed è indispensabile che decisioni del genere siano prese da un ente che tuteli tutti questi enormi interessi».De-Petri-1987-3

Si parla del dopo Sabine di come sia cambiata la gara e l’ambiente dopo la scomparsa del grande inventore e anima della Parigi-Dakar, tu cosa ne pensi?
«Anche con Sabine, o meglio sotto la sua direzione, furono prese decisioni discutibili, come la penalizzazione inflitta a Picco due anni fa. Lo scorso anno sempre nel corso della tappa Ouargla-El Golea, ci fu un reclamo contro la Honda France per un supposto cambio di moto, ma non vennero effettuate le verifiche. In ogni caso questa nona edizione della Dakar è splendida, molto tecnica con prove speciali a non finire e senza tappe notturne: una gara bellissima e ottimamente organizzata. Quello che non credo sarebbe successo ai tempi di Sabine è fare correre un pilota per sei giorni, farlo riposare un giorno e poi squalificarlo, quello che è successo a me».

Siete stati messi fuori gara sulla base di prove filmate e di fotografie, sicuramente avrete cercato di salvare la situazione e continuare la gara. Cosa è successo e, soprattutto, cosa succederà?
«Il nostro direttore sportivo Azzalin ha chiesto di fare ripartire Gualdi e me magari facendoci correre sub-judice sino a Dakar, ma Verdoy è stato fermo sulla sua decisione (per me sbagliata) e non ha accettato. Intanto per tutelare gli interessi e l’immagine della Cagiva, degli sponsor ed anche i miei (non dimentichiamoci che un pilota professionista si prepara alla Dakar per circa otto mesi) si finirà davanti ad un tribunale».

Volete forse la testa di Verdoy?
«No, non mi interessa, vogliamo esclusivamente che si sappia che la squalifica mia e di Gualdi è stata un errore e soprattutto che in futuro ci sia una tutela maggiore per Case, sponsor e piloti».

Il futuro della specialità interessa a molti e inevitabilmente a Ciro abbiamo posto la domanda che da anni si sente nell’ambiente, a quando un mondiale rally?
«Sarebbe bellissimo — risponde — e noi piloti spesso ne parliamo, un mondiale sotto l’egida della Federazione Internazionale sarebbe un grande passo avanti, ma da parte nostra non c’è ancora il necessario accordo, mentre dagli ambienti federali non è ancora arrivato un intervento fattivo. Nemmeno quando avevamo, dopo la tragedia di Giampaolo Marinoni, chiesto che due medici seguissero noi piloti italiani in aereo dandoci la necessaria sicurezza, anche psicologica».

Parliamo di sicurezza, per te la Dakar è una gara sicura?
«La Dakar è una gara pericolosa. È la specialità stessa ad esserlo, quasi un incrocio tra velocità (per le medie elevate) e cross (per il fondo su cui si corre); in più nessuno conosce con esattezza tutte le insidie del percorso: è un cocktail molto pericoloso soprattutto se ci si perde. Se si rimane feriti fuoripista il rischio è tanto».

C’è solidarietà tra voi piloti?
«Sì, nonostante le differenza tra piloti ufficiali e privati tutti si fermano se vedono un collega in difficoltà. Sotto questo profilo mi sento molto sicuro. C’è molta umanità in questa gara durissima e la solidarietà in pista è tanta».

Intervista di Marco Masetti per Motosprint

Fenouil, l’Africa nel suo destino

E uno chapeau non basterebbe quando si incontra, si parla o si scrive di Jean-Claude Morellet,  classe 1946, un’infanzia trascorsa nel Camerun. Già, l’Africa nel suo destino, ancora prima di cominciare. Una laurea in filosofia, sulle barricate a Parigi, nell’inquieto, 68 francese, entrò nella redazione di “Moto Journal”, la rivista più importante del settore. Da grafico era passato alla mansione di tester. La trasformò in condizioni estreme. Proiettò le prove delle moto su lunghe distanze, soprattutto in terra africana. In qualche modo contribuì ad alimentare lo spirito nuovo dell’avventura, raccolto ed esaltato da Thierry Sabine.

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Fenouil durante l’edizione inaugurale della Dakar 1979

I due personaggi si conobbero alla Abidjan-Nizza, fecero amicizia. Quando Sabine decise di imboccare la strada della grande avventura, fu Jean-Claude a fargli cambiare idea su quel-la che Thierry prefigurava come Dakar-Città del Capo. Non pensando quindi a Parigi che, dal punto di vista mediamo, sarebbe stata la città, palcoscenico ideale per una manifestazione di tale portata. Fu Morellet ad effettuare le ricognizioni con una Yamaha XT 500 fornitagli dalla Sonauto.

Alla “prima” non poteva non esserci. Da tecnico esperto quale era decise che la moto giusta sarebbe stata una bicilindrica, più pesante ma più performante della “mono” nipponica, Casa con la quale aveva già sottoscritto un impegno. Avrebbe dovuto infatti essere uno della squadra Yamaha con Neveu, Auriol, Comte, Olivier… Chiese alla BMW un mezzo. La richiesta venne accolta e girata al preparatore-collaudatore Herbert Scheck.

Dakar sfortuna quella del 1982, conclusa con un ritiro

Dakar sfortuna quella del 1982, conclusa con un ritiro

Per affrontare la maratona scelse la R75 stradale. Poche le modifiche, serbatoio maggiorato, tutto il resto di serie. Due le BMW al via nella prima edizione del 1979, quelle di Morellet e Scheck. Andò male, il tedesco si fermò quasi subito, così pure Jean-Claude, troppo fragili si dimostrarono i mezzi allestiti in fretta e in maniera superficiale. L’intuizione di Morellet si rivelò troppo avanti, doppietta Yamaha con Neveu e Comte. Nel 1980 Jean-Claude, che ormai tutti chiamavano familiarmente “Fenouil”, portò la bicilindrica di Monaco di Baviera al quinto posto assoluto, mentre nel 1981, l’anno del trionfo di Auriol, si piazzò quarto.

Aveva visto lontano. Il suo curriculum alla Dakar segnò un ritiro, con la BMW GS nel 1982, un 9° nel 1983, l’11° con la Yamaha 600 XT Ténéré e un altro ritiro (BMW 1000 GS) nel 1985. Dalle moto passò all’abitacolo delle auto, come navigatore. Nel 1987 finì terzo con Shinozuka con la Mitsubishi e si ritirò l’anno dopo con Zaniroli su una Range Rover. Nel 1989 lo chiamò la Peugeot. Si classificò quarto con Frequelin, sulla 205 Grand Raid nel 1989, mentre nel 1990 coronò la sua carriera con il secondo posto al fianco di Bjorn Waldegaard.

Feouil e Scheck 1983

La vita da corsa di “Fenouil”, avventuriero, giornalista, romanziere, fotografo, è soltanto una scheggia di quanto è riuscito a compiere. Organizzò, tra le tante gare, il primo rally di Tunisia nel 1980 e soprattutto inventò il Rally dei Faraoni in Egitto nel 1982. Una gara seconda soltanto alla Dakar. Quando il padre di Thierry Sabine, Gilbert, decise di passare la mano e mollare il timone della grande corsa, pensò subito a lui “Fenouil”. Era il 1994. Un anno soltanto, ma fu una scelta dettata dalla continuità. Raid, libri, articoli, fotografie… “Fenouil”, lui stesso un personaggio da romanzo.

Testo tratto da “Dakar l’inferno nel Sahara” di Beppe Donazzan edito da Giorgio Nada Editore

Ducati 500 P.L.M. Dakar 1981

La sorprendente Ducati P.L.M. di Xavier Baldet, realizzata su base Ducati Pantah portato a 52 cv, 150 kg per una velocità massima di 180 kmh. Telaio a traliccio tubolare e stato progettato su misura per la realizzazione di questo modello. Ironia della sorte fu proprio il cedimento del telaio a causare il ritiro di Baldet.

 

Ducati 500 P.L.M. Dakar 1981

Qui sotto un estratto video che testimonia il ritiro disastroso di Baldet.

 

 


DATI TECNICI DELLA MOTO

MOTORE
Cilindrata: 498,9 cc
Giri/minuto: 9.050
Carburatore: Dellorto PHF 36

TRASMISSIONE
Frizione: a dischi multipli in bagno d’olio
Trasmissione primaria: ingranaggi elicoidali

TELAIO
Forcelle: Marzocchi 38 PA perno avanzato escursione 300 mm.
Ammortizzatori: doppi a braccio oscillante escursione 230 mm.
Freni: a tamburo, anteriore da 160 mm posteriore 150 mm.

DATI MOTO
Peso: a secco 150 kg
Serbatoio carburante: in kevlar da 46 litri
Velocità massima: 180 kmh