Storia di un poliziotto speciale

testo Francesco Scuderie
foto Archivio Loizeaux,
traduzione Alessandra Allegri
Tratto da Motociclismo
2000

Fin dalla sua nascita, nel 1979, il raid africano più appassionante ed impegnativo ha visto centinaia di moto confrontarsi sul suo tracciato. Alla Dakar alcuni hanno conquistato la gloria, altri hanno perso la vita… Raymond Loizeaux, dopo venti edizioni senza interruzione, ha guadagnato in saggezza.

Raymond Loizeaux abita a Marcoussis, cittadina situata a una trentina di chilometri da Parigi. Arrivando nei pressi delle prime abitazioni, come a simboleggiare una presenza africana in questo angolo del nord della Francia, un cartello indica il gemellaggio tra Marcoussis e il villaggio di Beregadougou nel Burkina-Faso. Incontriamo Raymond nell’officina della sua casa, costruita in prossimità di una foresta, il luogo dove trascorre la maggior parte del suo tempo libero. Nell’incredibile confusione che vi regna, una sorta bazaar di pezzi meccanici, riconosciamo una Montesa Cota, una BMW RS (che, scopriamo, ha più di 200.000 km al suo attivo) e una delle sue vecchie GS della Dakar. “Quella con cui ho partecipato all’ultima Dakar non c’è, è stata esposta da qualche parte da uno dei miei sponsor”, qui, nell’intimità della solitudine, che il nostro uomo prepara le sue moto prima di partire per terre lontane.

Loizeaux, classe 1952, ha debuttato nel 1981 ed è al suo cinquantottesimo raid; oltre alla Dakar ha partecipato al raid dei Faraoni, alla Parigi-Pechino, all’Atlas, è stato in Mongolia e alle gare tipo Baia. Un personaggio dai trascorsi non certo comuni, che merita di essere conosciuto più da vicino. Dopo qualche anno di studio, all’età di ventun’anni entra nella Polizia Nazionale. Forse per scappare alla dura vita della fattoria dov’era nato, ma soprattutto per l’alta considerazione che aveva e che tutt’ora ha per L’uniforme. Tre anni dopo averla indossata, già fortemente appassionato alle due ruote, entra nel corpo di polizia in moto per vivere quotidianamente la sua passione. Durante la settimana esercita il suo mestiere sulle strade, nei week-end partecipa a gare di regolarità come la Coppa dell’Armistizio e il Tour de France Moto.

Contrariamente ai partecipanti alla Dakar dei tempi moderni, Loizeaux ha sempre privilegiato il rapporto con la gente. Identificarlo come il motociclista più famoso in Africa non sarebbe mentire.

La sua passione per i rally arriverà più tardi. “Nel 1978 (edizione 1979 ndr) andai a Parigi per vedere la partenza della prima Parigi-Dakar. C’erano 90 moto e alcuni “scampati” ai rally Abijan-Nizza e al Cóte-Cóte, come i piloti Gilles Comte e Cyril Neveau. Vedere quei matti con le loro moto quasi nuove, per la maggior parte Yamaha XT500 e Honda XL250, mi fece sognare così tanto da farmi decidere all’istante che presto vi avrei preso parte anch’io. La mia scelta cadde su di una boxer BMW: ne conoscevo a memoria la meccanica e una amico concessionario della Marca tedesca si offerse di aiutarmi. Mi ci vollero due anni per trovare i soldi necessari a portare a termine il progetto, d’altra parte a quel tempo ero un pilota senza palmarès”.

Raymond inizia così la sua epopea africana, con una moto poco modificata, un budget di soli 50.000 franchi e una incredibile voglia di vedere la spiaggia di Dakar. Grazie alla determinazione, alle sue qualità fisiche e alle conoscenze meccaniche riesce facendosi anche notare dalla BMW che gli propone di diventare il “portatore d’acqua” della propria squadra nell’edizion successiva. Una collaborazione fruttuosa poiché la sua presenza permetterà a Hubert Auriol di vincere l’edizione del 1983. “All’arrivo, Hubert mi ringraziò. Lo fece più come un amico che non un capitano di squadra che si felicità del buon comportamento del suo equipaggio. Da quel giorno, tra me e lui si è stabilito qualcosa di forte. In seguito abbiamo seguito strade differenti, ma siamo molto legati ancora oggi”.

La collaborazione tra Loizeaux e la BMW continuerà per cinque anni. L’edizione dell’84 lo vede persino quinto all’arrivo, dietro a Rahier e Auriol. Nei vent’anni di partecipazione alla gara africana Raymond ha tradito una sola volta il Marchio bava-rese, guidando un monocilindrico Suzuki nella squadra di Gaston Rahier. Oggi è il decano della Dakar. Di lui, tutti quelli che l’hanno conosciuto, dicono che è un tipo semplice, una “forza tranquilla” che non si accontenta di girare la manopola del gas, un tipo che ama l’Africa e i suoi abitanti. “L’esperienza acquisita sul suolo africano mi ha insegnato soprattutto la modestia e la semplicità.

Una scuola fondamentale, che mi ha dato un grosso aiuto nei miei progetti, nella preparazione della moto, nei miei incontri con la gente o, più semplicemente, nella vita quotidiana. Si è talmente piccoli paragonati all’immensità del deserto, c’è così tanto da imparare dalle persone che si incontrano lungo la strada…” Capace di commuoversi al pensiero delle esperienze vissute, Raymond racconta alcune storie africane. “Nel 1983, una fuga di carburante mi bruciò letteralmente una coscia. Durante il giorno di riposo a Bamako, nel Mali, un uomo mi propose di accampagnarmi all’ospedale per curare la ferita e la sera stessa mi invitò a dividere il pasto con la sua famiglia. Per ringraziarlo, una volta tornato a Parigi gli mandai il mio numero di gara con qualche parola di ringraziamento”.

Qualche anno più tardi, invitato dalla televisione del Mali, incontrai un giovane del posto che partecipava al rally come me. Questo ragazzo non era altri che il figlio dell’uomo che mi aveva ospitato a Bamako ne! 1983. Aveva conservato il numero 102 e aveva chiesto all’organizzazione di poterlo utilizzare in gara… Non mancano racconti più tristi. “Anche i brutti ricordi lasciano tracce incancellabili, Come quelli legati all’edizione del 1988, quella in cui guidai anche di notte, per assistere per quasi 900 km un compagno di squadra rimasto in panne. Ricordo con l’amaro in bocca anche la Dakar del 1986, l’anno in cui morì Thierry Sabine, Rimpiango molto la sua scomparsa perché anche Thierry, come me, era innamorato dell’Africa e dei suoi abitanti. Sapeva dialogare con loro, contrattare con equità senza trattarli con superiorità”. Al contrario di suo padre Gilbert. Lui non amava né l’Africa né i rally e nonostante ciò ha voluto conservare l’eredità di suo figlio. Gli ci è voluto del tempo per capire che questa eredità non era destinata a lui”.

L’edizione del 1988 è quella più importante per la BMW, che guadagna la vittoria con Rahier e Auriol al secondo posto. Raymond finisce quinto nonostante abbia dedicato buona parte del suo tempo all’assistenza dei suoi compagni.

Quando si chiede a Raymond se non è stanco della Dakar e se ha intenzione di continuare ancora per molto, la risposta si fa attendere. Con un sospiro, quasi di rassegnazione, confessa una sorta di incertezza che la dice lunga dul suo pensiero riguardo al rally e alla sua organizzazione. “In effetti, negli ultimi tempi mi pongo spesso uno domanda: bisogna continuare in questa direzione o cambiare rotta? I piloti utilizzano il telefono satellitare sono super assistiti e la classifica, oramai, è una questione di minuti. Sono insomma lontani i tempi dell’avventura, quelli in cui dovevi preoccuparti di tutto, anche di chiedere la strada alla gente. Nel 1985 Gaston Rahier accumulò due ore di ritardo a metà percorso ma questo non gli impedì di vincere il rally. Oggi, tranne che in caso di grossi guasti o incidenti, sarebbe impossibile. Le somme in gioco sono troppo alte per lasciare qualcosa al caso.

Si è arrivati al punto in cui i media si occupano più di quello che ruota intorno alla corsa che al rally stesso. Penso che la TS0 dovrebbe riflettere su tutto ciò, anche in funzione delle difficoltà legate all’ultima edizione. Dico questo consapevole del fatto che Auriol ha già confermato l’edizione del 2001. Da parte mia, se continuerò, sarò ancora una volta con un boxer BMW e sempre con uno spirito amatoriale, preparandomi da solo la moto e occupandomene durante la gara”. Osiamo domandare di un’eventuale partecipazione di Raymond con la squadra ufficiale BMW (che il prossimo anno si presentarà alla partenza con i boxer GS), sia come pilota che all’interno dello staff tecnico. “Quando nel 1998 la BMW ritornò alla Dakar rifiutai l’offerta di integrare l’equi-paggio ufficiale perché c’erano altri che avrebbero potuto fare assistenza meglio di me.

Come Jean Brucy, che è un buon meccanico e un eccellente pilota. Ha dalla sua parte la gioventù e la voglia di riuscire. Quest’anno ho comunque beneficiato di un piccolo aiuto tecnico e finanziario da parte della BMW, in cambio provo alcune delle messe a punto delle nuove soluzioni. Non voglio insomma legarmi a nessuno. Intendo vivere la Dakar e gli altri rally con lo stesso approccio di un marinaio che parte per una navigazione in solitario intorno al mondo. La corsa è importante, ma lo è altrettanto il vivere bene con l’ambiente e con se stessi. La sola cosa che mi impongo sono le e-mail che tutte le sere invio dal bivacco agli alunni di una scuola parigina. Leggendo il resoconto della corsa sul loro computer, i ragazzi partecipano alla mia avventura e scoprono la geografia africana.

Da qualche anno viaggio in nuovi Paesi, uno di questi è la Mongolia, un luogo magnifico ma l’Africa ha un posto particolare nel mio cuore. Non so quello che il futuro ha in serbo ma di una cosa sono sicuro, ci tornerò con o senza la corsa. Posti come il Ténéré, Tombouctu, Bilma o Djanet continuano a farmi sognare. E poi non posso invecchiare in pantofole davanti al caminetto.” Mentre Raymond commenta gli innumerevoli album fotografici, la moglie Annick ascolta con attenzione i suoi racconti. Christelle, la loro figlia, è molto fiera di vedere che suo padre viene intervistato da un giornalista e Frank, dall’alto dei suoi 15 anni, non sogna che una cosa: seguire le tracce del padre. Ma il tempo pressa, il presidente di un Paese africano arriva questa sera a Parigi. Raymond deve indossare la sua divisa da poliziotto motociclista e far brillare la sua BMW ufficiale, quella con la quale effettua la scorta presidenziale.

Brasiliani alla Dakar 1990

Il 12° Rally Parigi-Dakar ha visto la partecipazione di 465 concorrenti (136 moto, 236 auto e 93 camion), che sono partiti da Parigi il 25 dicembre 1989 per attraversare Francia, Libia, Niger, Ciad, Mali, Mauritania e Senegal. Il tracciato di 11.420 km ha ripercorso il territorio governato da Muammar Gheddafi, con il diritto di sbarcare in Africa a Tripoli. La vasta estensione del territorio libico e i suoi deserti hanno continuato a rappresentare un’alternativa alla mancanza di sicurezza in Algeria. Erano presenti i grandi team di moto e auto.

André De Azevedo e Klever Kolberg obiettivo raggiunto!

I camion hanno partecipato nuovamente, attirando l’attenzione dei sovietici che hanno deciso di partecipare per la prima volta con i loro camion Kamaz. È stato un debutto breve, durato solo 5 tappe, ma il produttore russo sarebbe diventato il maggior vincitore della categoria. Per la terza volta, André Azevedo e Klever Kolberg hanno portato in gara i vessilli del Brasile. Dopo tre anni di sforzi per reperire gli sponsor, il duo aveva deciso di gareggiare con una sola moto, mentre la seconda sarebbe stata utilizzata come supporto. Un mese prima della partenza, il duo ha ottenuto il sostegno del produttore di jeans Staroup.

Con risorse molto limitate, riuscirono a organizzare una struttura minima per partecipare con le loro Yamaha TT 600 usate del 1989, e a pagare il trasporto di una persona su un aereo da meccanico. Invece di assumere un professionista per l’assistenza tecnica, scelsero il giornalista João Lara Mesquita come fedele assistente durante l’intera gara. João Lara portava nel suo bagaglio una tenda per due persone, che dividevano tra loro tre durante le gelide notti nel deserto.

Riuscirono anche ad affittare spazio in due camion di supporto appartenenti a squadre francesi. Ogni camion trasportava una piccola cassa con pezzi di ricambio, attrezzi e utensili, oltre a un paio di ruote in più.

Le sorprese iniziarono già prima della partenza, durante i controlli tecnici e amministrativi svolti alla vigilia di Natale presso il complesso della Grande Arche de La Défense, vicino a Parigi. Poche ore prima dell’inizio del rally, uno dei camion non ottenne l’autorizzazione a partecipare. Senza le risorse per organizzare il trasporto con un’altra squadra, sembrava che l’intera strategia per raggiungere Dakar e completare la gara fosse destinata a fallire.

La soluzione arrivò quando i russi si offrirono di “condividere” gratuitamente parte dello spazio disponibile nei loro camion per il trasporto dei pezzi mancanti.

Così, il duo poté festeggiare il Natale sognando di conquistare il loro obiettivo. Ma questa tranquillità durò poco, poiché in cinque giorni di gara, sia i tre camion russi che l’altro camion francese furono eliminati dalla competizione.

Al passaggio di frontiera dalla Libia al Niger, non era stato ancora completato nemmeno un terzo della corsa. André e Klever si trovarono senza più ricambi nei camion di supporto, che avevano abbandonato prematuramente la gara.

Guardando al lato positivo, il supporto dei primi giorni, combinato con l’esperienza acquisita nelle due partecipazioni precedenti, cominciò a dare i suoi frutti. I due procedettero di pari passo, condividendo alcuni componenti e strumenti, consapevoli che non c’era spazio per gli errori. Giorno dopo giorno mantennero una costanza di risultati.

Intanto nella categoria moto, la competizione era accesa tra gli italiani Edi Orioli e Alessandro De Petri su Cagiva, e il francese Stéphane Peterhansel su Yamaha. Nella categoria auto, l’esercito Peugeot dominava incontrastato, con il pilota finlandese Ari Vatanen apparentemente indistruttibile.

Anche senza il supporto dei camion, Klever e André proseguirono insieme fino a Niamey, dove il motore della moto di Klever si ruppe. Oltre alle difficoltà naturali e alle insidie lungo il percorso, la navigazione era cruciale. Il Rally Parigi-Dakar presentava un percorso segreto, diverso ogni anno e non ripetuto mai, svelato solo il giorno prima della partenza, senza possibilità di addestramento o ricognizione.


Per aggiungere ulteriore vivacità, gli organizzatori selezionavano ogni anno percorsi sempre più impegnativi, mettendo alla prova le abilità dei concorrenti, soprattutto in un’epoca in cui non c’era il GPS, e le difficoltà si moltiplicavano, fra stanchezza, sonno e caldo, senza dimenticare le tempeste di sabbia.

Nell’edizione del 1990, gli organizzatori decisero di mettere alla prova gli avventurieri più resistenti, creando una delle tappe più difficili nella storia del Rally Parigi-Dakar. Per la prima volta, il percorso avrebbe attraversato il temibile passo di Néga in Mauritania. Il luogo era già difficile da individuare nella vastità della sabbia, e ancora più difficile da attraversare, immaginatevi scalare una serie di montagne formate da sabbia soffice e migliaia di dune. Molti concorrenti impiegarono più di 12 ore per superare appena 60 km praticamente impraticabili.

André fu uno dei 46 motociclisti che riuscirono a completare la competizione, arrivando al 22° posto fra gli indomiti che raggiunsero la spiaggia di Dakar, piazzandosi al secondo posto nella categoria 600cc. Alla partenza c’erano 465 veicoli, ma solo 133 tagliarono il traguardo, tra cui 46 moto, 64 auto e 23 camion.

Edi Orioli conquistò il suo secondo titolo, il primo per Cagiva. Gli italiani si imposero anche nella categoria camion, con Giorgio Villa su Perlini. Nella categoria auto, il podio fu monopolizzato da Peugeot, con Ari Vatanen che ottenne il terzo titolo in quattro partecipazioni.

Tratto dalla pagina facebook di Kelver Kolberg

DAKAR 1991 | António Lopes, il primo portoghese alla Dakar

Il 29 dicembre 1991, António Lopes è stato il primo pilota portoghese a schierarsi alla partenza del Rally Dakar. António Lopes aveva già un lungo curriculum in moto, essendo stato campioneLopez 1991-1 nazionale di endurance nel 1990, aveva già vinto la Baja Portalegre 500 e all’estero era, per esempio, 26° al Rally dei Faraoni.

Se, in auto, la partecipazione portoghese è iniziata nel 1982, attraverso José Megre, alla guida di una UMM Indenor 2.5 con il numero 216 (fu 45° nella classifica generale), fu solo nella 13a edizione della Dakar, nel 1991, che un motociclista portoghese partecipò per la prima volta alla Dakar.
Alla guida di una Honda Africa Twin 650, e con l’assistenza di Honda France, il pilota portoghese ha partecipato alla Parigi-Tripoli-Dakar, e ha impressionato all’inizio della gara. Ha raggiunto il giorno di riposo al 29° posto della classifica generale, in una gara alla quale partecipavano una trentina di moto di squadre ufficiali, e subito in testa alla classe Marathon.

“Le cose stavano andando bene”. Era al primo posto nella classe marathon e al 20° posto in classifica generale, ma una caduta nella 12ª tappa, in Mali, ha rovinato tutto. Caduto rimane privo di sensi e il pilota che lo ha soccorso ha attivato la radiotrasmittente che inviava il supporto medico (elicottero) e ha escluso il corridore infortunato dalla gara: “È stato frustrante”. Non si è fatto male, nemmeno un graffio da raccontare: “Mi sono svegliato in un’ambulanza e avrei continuato, ma le regole erano così e sono stato escluso”.

A parte il risveglio in un’ambulanza, l’avventura più grande è stata quella di partecipare a un segreto che inlcudeva anche una morte di un concorrente. L’atmosfera era tesa, la Guerra del Golfo era iniziata nell’agosto del 1990 e un soldato africano finì per uccidere uno dei concorrenti in Mali. La versione ufficiale è che Cabannes fu colpito da un proiettile vagante. Questo fu l’inizio dei problemi che avrebbero portato la Dakar a lasciare l’Africa per il Sud America e poi il Medio Oriente.

“È stata l’avventura di una vita. Nessuno sapeva come fosse. Sapevamo solo quello che leggevamo sulle riviste e sui giornali, quindi dire che sono andato al buio è un eufemismo”, ha raccontato l’ex pilota a DN. Il 29 dicembre 1991, si è recato al rally con una moto prestatagli dalla Honda, una squadra che lo conosceva dalle competizioni fuoristrada.

E’ stato campione nazionale di Enduro e aveva già vinto la Baja Portalegre e partecipato al Rally dei Faraoni. “La moto era rimasta dall’anno precedente, era quasi pronta e doveva solo essere messa a punto. All’epoca cominciavano ad arrivare gli sponsor e ho ottenuto i soldi necessari, 12.000 escudos (circa 60.000 euro)”, racconta, sottolineando che oggi la quota di iscrizione è molto più bassa e si può fare una Dakar con 7/8.000 escudos.

Era la prima volta che un motociclista portoghese vi partecipava. Le moto pesavano 300 kg (oggi pesano la metà), erano alte quasi due metri ed era difficile manovrarle tra le dune. Non c’erano i moderni road book o il GPS. “C’era una bussola elettronica, che aiutava chi sapeva come funzionava. L’ho ricevuta solo due giorni prima, quando sono arrivato in Francia. Mi hanno dato un opuscolo su come funzionava, ma era quasi inutile”, ha confessato l’attuale proprietario di una concessionaria Honda a Mem Martins.

Andavano alle tappe con una mappa e un biglietto aereo. Se si perdevano, bastava andare in un qualsiasi aeroporto africano per raggiungere Dakar o Parigi. Se la loro moto si rompeva e non poteva essere riparata, rimanevano lì. Non c’erano camion scopa e nessuno li andava a prendere: “Eravamo da soli e questa è la grande differenza con oggi, ed è per questo che i nostalgici dicono che quella era la vera avventura. È da qui che nasce l’espressione ‘se arrivi alla fine è una grande vittoria’. Perché è stato così”.

Non è più tornato alla Dakar. Aveva realizzato il suo sogno e questo era “sufficiente” per lui. Sapeva che vincere era impossibile e non era disposto “a correre rischi così grandi solo per partecipare” ma il record di un grande debutto, ai comandi di un Africa Twin quasi standard. Il primo concorrente di moto a finire fu Pedro Amado, l’anno successivo, 1992, in sella a una Yamaha XTZ 660 (fu 28° assoluto/9° nella classe Marathon), ma di lui parleremo un’altra volta…

In ricordo di Hubert Auriol

Tratto da GPONE il ricordo di Carlo Pernat

“Hubert Auriol era un signore e un amico, una persona che mi ha insegnato tanto, sopratutto nelle relazioni esterne. Era sempre sorridente e con la battuta pronta”. Carlo Pernat ricorda così il re della Dakar, il primo pilota ad averla vinta sia in moto sia in auto. Uno dei miti di quel raid circondato dalla leggenda.

Il rapporto tra Pernat e Auriol non era stato solo professionale, sulle piste dell’Africa era nata un’amicizia durata negli anni. “Ero in Aprilia quando ed ero stata invitato in una trasmissione tv a Parigi, il lunedì dopo il Gran Premio di Le Mans – racconta ancora Carlo – Finito di registrare, erano verso le 23, ci venne in mente di telefonare a Hubert per andare a mangiare qualcosa tutti insieme, a quei tempi aveva un ristorante. Mi rispose che era già a letto, si rivestì e venne con noia mangiare una pizza”.

Il loro rapporto iniziò quando il pilota francese fu ingaggiato dalla Cagiva per correre la Dakar.

“Mi presentarono Auriol ne1 1985. Era già un mito e fu importante per ottenere le sponsorizzazioni – continua Pernat – Ricordo che Ligier mi aveva detto di andare alla Tour Elf a Parigi, garantendoci che ci avrebbero dato i soldi per la sponsorizzazione. Io non ci credevo, ma andammo: ci offrirono il pranzo e poi andammo nel cinema privato a vedere dei filmati della Dakar. Alla fine mi dissero: qui c’è un miliardo per la gara. Fu grazie a Hubert se li ottenemmo”.

Hubert, nato ad Addis Abeba, conosceva i segreti dell’Africa e li costudiva gelosamente. ” Il suo asso nella manica era la Mauritania, anche se non ho mai capito il perché – confessa Pernat – Praticamente lì, in ogni tappa, aveva mezz’ora di vantaggio su tutti. Gli chiedevo come facesse e lui mi rispondeva che seguiva le tracce degli animali”.

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L’avventura con la Cagiva durò 3 anni, ma il destino volle che non fosse coronata dal successo. Nel 1987 sfumò quando sembrava scontato. “Avevamo praticamente già vinto la Dakar, avevamo un’ora e mezzo di vantaggio all’inizio dell’ultima tappa, che è solitamente è una passerella sul Lago Rosa – il ricordo di quel giorno è ancora vivido nella mente di Carlo – Tutto era nato la sera prima al bivacco. Nel corso dell’ultima tappa si passava su delle rotaie dismesse e Roberto Azzalin, il capotecnico, e Auriol litigarono sul fatto se usare o no le mousse per gli pneumatici. Non ricordo cosa decisero, ma che fu Hubert ad averla vinta, però poi durante la tappa forò 3 volte”.

La sfortuna non era finita.

“Mi raccontò poi che aveva battuto con la caviglia contro una specie di alberello nascosto, dall’altra parte c’era un sasso e andò a sbattere anche contro quello. Le due caviglie erano aperte, non riuscivamo nemmeno a levarli gli stivali, non ho mai capito come abbia fatto a guidare per altri 30 chilometri in quelle condizioni. Una cosa mi è rimasta particolarmente impressa. Lo avevamo caricato sull’elicottero che lo avrebbe portato all’aeroporto da cui poi sarebbe partito per la Francia. Hubert piangeva e mi ripeteva: “di’ a Castiglioni che abbiamo battuto la Honda”.
Quella è stata una delle poche volte nella mia vita in cui non son o riuscito a trattenere le lacrime

Anche dopo quella sconfitta, Hubert non si abbatté.

“Auriol era molto professionale. Claudio organizzò un volo privato per Parigi con alcuni giornalisti per fargli visita in ospedale. Hubert ci ricevette con la maglia della squadra, non con il camice. È una delle persone che hanno contato di più nella mia vita e nella mia carriera, ho imparato tanto da lui’ conclude Pernat”.

RICORDANDO ‘LE PETIT GASTON’

L’8 febbraio 2005 venne a mancare Gaston Rahier. Un Campione piccolo di statura ma grande nel talento e nei numeri. ‘Le petit Gaston’ era un pilota polivalente, in grado di trionfare nelle più rinomate competizioni legate al fuoristrada. Dal 1975 al 1977 ottenne il tris iridato nel Mondiale Cross 125 dominando, in lungo e in largo, in sella alla Suzuki.

Nel 1978 perse il Titolo in favore del giapponese Akira Watanabe. L’anno seguente approdò in Yamaha, ma non riuscì a fare meglio del terzo posto finale. Il 1980 lo vide accasarsi alla Gilera. Nella stagione d’esordio con la Casa italiana, appose la sua ultima firma in un Gp. Sul tracciato jugoslavo di Trzic ottenne, infatti, il successo assoluto grazie a un secondo e un primo posto. Si fermò così a 29 successi nella ottavo di litro, un record che resisterà fino all’ultimo anno di esistenza della classe minore, prima dell’avvento delle nuove categorie.

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Nel 1982 tornò in Suzuki, ma fu anche l’anno che sancì il suo addio al Motocross. Un serio infortunio alla mano riportato durante il Mondiale 250 non decretò, comunque, la fine della sua carriera sportiva, perché da lì a poco intraprese l’avventura alla Parigi-Dakar. In sella alla BMW, nel biennio 1984-1985 il fiammingo centrò il bersaglio grosso, entrando una volta di più nella leggenda. Ma Gaston non si sentì sazio a sufficienza. A quel punto mise nel mirino il Rally dei Faraoni.

Anche in quell’occasione tornò in patria vittorioso, aggiudicandosi l’edizione 1988. Un nuovo incredibile traguardo che arricchì ulteriormente il suo palmares, già vasto come pochi altri. Fra i vari Titoli, non vanno dimenticati i successi che colse con il Team belga al Motocross delle Nazioni 1976 e al Trofeo delle Nazioni in ben quattro edizioni. La passione per le due ruote artigliate lo accompagnò fino all’ultimo giorno della sua esistenza.

Diciassette anni fa Gaston Rahier se n’è andato sconfitto da un cancro, a 58 anni, lasciando un vuoto che persiste con intensità ancora oggi. Molti appassionati continuano a ricordarlo, per tenere viva la memoria di un uomo che dedicò la sua esistenza al fuoristrada, segnando per sempre questo mondo.

DAKAR 1987 | Dal cross al fascino del deserto

Già negli anni precedenti Michele Rinaldi aveva lanciato il proposito di partecipare alla Dakar, attirato dal fascino che circonda questa gara ma soprattutto dalla possibilità di «viverla», nei pochi momenti liberi, a stretto contatto con tutti gli altri partecipanti. Rinaldi era anche arrivato ad ipotizzare una sua partecipazione nei panni del pilota privato, nonostante sia abituato a vestire i panni del «super ufficiale» nel cross.

 

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Dalla Suzuki, invece, durante l’autunno gli arrivò la proposta di partecipare con moto ed assistenza ufficiale nel team allestito in Francia dai fratelli Joineau. «È stata la Suzuki a chiederlo – dice l’ex campione del mondo – visto che conosce-vano il mio desiderio di partecipare e vogliono cercare di fronteggiare la concorrenza che proprio da queste gare ha trovato grossi sbocchi commerciali».

 

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Hai già fatto qualche esperienza di guida in Africa?
«Soltanto durante alcuni test in Tunisia. Il problema maggiore, a parte quelli d’orientamento, viene dal peso e della velocità della moto. Quando acceleri sulla sabbia derapa da tutte le parti e ci vogliono buoni muscoli per tenere stretta una moto che pesa quasi il doppio di quella da cross. Per abituarmi tutti i giorni ho fatto un pò d’allenamento assieme a Balestrieri, una volta anche di notte. Comunque la Suzuki 651 anche se è stata preparata bene non è una moto vincente contro le varie pluricilindriche e neppure io mi sento in grado d’ambire al successo».

 

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Come è stata cambiata la Suzuki rispetto al modello di serie?
«Il telaio è quello di serie. Sono state cambiate la forcella ed il sistema del monoammortizzatore. Sul motore ci sono una nuova testa, cilindro e marmitta per portare la cilindrata a 651 cc, inoltre il raffreddamento è ad olio come sulle Suzuki stradali e non più ad aria».

DAKAR 1991 | Claudio Quercioli, vedi l’Africa e poi… torna

Claudio Quercioli non può dire di non essere arrivato in Africa, ma è andato poco oltre. La sua gara è finita a metà del primo trasferimento, con un grippaggio che lo ha costretto a fare gli ultimi 160 km al traino. Il motore di ricambio non è nemmeno stato scaricato dal camion di assistenza: la mattina dopo è ripartito a bassa andatura, scortato da una macchina della polizia libica, per tornare a Tripoli.

«Ho finito la tappa trainato dal camion di Savi, correndo anche un bel rischio viaggiando a 110 km/h h di notte, in quelle condizioni e soprattutto ho superato a spinta il controllo all’arrivo, mentre il regolamento prevede che questo avvenga a motore acceso. Al bivacco ho sbloccato il motore con la leva della messa in moto, ed ho scoperto di aver grippato perché era finito l’olio. Purtroppo non avrebbe potuto resistere nemmeno il propulsore di scorta che ha già parecchi chilo-metri sulle spalle: l’avevo portato nel caso fosse stato necessario portar via la moto dopo una rottura nel deserto, ma di fare tutta la gara non se ne parla».

È il secondo ritiro per Quercioli, che già lo scorso anno fu costretto ad abbandonare dopo una vicenda rocambolesca: riammesso alla gara grazie al membro di giuria italiano dopo che i commissari gli avevano impedito di prendere il via, ruppe due volte il camion col quale stava tornando a prendere la moto lasciata ad Agadez e non riuscì a recuperarla in tempo. «Alla Dakar tornerò, ma solo se potrò avere una squadra, in modo da poter guidare e basta. Dovevo lasciar perdere già dopo l’an-no scorso, ma farla è bellissimo. Faccio volentieri i sacrifici che sono necessari per prendere il via; è quando mi capitano cose come quella di oggi che non mi diverto più. Però mi vien da ridere se penso che a febbraio mi tornerà la voglia di parteciparvi».

Dakar 1985 | Rahier e Picco si raccontano

Le barbe lunghe, i volti scavati, la polvere rossiccia appiccicata addosso, gli occhi incassati, le mani con calli enormi, le moto sporche, sverniciate, saldate, rattoppate. I reduci dalla Parigi-Dakar si presentano così sulla spiaggia di Saly-Portudal, 80 chilometri dal traguardo, la sera prima del grande arrivo sul bagnasciuga oceanico della capitale senegalese.

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La grande avventura è quasi finita. I veri eroi sono i motociclisti, arrivati in una trentina dei 180 che erano — tra i superstiti anche sei italiani: Picco terzo, Marinoni quarto, Zanichelli 13°, Balestrieri poi squalificato per essersi fatto trainare nell’ultima tappa insieme con Gagliotti e Gualini. Appena arrivati sembrano dei fantasmi spaventosi, sembrano dei cadaveri in sella alle moto. Chi ha dormito per 22 notti in media tre-quattro ore ogni volta e ha guidato per dodici ore, tredici, quattordici o anche più, in mezzo al deserto o sulle pericolose piste di terra battuta.

Vincere la Parigi-Dakar, dice Rahier, è più bello che conquistare un mondiale di cross. Picco: « I francesi non volevano un vincitore italiano ».

Sono stanchi al limite del crollo. Basta una notte, però, trascorsa in riva al mare, basta una dormita di cinque o sei ore, basta la quasi certezza di avercela fatta per rivedere, la mattina dopo, degli esseri nuovamente umani, gente che racconta volentieri e senza supponenza, almeno tra i motociclisti, la propria avventura. Gaston Rahier è un belga biondiccio, piccolo piccolo con baffetti né lunghi né corti, e simpatico: sembra l’Asterix dei fumetti. E’ lui che ha vinto, in sella alla mastodontica BMW. Ce l’ha fatta per il secondo anno consecutivo, acciuffando il primo posto proprio quando pareva inevitabilmente sconfitto dal nostro Franco Picco. «Vincere una Parigi-Dakar — ha detto Rahier, due volte campione del mondo di motocross — è più bello che vincere nel cross.

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Per arrivare su questa spiaggia devi aver sputato sangue. Qui più che la moto è l’uomo che vince, nel cross invece moto e assistenza hanno troppa importanza. Questa prova è bella perché qui tutti i motociclisti hanno lo stesso problema, cioè sono soli, nel deserto o in una foresta, perciò c’è solidarietà tra tutti, ci si aiuta, si cerca di stare insieme. Con Picco, che conoscevo dai tempi del cross, siamo davvero amici, abbiamo fatto molta strada insieme ». Insinuiamo che la BMW ufficiale di Rahier è molto cambiata rispetto a quella della precedente edizione. « Alla BMW — risponde Rahier — hanno lavorato molto sulla moto. Il motore oggi ha più coppia, il telaio migliore tenuta, le sospensioni lavorano in modo più efficace e il tutto è più leggero ». A dieci metri dal vincitore disteso sulla sabbia insieme con altri italiani ecco lo sconfitto, cioè Franco Picco.

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E’ con il compagno di squadra Marinoni, con i due piloti della Honda-Italia Balestrieri e Zanichelli, con il privato Gualini. Sono in attesa di affrontare l’ultima fatica, ma il vento rinfrescante e la visione dell’oceano li ha già trasformati rispetto alla sera precedente. Chiediamo a Picco dove ha perso la gara. « Direi — risponde il nostro interlocutore — di averla persa a Kiffa, il giorno che mi sono smarrito insieme con Rahier. E’ accaduto perché Auriol aveva perduto una pedana e si era fermato a sostituirla. Se avessi seguito Auriol, non mi sarei perso perché lui, la « volpe del deserto », non sbaglia mai strada, mentre Rahier ha meno senso di orientamento. Ma lì più del primo ho perso il secondo posto perché perdendoci abbiamo permesso agli altri di farsi sotto ».

Ma quand’è che aveva creduto di aver vinto? « A Tichit, — risponde Picco — quando hanno rifatto la classifica tre volte. La prima volta mi avevano dato 44 minuti di vantaggio su Rahier, la seconda il mio vantaggio s’era ridotto a 23 minuti e la terza m’avevano posto al secondo posto a meno di sette minuti. Io avevo la certezza di essere arrivato in tempo al controllo, invece, poi, hanno detto che non era così. Mi sono sentito per un attimo de-rubato della vittoria. Ho pensato che non fosse bello trattarmi così. Comunque, anche terzo va bene, via! Penso che ai francesi desse noia che a vincere fosse un italiano, uno, poi, arrivato per la prima vol-ta. Già arrivare a Dakar, credete, è una grossa soddisfazione. E’ tanto bello che quando ci saranno concomitanze tra gare di cross e corse africane io sceglierò l’Africa ».

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Allora questi francesi l’hanno fatta un po’ sporca? « A loro dava chiaramente fastidio — riprende Picco —che a vincere fosse un italiano. Quando nel Ténéré sono partito in testa hanno detto “chi parte davanti qui si perde” e invece sono arriva-to a soli 11 minuti da Rahier. Ho tenuto duro e allora tutti si sono stupiti e anche pre-occupati. Da lì in poi ci han-no tenuto d’occhio in modo particolare e abbiamo dovuto rinunciare all’assistenza poiché i nostri mezzi erano fuori gara e soltanto chi è ancora in lizza può fare assistenza. Una mano, però, la danno a tutti anche i mezzi fuori corsa, però, a noi è sta-to vietato più che agli altri. Meno male che ci hanno aiutato un po’ i francesi della Sonauto-Yamaha ».

Qual è stato il tratto più difficile?  « C’era il mito del deserto del Ténéré — dice Picco —ma il deserto della Mauritania è peggio: Qui, la sabbia è finissima, come acqua, sommerge tutto. E anche le piste dure delle tappe finali però sono state terribili. La terzultima tappa prevedeva l’attraversamento di una foresta seguendo, così era scritto sul “road-book”, le impronte e le piste degli animali, peccato soltanto che di piste là in mezzo ce ne saranno state ventimila e tutte strette per una moto, figurarsi per le auto e i camion ».

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In una gara del genere quali sono i problemi di navigazione e di orientamento? « Avevo partecipato al Rally dei Faraoni — afferma Picco — e avevo sbagliato e imparato, per cui avevo deciso di seguire il “road-book”, l’istinto e, se si poteva, Auriol, tutto qui ». L’illusione di farcela per Picco è finita dopo essere stato parecchio tempo al comando della gara, per i pilo-ti del team Honda-Italia, invece, molto prima. Balestrieri e Zanichelli hanno accusato guai tecnici e sfortuna, pur dimostrando, come piloti, di essere al livello dei migliori. Zanichelli è arrivato alla fine con il piede sinistro distrutto. Balestrieri è stato squalificato per essersi fatto trainare pochi chilometri prima di Dakar quando era stato costretto a finire in mare per evitare bambini indigeni troppo calorosi e l’organizzazione se ne è accorta ed è stata inflessibile così come è stato per Gagliotti e Gualini.

Tratto da Motociclismo Marzo 1985

Cyril Despres, la carriera di un mito dakariano

Con la quinta vittoria alla Dakar Cyril Despres si posiziona tra i primi rallysti di tutti i tempi e di fatto come uno dei più grandi piloti di sempre.  Secondo alcuni è il successore naturale di Stéphane Peterhansel e le sue imprese assumono importanza per lo straordinario atleta e uomo che si cela sotto quel casco spesso coperto da sabbia o fango. Un professionista di primissimo livello e campione unico che in questi anni in tredici partecipazioni alla Dakar ha conquistato 5 vittorie, 5 secondi posti e due terzi.
Tuttavia Despres non è solo Dakar ma un pilota che si è cimentato in quasi tutti i rally, spesso vincendoli, ma anche manifestazioni di enduro estremo (vittorioso in due edizioni dell’Erzbergrodeo).

Cyril nasce il 24 gennaio 1974 a Fontainbleau, l’nfanza è serena senza nessun appassionato di due ruote in grado di trasmettergli “la malattia del tassello” fin quando i suoi genitori si trasferiscono a Nemours e diventa amico di Couturier Pascal, campione di trial. A 13 anni quando i suoi coetanei per la comunione ricevono le tradizionali croci, catene e braccialetti tanto care alla tradizione cattolica, lui riesce a farsi regalare delle buste con soldi per un totale di circa 4000 franchi (600 euro) che subito  muterà in una Fantic Moto Trial 80, quella moto che oggi è esposta nel soggiorno della casa in cui abita con la famiglia.

Con Pascal inizia con l’Enduro affrontando una delle discipline più impegnative dal punto di vista fisico, che richiede prcisione, costanza, abilità pazienza e forza.
La passione lo porta a lavorare come meccanico in una officina a Parigi e la sera finito l’orario di lavoro prepara le moto che utilizza nelle sue prime gare di enduro. Il debutto avviene nel 1998 in una gara nazionale a Plomin e subito vince! Una vittoria che lo galvanizza e lo porta subito a sognare la gara che gli regalerà tantissime emozioni, la Dakar.

Nel 2000 con il supporto dell’amico Michel Gau il progetto Dakar si concretizza nella mente e nella volontà, il problema sono sponsor e budget.  A volte più che i soldi servono delle idee così con Michel dopo aver studiato le azioni di merchandising tipiche della Dakar decide di acquistare bottiglie di  Bordeaux, Saint Chinian e Chablis e di etichettarle con il tragitto della Dakar. “Avevamo bisogno di 80 000 franchi ciascuno. Grazie alle fine anno feste, e soprattutto considerando che era il capodanno del nuovo millennio, vendendo le bottiglie  a amici e aziende siamo riusciti a raccogliere i fondi per partire.. “

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Riesce ad iscriversi e partire per la prima Dakar della sua vita con una Honda 400 XR : “ho avuto il primo assaggio del brivido degli spazi aperti nel deserto. E ‘stata una rivelazione”. Una rivelazione accompagnata da un risultato incredibile, sedicesimo assoluto e secondo nella sua categoria.
L’amore per l’Africa è ormai scoccato, continua con con quel che restava della vendita vino e con il sostegno di alcuni sponsor si iscrive al Rally di Tunisia e conquista il primo podio finendo al un terzo posto. I team ufficiali si accorgono di lui e nel 2001 arriva la chiamata da BMW, ormai è un pilota ufficiale.

Nel 2001 conclude dodicesimo della Dakar, segnando la sua prima vittoria di tappa. Lo stesso anno è secondo alla Gilles Lalay Classic e vince l’UAE Desert Challange di Dubai. L’anno successivo bissa il successo a Dubai, vince il Rally de La Pampas e l’Erzberg in cui con una Honda privata mette in fila tutto lo squadrone KTM. Proprio questa impresa lo porterà a stringere un accordo con la casa che gli regalerà tutti i successi più importanti, la KTM.

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Nel 2003 alla Dakar vince tre speciali e conclude secondo, vince nuovamente a Dubai e all’Erzberg, e con un secondo posto al Rally di Tunisia e la vittoria al Rally del Marocco conquista il campionato del Mondo Rally.

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Nel 2004
 nonostante le quattro vittorie di tappa conclude la Dakar al terzo posto, vince nuovamente l’Optic 2000 (Rally di Tunisia), e il  Red Bull Romaniacs in Romania, è terzo nel Rally del Marocco e secondo alla Baja d’Aragòn in Spagna.

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Nel 2005 arriva la prima vittoria della Dakar “Quel giorno resterà impresso nella mia memoria per sempre. Vincere la corsa più dura del mondo, e salendo sul podio circondato dalla folla Senegal -. Wow, che una grande sensazione “.

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La vittoria e i mesi successivi sono un mix di emozioni e stati d’animo perché in pochi mesi ha perso dei compagni di squadra, degli amici e dei maestri che tanto gli avevano insegnato: Sainct Richard pochi mesi prima e Fabrizio Meoni morto nella undicesima tappa di quella Dakar che lo aveva visto trionfare. Fu proprio Fabrizio che dopo la morte di Sainct avvenuta nel rally precedente si rivolse a Ceryl dicendogli che il modo migliore per rendere omaggio al compagno di squadra era portare una KTM a tagliare per prima il traguardo a Dakar.

Con avvenimenti simili che avrebbero turbato chiunque riesce a sorpassare quei giorni e nell’edizione 2006 termina secondo alla Dakar con quattro vittorie di tappa e andando a podio in altri Rally. Nel 2007 torna a far sua la Dakar, iniziando quella staffetta che durerà fino all’edizione 2013 che avrebbe voluto lui e Coma alternarsi le vittorie. In quello stesso anno vince il Red Bull Romaniacs e conquista diversi secondi posti in gare Baja e rally.

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I problemi geopolitici in terra africana spingono ad annullare l’edizione del 2008 e in quest’anno vincerà  l’UAE Rally Desert Challenge di Dubai ed il Rally di Sardegna, oltre ai consueti secondi posti che alterna di anno in anno con le vittorie.
Con una nuova collocazione alla Dakar, in terra sudamericana coglie un secondo posto alle spalle del solito Marc Coma, vince il Rally del Marocco, di Tunisia e il  Red Bull Los Andes, sarà secondo all’UAE Desert Challange e terzo al Rally del Marocco e al Red Bull Romaniacs. Conquisterà quest’anno il suo secondo Campionato del mondo di Rally.

Si appresta da Campione del mondo all’ennesima avventuara in terra sudamericana ma pochi mesi prima della partenza KTM decide di  ritirare la squadra ufficiale dall’edizione 2010 a seguito della decisione degli organizzatori di restringere la partecipazione ad una cilindrata massima di 450 cc. “con la Red Bull e l’aiuto KTM abbiamo comunque formato la nostra squadra”. Fu una cavalcata incredibile, dominò la gara dal terzo giorno fino alla fine, conquistando con una supremazia assoluta la sua terza Dakar.Nello stesso anno vince il Rally del Marocco ed il Kenny Enduro, una gara di Enduro estremo, dimostrando ancora una volta la sua capacità di affrontare le situazioni più estreme.

Nel 2011 è secondo alla Dakar, al Red Bull Los Andes e al Rally di Sardegna, vincendo il Rally Dos Sertoes. Arriviamo agli anni del doppio successo dakariano: 2012 (in cui vince anche il Rally del Marocco e Desafio Litoral Argentina).
A 39 anni alla vigilia della Dakar 2013, a Despres basta una vittoria alla Dakar per raggiungere quel mito che è Pethersanel ed è a sole 4 vittorie di tappa per eguaglliarne il primato (33 Petheransel e 29 lui).
Ndr: Despres vincerà l’edizione 2013 e arrivò 4° nell’edizione 2014, sua ultima competizione in moto.

Un pilota che nella sua classe, nella sua capacità di navigazione e nella determinazione  nell’affrontare sfide estreme è l’esempio di come ci siano persone che hanno un dono e sono in grado di massimizzarlo. Il suo, quello di guidare la moto in condizioni estreme, lo ha assecondato e lo ha alimentato con una professionalità propria solo dei più grandi atleti e sportivi di sempre.

Un uomo che ancora oggi non ha dimenticato la passione delle origini e della magia della terra africana. Quella terra in cui oggi spesso si reca per proseguire quell’attività ideata e voluta dal suo compianto compagno di squadra Meoni.
Anche per questo Despres è di fatto uno dei più grandi di sempre.

Gualdi, il tedesco di Bergamo

Nato nel 1957 a Bergamo, Franco Gualdi si avvicinò al mondo delle moto per la passione trasmessa dal padre che correva in sella a Motobi, MV e Devil e così da giovanissimo prese parte alle primissime gare di enduro regionali. La sua biografia racconta di due sole Dakar, una delle quali nemmeno terminata e di una solida carriera nell’enduro.

Si guadagnò l’appellativo “Il tedesco di Bergamo”, per la sua guida impeccabile e per la precisione con cui studiava i percorsi. Come punto di partenza per la sua carriera da professionista, diciottenne, scelse di entrare nel gruppo delle Fiamme Oro dove conobbe Azzalin, anche lui attivo nello stesso corpo, ma con qualche anno in più: quando entrò Gualdi, Azzalin era uno dei “vecchi” che stavano smettendo di correre.

Franco fece le prime gare con la Sachs, dal 1974 al 1978, per poi passare a moto italiane.

Era il 1984 quando si avvicinò alla Cagiva, che lo volle per partecipare alla famosa Baya 1000, in Spagna: il suo compagno di squadra fu Gian Paolo Marinoni, ma con loro c’erano anche Roberto Azzalin e Ostorero. Se questi ultimi affrontarono la gara con come unico obiettivo quello di divertirsi, Gualdi e Marinoni, invece, avevano sete di risultati importanti.
La Baya era una gara con due anelli di 500 Km e il primo che arrivava, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, avrebbe vinto. Ogni 70 Km c’erano punti assistenza di tipologie alterne: uno di rifornimento, l’altro di meccanica.

La gara era a luglio e il percorso non era segnato con il road book. Quell’anno c’era Gaston Rahier, che era un pò il “padrone” del bicilindrico. Gualdi ad un certo punto se lo ritrovò davanti, superandolo su un tratto di strada molto tecnico e più affine ad un endurista come lui, che ad un crossista come il Belga. Poco dopo, con l’esuberanza tipica della sua giovane età, Gualdi arrivò lungo ad una curva e uscì fuori strada: non cadde, ma prese una grossa roccia e la piastra superiore della forcella si spezzo. Ma Gualdi non si arrese: prese una cinghia, la usò per legare la piastra al canotto di sterzo e riparti. Lui e il suo compagno arrivarono in fondo staccando un ottavo posto assoluto, alle spalle dei loro rivali in BMW.

 

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La sua prima partecipazione alla Dakar è datata 1987: Auriol e De Petri erano i piloti di punta, mentre Franco e Picard erano i loro gregari. In una tappa, la moto di Gualdi era come morta: pista larghissima, di 2 km e tutti i piloti passavano l’uno lontano dall’altro. Rimase fermo, con la paura che l’assistenza non lo vedesse.
Lasciò la moto a terra e posizionò la giacca a 300 metri, in modo da farsi notare senza rischiare la vita. Inizio a smontare la moto ma senza trovarne il guasto, finche verso sera arrivò il camion assistenza e caricarono la lui e la moto. Arrivarono al campo alle 2 di notte, a pochi km dall’arrivo. Gualdi, nascosto nel camion in mezzo alla moto e alle gomme, attraversò così il traguardo.

Scaricarono poi la moto e fecero un intervento di cambio motore. Alle 5 del mattino, prese la sua Cagiva, tornò indietro da una pista esterna, riagganciandosi così alla principale e tagliò il traguardo. Ormai era tardi e mancava solo un’ora alla partenza della nuova tappa, così bevve in fretta un sorso d’acqua, si diede una sciacquata e riparti subito per la tappa successiva. In generale, quella fu un’edizione sfortunata per Gualdi: bastava un’inezia e la sua moto era ferma e in più, la Cagiva era davvero impegnativa. Aveva il baricentro molto alto e il peso e la velocità non perdonavano: nel caso di cadute, risollevarla era una fatica, anche per i fisici più allenati.

Partita male, la gara non poté che proseguire peggio. A pochi km dall’inizio, trovò il collega Ciro con il cambio rotto: si fermò e gli diede una mano a sistemare la moto. Rimontarono per errore i due serbatoi scambiati e – proprio prima che se ne accorgessero e li invertissero-qualcuno passò e scattò una foto. Quell’anno passò agli annali per la loro squalifica, che arrivò subito dopo questo fatto e proprio a causa di quello scatto, dove si vedeva chiaramente una moto con il numero 99 sul frontalino e il numero 97 sui laterali, che venne usato come prova a dimostrazione di uno scambio di moto che non poté mai essere concretamente provato.

Fu una sorta di punizione divina: il team Cagiva non era propriamente un esempio di ligio rispetto dei regolamenti, ma non veniva quasi mai punito per mancanza di prove. Quella volta, invece, i protagonisti giurarono di non aver fatto nulla di scorretto, ma vennero penalizzati sulla base di una foto che non dimostrava nulla. Non ci fu comunque possibilità di appello, dal momento che la squalifica non arrivò subito dopo la gara, né il giorno seguente, che era di riposo, ma alle sette del mattino del giorno dopo ancora, poco prima che iniziasse la tappa.

Azzalin non poté fare altro che prendere atto della squalifica e De Petri e Gualdi rimasero fermi, con la minaccia che, se avessero provato a percorrere anche un solo chilometro, sarebbero stati squalificati per “assistenza indebita” anche i due compagni di squadra ancora in gara. Visto che Auriol era in testa, non valeva la pena rischiare, così i due gregari ripartirono per l’Italia e il giorno seguente, si ritrovarono in prima pagina sull’Equipe per una furbata che non avevano mai compiuto, e che, ovviamente, non avrebbero mai ammesso. Nel 1987 Gualdi si dedicò alla Proto: ci salì, la guidò, la sviluppò e la rese affidabile. Fece un ottimo lavoro sui carburatori, assieme a Franco Farnè: uno addirittura lo bucarono per capire il livello della benzina.

Farnè recuperava la benzina in esubero dal carburatore e la rimetteva nel serbatoio con un tubicino. Alla fine prepararono circa 20 carburatori: il Weber era il top, davvero micidiale appena si spalancava la manetta del gas. Provò poi le forcelle in Tunisia, assieme a Ciro, nella terra di nessuno, mentre a Savona e sulla scarsamente trafficata Gravellona Toce, fece i con i test delle mousse della Michelin. Gualdi andava a chiodo, ai 100 Km/h, poi tornava indietro e i tecnici testavano le gomme. Il problema, che rimase irrisolto anche durante la Dakar, era che a 170 / 175 Km/h si staccavano i tacchetti della ruota.

Mentre provava, Gualdi dovette fare un’ inversione ad U: la moto si spense e pareva non voler più a ripartire. Arrivò la polizia stradale e lo trovò lì, in mezzo alla strada, con un bolide senza nemmeno la targa. La fortuna di Franco fu di essere un collega delle Fiamme Oro: un saluto veloce ed era già diventato il loro idolo. Gli diedero addirittura una spinta e così riuscì a riavviare la moto. Cose che allora si facevano tranquillamente, ma oggi sarebbero impensabili… Nel 1988, si ritrovò quasi senza rendersene conto alla Dakar: partito da gregario di De Petri, fu l’unico dei piloti della Cagiva a concludere la gara. Era alla sua seconda partecipazione, come sempre faceva assistenza e non si illudeva di fare grandi risultati.

 

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Ciro avrebbe sicuramente potuto vincere qualche Dakar, se non avesse sempre voluto superare il limite: pur sapendo che a più di 170 Km/h le gomme si strappavano, lui non rallentava mai e così le squarciava. Toccava poi a Franco recuperarlo, in pieno Sahara: certo, anche a lui sarebbe piaciuto andare più veloce, magari nella speranza di recuperare 15 minuti, perché quel deserto sembrava asfalto, ma invece andava a 150 Km/h in sicurezza. Tanto sapeva che poi avrebbe trovato De Petri con le gomme scoppiate: lui si fermava e gli dava la sua gomma e, con questo giochetto, Ciro manteneva una buona posizione in classifica, mentre lui scivolava sempre più indietro.

Una volta incontrò Ciro che aveva un diavolo per capello, andava a 90 Km/h e imprecava contro se stesso e la sua moto: il motore andava a uno, e passandogli vicino, Gualdi si accorse subito che aveva la pipetta della candela staccata. Non fece in tempo di segnalargli il guasto, che non lo vide più, perché era partito a fuoco: 50 Km con un solo cilindro e poi gli diede paga. Ciro era così: da alcuni punti di vista davvero incorreggibile. Il team Cagiva era rispettato e temuto: De Petri alla fine si ritirò e Azzalin chiamò Franco e gli disse di fargli vedere di cosa era capace. Era a cinque ore dal primo e voleva quantomeno arrivare a fine gara con lo stesso distacco, senza però fare il matto per recuperare il tempo perso.

Azzalin gli diceva di attaccare e lui cercava di fare del suo meglio, ma senza strafare: alla fine arrivò sesto. Era davvero soddisfatto del risultato: a conti fatti, se non ci fossero state tutte quelle soste per aiutare gli altri, probabilmente avrebbe potuto raggiungere un risultato ancora più importante. Franco teneva un diario durante la Dakar, in entrambe le edizioni: quando alla sera arrivava al campo, scriveva qualche riga. A fine gara, lo riponeva ed oggi ammette che furono proprio quegli scritti a indurlo a non partecipare più a quella gara, meravigliosamente maledetta.

Conservò dei ricordi stupendi, ma su quei diari scrisse parecchie cose che nessuno ancora sa: un giorno, magari, li tirerà fuori e li renderà pubblici. Gualdi fu sempre molto saggio e non lasciò mai nulla al caso: se per cambiare la gomma servivano tre leve, lui cercava di averne quattro piuttosto che due; se la moto aveva un limite, sapeva che era meglio non stuzzicarla; se il cambio era delicato, era decisamente consigliabile guidare con attenzione; evitava di superare nella polvere, per non rischiare di prendere un sasso che non avrebbe potuto vedere.

La sua filosofia era: “Tirare i remi in barca e portare a casa il risultato.” Certo, questo approccio, alle volte lo frenò dal raggiungere successi più importanti, ma lo portò sempre in fondo ed oggi, tutto sommato, lui è contento così. Stare nel Team con Cagiva fu un’esperienza indimenticabile: in ogni situazione, si faceva il possibile e anche l’impossibile. Arrivare al bivacco era già un buon risultato per Gualdi e da quel momento, iniziava il lavoro dei meccanici. Probabilmente, poi, rischiavano più loro dei piloti, facendo i trasferimenti con quegli aerei poco probabili!

Anche con Azzalin, Gualdi aveva un bel rapporto: addirittura alla prima Dakar era previsto che dormissero in tenda insieme, ma durò solo una notte, perché Roberto russava a tal punto da non far chiudere occhio al pilota e svegliando perfino se stesso di soprassalto. Dopo quella prima sera, Azzalin andò a dormire sotto il camion per permettere a Franco di riposare. Forte di tutte le esperienze che condivisero, l’amicizia fra loro si rinsaldò: oggi, guardando indietro, per Gualdi la Cagiva era incarnata in Roberto Azzalin. Conobbe ovviamente anche Claudio Castiglioni, ma non entrò mai nel suo mondo e il loro rapporto rimase sempre formale e legato a pure questioni di lavoro.

Lo stipendio di Gualdi era dato in parte anche dal suo ruolo di collaudatore: col passare degli anni, non era più all’apice della carriera come endurista e, cavandosela bene come meccanico, portò avanti lo sviluppo di moto e di motori che poi divennero di serie e di un 750 monocilindrico che non venne mai realizzato. Aveva una buona sensibilità e gli piaceva provare fino ad ottenere un risultato finale soddisfacente, come fece con le forcelle Marzocchi o con un motore da 45 cavalli che riuscì a portare a 50. I meccanici erano a sua completa disposizione, qualunque cosa dicesse o chiedesse. Fece però un lavoro relativamente breve: trasmise quello che poteva ma tutti i test venivano fatti con Ciro De Petri: era lui l’uomo di punta e la moto veniva fatta in base alle sue esigenze. Gualdi doveva testare quello che Ciro voleva: gli chiesero di sistemare alcune cose, ma alla fine era De Petri che decideva.

L’arrivo di Orioli fu determinante per la crescita delle Cagiva: si partì da un motore Ducati, lo si portò al massimo della potenza e si lavorò sull’affidabilità. Sulla moto del 1987 sarebbe bastato un 750, anziché un 850, ma con lo sviluppo non si poteva tornare indietro, e con quella moto Ciro vinse tanto. E se nel 1990 si arrivò a vincere, fu certamente anche grazie al grande lavoro fatto in termini di crescita e sviluppo. A quel tempo i francesi erano i big, mentre gli italiani non erano ancora pronti per vincere una Dakar. De Petri era il migliore dei nostri, tuttavia chiunque era consapevole che il pilota da battere non era lui, ma i francesi, come Auriol.

Quando Gualdi ebbe occasione di averlo come compagno di squadra, ne approfittò per rubargli qualche segreto e la sua guida migliorò sensibilmente. Hubert si rivelò un uomo serio, più attento e preciso che veloce. Però era un “francese”: di lui, come di tutti i suoi connazionali, Gualdi imparò a non fidarsi mai troppo, perché i cugini d’oltralpe sono un pò gelosi della Dakar. La ritengono una gara loro. Gli italiani invece erano tutti un pò particolari: buoni e scaramantici, pieni di rituali, come quello di De Petri che tutte le sere si faceva preparare l’acqua calda da Forchini, il suo uomo di fiducia, per lavarsi la testa.

Gualdi affrontò anche molte altre competizioni, come il rally del Titano, però la Dakar rimase sempre una gara unica: tutti gli altri passarono in secondo piano. Da un’edizione si portò a casa tutti i road book con l’intenzione di rifarla da turista, con calma, facendo le tappe non in 5 ore ma in 12, guardando i posti meravigliosi che non riuscì a vedere da pilota. Non lo fece mai. Da pilota non c’era tempo di pensare troppo, rifletteva solo alla sera, una volta raggiunto il traguardo. Una volta Franco finì in un paesino sperduto, dove tutti erano nudi e lo guardavano come un alieno. Le donne e i bambini si rifugiarono nelle case e rimase solo un uomo che capiva il francese: Gualdi non era il primo straniero che vedevano; cercò di farsi dare delle indicazioni e poi se ne andò.

Si ripromise che ci sarebbe ritornato, ma non lo fece mai. La gara comportava dei rischi, ovvio, ma era anche gioia e divertimento, e la parte pericolosa era sempre minore rispetto a tutte le situazioni positive e indimenticabili. Ancora oggi, molte volte Gualdi si chiede perché correva e si risponde che non era per l’adrenalina e la voglia di rischiare. ll rischio c’era, ne era consapevole e faceva parte del gioco, ma non lo cercava per forza. Era consapevole che ogni volta che partiva avrebbe potuto essere l’ultima, ma non si divertiva a sfidare la morte per il gusto di farlo.

Partiva e basta. La Dakar non era certo la situazione più sicura del mondo: non si dormiva, non si mangiava, si soffriva… ma si conoscevano le persone per quello che erano, senza maschere. E poi, quando si tornava, ci si ritrovava con il “mal d’Africa”. Solo chi ha vissuto esperienze come quelle può comprenderlo e Gualdi lo conosce ormai benissimo: il senso di malinconia e nostalgia per quei luoghi lo accompagnerà per tutta la vita.