Andrea Balestrieri e il podio alla Dakar 1986

È stato l’unico italiano fra gli ufficiali a non vincere una prova speciale alla Dakar 1986, ma alla fine Andrea Balestrieri è risultato il migliore con la terza posizione assoluta dimostrandosi un gran passista. Dote riconosciutagli per lo meno quanto quella di navigatore d’eccezione.

«Ho finito la gara a due ore e quindici minuti da Neveu spiega Balestrieri e posso dire esattamente dove ho preso questo ritardo: un’ora e mezza se n’è andata nel Ténéré e dintorni, un’altra mezz’ora proprio giunti quasi al confine con il Senegal, a Rosso, dove ho sbagliato pista. Ne ho presa una apparentemente parallela, che invece mi ha portato fuori strada. Però a quel punto dovevo tentare anche se il distacco era importante e non c’erano molte possibilità di recuperare sui bicilindrici di Neveu e Lalay».

Tu hai avuto, dopo la gara, la possibilità di provare tutte le moto protagoniste quest’anno nel test organizzato per la stampa. Quali sono state le tue impressioni?

«In due parole posso dire che la Yamaha FZ 750 ha una potenza esagerata, ma una curva di utilizzazione sfavorevole, oltre ad essere troppo pesante. E’ un mostro difficile da guidare, quindi complimenti ad Olivier La Yamaha mono è più o meno simile alla nostra Honda. Complessivamente si equivalgono. La Honda bicilindrica ha una buona potenza, distribuita molto bene, ma si può lavorare ancora sul telaio, mentre la BMW mi ha sorpreso complessivamente: ottimo motore, ottima coppia, buona guidabilità. Non deve stupire, in effetti: prima con Auriol poi con Rahier, BMW ha fatto moltissima esperienza, ora la sfruttano.

Fonte motosprint

Piccola, ma grande Veronique alla Dakar 1984!

Ventiquattro anni, minuta e dai lineamenti gentili, Veronique Anquetil nella vita di tutti i giorni fa la commessa e quando posa vicino alla sua Yamaha 600 TT sembra ancora più fragile. In realtà questa ragazza non ha solo vinto la classifica femminile, è anche arrivata 15ma assoluta!

Alla sua terza esperienza nella Parigi-Dakar è finalmente riuscita a vedere l’arrivo, sopportando l’anno precedente la tristezza del ritiro a soli 400 km da Dakar.

Cosa l’ha spinta a partecipare?

«Mi piacciono le corse, ci confida prima della partenza della speciale che da Sali Portudal la porterà finalmente a Dakar. Partecipo a gare di enduro anche in Francia, ma lì le prove sono più brevi e inadatte ad una donna. Qui in Africa, invece, conta il sapersi amministrare. Non sono mai andata molto forte ma non mi sono mai fermata, non sono caduta che quattro volte, ed a velocità non eccessive. Nel frattempo i ragazzi rompevano le loro moto, cadevano spesso… Ho fatto una gara d’attesa perché ho un fisico resistente, che sopporta bene la stanchezza smaltendola giorno per giorno».

Hai sofferto di qualche inconveniente specifico per il fatto di essere una ragazza in una corsa tanto virile?

«Direi di no, è una questione di abitudine. Ormai sono considerata un pilota come tanti altri».

Qual era la tua posizione quest’anno?

«Partecipavo ufficialmente sponsorizzata dalla Pastis 51 dalla Sonauto e dalla Total con un veicolo di assistenza che dividevo col giornalista Pierre Marie Poli».

Fonte motosprint
Foto Mimine Magnin

Quattro Honda nel deserto – Dakar 1983

Partenza di tappa della Dakar 1983, si riconoscono da sinistra la Honda XL 500 di Auribault (22°), Drobecq (2*), Rigoni (rit.) e Vassard (rit.)

J.P. Mingels Dakar 1982 – Onore ai vinti

Il traguardo della Dakar 1982 si avvicina, a Nioro du Sahel fra le moto il successo va alla Yamaha di Guy Albaret. Si partì per la speciale Nioro du Sahel-Tambacounda, con le due tappe di 260 e 120 chilometri. A Kayes vinse Jacky Barat (Honda), e a Kadira  ancora Guy Albaret. Ma la giornata di Pambacounda è segnata dal doppio colpo di scena il cui protagonista è Jean-Paul Mingels.

In seguito alle penalizzazioni inflitte a Vassand e Rigoni, fu il terzo uomo della squadra Sonauto sulla sua Yamaha XT 550 ad andare in testa alla generale. Ma il destino non ha rispetto, è cinico e baro anche con gli eroi: Mingels fu vittima di una rovinosa caduta a 250 km da Dakar e per via di un errore nel roadbook, alla velocità di 150 km/h si infilò in una crepa nel terreno.

La caduta che consegue fu davvero rovinosa e traumatica. La lista delle fratture subite sembrò non finire mai: frattura cranica, della colonna vertebrale, del bacino più numerose fratture a braccia e gambe.

Tutti gli altri piloti capendo subito la gravità dell’incidente, si fermarono e attesero finché non sopraggiunse l’auto dell’assistenza medica. Fra questi anche Vassard, che gli aveva ceduto il giorno prima la leadership della classifica, e pur di fronte alla possibilità di fare il “colpaccio” e tornare in testa alla classifica, fu il primo a tornare indietro in cerca di soccorso. Cyril Neveu passò automaticamente al comando della corsa con due ore di vantaggio. Dal giorno della rottura del suo motore, a Tit, ne recuperò quasi venti!

Mancavano solo due giorni di una gara che, finalmente, scese  di tono per offrire ai superstiti l’opportunità di raggiungere Dakar senza ulteriori sconvolgimenti. A Tiougoune con tre speciali, poi la volata finale verso Dakar, sino alla spiaggia del Lago Rosa. Le quattro speciali conclusive andarono a Olivier Kirkpatrick, Marc Joineau, Michel Merel e, l’ultima, al vincitore della corsa, Cyril Neveu.

La Honda può finalmente festeggiare: sui primi due gradini del podio Cyril Neveu e l’eroe Philippe Vassard  e al terzo, con lo stesso motore delle Honda incastonato nel telaio Barigo, Gregoire Verhaegue, 21 anni, privato eroico arriva a Dakar completamente da solo – concorrente privato purissimo – dal primo all’ultimo giorno.

Dal letto dell’ospedale, Mingels, appena rivenne affermò: “la mia XT è caduta in un buco, ma la colpa è solo mia”.

Per la cronaca, l’anno dopo si presentò al prologo di Parigi!

Foto main Gigi Soldano

Claudio Torri e la “Caporetto” Guzzi alla Dakar 1986

Non è stata fortunata l’edizione 1986 della Parigi-Dakar per il team Guzzi. Partiti sulla spinta dall’entusiasmo di Torri, che l’anno passato aveva raggiunto relativamente senza problemi Agadez prima del ritiro, la mini armata franco-italiana composta da tre moto (guidate da Torri, Rigoni e Drobecq) due Pinzgauer ed un camion, tutti sponsorizzati da Neff e Total, ha alzato bandiera bianca già a Tamanrasset, un risultato decisamente inferiore a quello conseguito nel 1985.

«Purtroppo abbiamo avuto una .serie di inconvenienti tali da costringerci a prendere una decisione dura è il commento dello: stesso Torri probabilmente una partita difettosa di cardani. Fatto sta che la rottura dell’albero della trasmissione è stata frequentissima, tanto che posso dire che in questa Dakar è stato più il tempo che ho passato fermo ai bordi della pista che sulla moto».

Senza questo inconveniente sareste stati competitivi?

«Difficile da dirsi, certo è che il motore finalmente spingeva forte. Anche la ciclistica era nettamente migliorata rispetto a quella della moto da me portata in gara nel 1985, merito questo dell’interessamento dell’importatore francese il cui entusiasmo aveva fatto sì che quella che era un po’ una mia fissazione personale divenisse una vera e propria squadra e con compagni quali Drobecq e Rigoni. Continuare sarebbe stato troppo penoso: la moto, rottura dei cardani a parte, andava bene. A causa della pessima posizione in classifica noi si partiva piuttosto avanti ed abbiamo potuto constatare quanto fosse difficile per gli avversari venirci a prendere. Poi, purtroppo, il cardano si spaccava in punti incredibili e per noi erano lunghe attese. Dopo la riparazione recuperavamo, ma tiravamo così tanto da sollecitare la frizione in modo esagerato, così erano altre fermate. Personalmente ritenevo umiliante la situazione. La Guzzi non è una moto che può fare il fanalino di coda in questo modo».

Una delle moto è anche andata distrutta, perché?

«Rigoni ha voluto continuare a partire nella speciale dell’Assekrem, è caduto, la moto ha preso fuoco».

Nonostante questa “Caporetto” vediamo che il team è ancora tutto unito qui a Niamey, come mai?

«Lo facciamo per gli sponsor nonostante tutto vogliamo presentarci sulla spiaggia di Dakar per ringraziarli della fiducia. Credo si siano resi conto che la nostra responsabilità è limitata e che il team ha fatto il possibile del resto penso che l’intenzione sia quella di continuare perché la Guzzi ha del potenziale ancora da sfruttare». 

Fonte motosprint

Thierry Magnaldi Dakar 1991 – Qui conta solo vincere!

Thierry Magnaldi è stato la rivelazione della Dakar 1991. Era andato forte anche nella precedente edizione, con una Yamaha monocilindrica che aveva portato al quarto posto; quest’anno però ha rischiato di vincere, mancando il successo per molto poco. «Ci avevo creduto confessa timidamente ma non a Tumu, quando mi sono trovato in testa alla classifica: era troppo presto per fare dei conti, soprattutto in una gara che va vissuta giorno per giorno. È stato nella penultima tappa, quando sono andato solitario al comando. Per un attimo ci ho sperato, poi ho capito che il vantaggio di Peterhansel era troppo perché potessi sperare di recuperare tutto in una tappa sola». 

Una lotta difficile quella contro un compagno di quadra.

«In gara siamo avversari ma anche amici, sono contento se lui vince, e viceversa. Questa volta lui ha vinto ed io sono finito terzo: è la vita. La squadra comunque ci ha trattati alla pari, non sono state fatte differenze». 

Però disponevi di una moto dell’anno precedente. 

«Si, quella nuova è un po’ più maneggevole ed è migliore a livello di sospensioni, ma anche se avessi avuto una Yamaha ’91 il risultato non sarebbe cambiato». 

Anche tu, come altri, hai fatto una gara d’attesa. 

«Ora che le moto sono affidabili, che la strumentazione ha reso più facile la navigazione ed i piloti veloci sono parecchi è difficile che ci siano grossi divari. Non ho voluto forzare perché non conviene: è l’interpretazione del road book che può fare la differenza. Solo nella tappa di Kayes ho cercato di spingere veramente forte, però sono caduto ed ho perso il secondo posto. Ma nella Dakar conta solo il primo, le altre posizioni sono tutte uguali». 

È stata una gara particolare quest’anno, con tutti i primi sempre raggruppati. 

«Il fatto è che gli interessi legati alla corsa sono sempre maggiori, e dunque sono maggiori le responsabilità. Tutti devono vincere e nessuno può permettersi il lusso di sbagliare. Questo ha portato forzatamente ad una gara in cui il più delle volte si viaggiava assieme, controllandosi a vicenda per essere sicuri che nessuno potesse avvantaggiarsi in maniera decisiva».

Fonte motosprint

Andy Caldecott Dakar 2005

Andy Caldecott (10 agosto 1964 – 9 gennaio 2006) nato a Keith, Australia Meridionale, aveva vinto l’Australian Safari Rally quattro volte consecutive (2000-2003) ed aveva preso il via alla Dakar nel 2004, del 2005 (arrivando 6°), e nel 2006.

In seguito al prestigioso risultato dell’anno precedente, prese il via all’edizione 2006 su una KTM Repsol ufficiale. Velocissimo, vinse subito la terza tappa, ma sucessivamente a causa di un incidente subì un gravissimo infortunio al collo durante la nona tappa, la prova speciale da Nouakchott a Kiffa,  incidente che purtroppo gli costò la vita.

Sempre al limite, era conosciuto per il suo carattere disinvolto e per la sua umiltà.

Foto DPPI

Medardo e la sfida ai prototipi alla Dakar 1991

Le robuste protezioni della giacca da gara fanno comodo soprattutto dopo l’arrivo. La schiena di Luigino Medardo è messa a dura prova da una tempesta di pacche amichevoli, un turbine di congratulazioni che lo travolge lasciandolo senza fiato. Grazie a lui la Gilera ha vinto ancora nella categoria silhouette, ha conquistato un successo di tappa a Tumu ed uno nella marathon Agadez-Gao. Ma soprattutto ha lottato per quasi tutta la gara con i prototipi, moto costruite su misura per la Dakar e di cilindrata ben superiore ai 558 cc della sua RC 600, modificata solo in alcuni particolari.

Più che una vittoria, un trionfo. Non è questione di campanilismo: da tempo l’accoppiata tutta italiana non sbaglia un colpo, tanto che il successo nella silhouette non è nemmeno motivo di discussione. Però questa volta Medardo ed il suo compagno di squadra Mandelli hanno superato se stessi. Il settimo posto assoluto di punta, ad un’ora e mezza dal vincitore, è più di quanto si potesse sperare. Ma lui non è d’accordo.

«A dire la verità avremmo voluto entrare nei primi cinque — protesta sorridendo — e penso proprio che avremmo potuto farcela, era alla nostra portata. Però avremmo dovuto marciare sempre regolarmente, senza problemi. Invece ho rotto l’ammortizzatore nella parte finale della tappa Ghadames-Idri, e siccome si trattava di una marathon non ho potuto cambiarlo che il giorno dopo, sulla pista, perdendo un’ora.

A Dirkou, invece, si è scaricata la batteria: un inconveniente stupido che mi è costato mezz’ora, perché la moto non voleva saperne di riaccendersi dopo il rifornimento. Sono banalità, verificatesi perché non abbiamo avuto molto tempo per lavorare sulla moto. Però nel complesso è andata più che bene».

Di questo si può essere sicuri. Ben poche volte il sanguigno Gianni Perini, team manager, ha avuto motivo di agitarsi per i ritardi dei suoi uomini. Una fortuna, vista l’intensità con cui vive le vicende delle sue moto, disperandosi ed esultando come se sulla sella ci fosse lui. Quando a Ghat, dopo appena un paio di giorni, ha visto che nessuno dei suoi tre uomini arrivava, ha rischiato l’infarto. Invece si erano fermati assieme per sostituire l’ammortizzatore rotto da Medardo con quello lasciato lungo la pista da una macchina fuori gara.

Un’astuzia fuori regolamento per non aspettare il camion di assistenza, visto che non era stato possibile rimediare al guaio la sera trattandosi di una tappa marathon, quelle in cui è vietata l’assistenza al bivacco. Nonostante la paura passata, il ricordo migliore di Medardo è legato proprio alle tappe marathon.

«Sono molto difficili, basta un nulla per mandare tutto all’aria. Però per me il ricordo più bello di questa Dakar è proprio la marathon Agadez-Gao, dove ho vinto la classifica complessiva delle due giornate. Sono state due tappe dure, molto difficili. Io ho fatto tutto alla perfezione, ed ho vinto. Una soddisfazione enorme».

Una delle tante tappe ormai, visto che Medardo e la Gilera continuano a monopolizzare la categoria. Se dominano, però, non è per mancanza di avversari.

«La Cagiva ha provato a far correre una moto nella silhouette al Rally dei Faraoni, ma ha rinunciato a ripetere l’esperimento alla Dakar. Anche la Suzuki ha provato nella nostra categoria, e non ce l’ha fatta, così come il Team Honda Europa con le Africa Twin. Credo proprio che ci voglia una moto molto, ma molto competitiva per battere la Gilera. C’erano piloti agguerritissimi, eppure abbiamo lottato più volte con i prototipi».

Medardo modestissimo, finge di dimenticare se stesso. Bisogna chiamarlo direttamente in causa per avere la sua opinione in proposito.

«Il pilota? È già abbastanza vecchio, con 31 anni e diverse Parigi-Dakar sulle spalle. Non basta un giovane per batterlo». La questione però ora si pone nel senso opposto: è Medardo che dovrà andare a battere gli altri, visto che il prossimo anno la Gilera debutterà tra i prototipi.

«Penso che si correrà ancora anche nella silhouette, ma io sarò sul prototipo. So che sarà un impegno difficile, ma parto per vincere: diversamente non avrei ambizioni. Un pilota deve avere sempre un obiettivo ben preciso soprattutto in queste gare così dure. Altrimenti non si trova la forza per andare avanti».

Se c’è una cosa che a Medardo non è mai mancata è proprio la determinazione, la volontà di arrivare a tutti i costi. Ci riuscì lo scorso anno con una gamba dolorante per una distorsione, ce l’ha fatta anche questa volta, con una mano gonfia per una caduta.
«È stato proprio alla fine della tappa di Kiffa, a cinque chilometri dall’arrivo. C’era una buca segnalata sul road book, ma c’era anche tanta polvere. L’ho individuata solo quando ci sono arrivato sopra e sono caduto». Un peccato veniale; l’unico di un pilota che oltre ad andare forte sbaglia pochissimo. Un pilota che per la Gilera vale oro. E pensare che quando Perini lo contattò offrendogli il posto in squadra, Medardo stava meditando propositi di ritiro…

Fonte motosprint

 

“Desert Boy” Chuck Stearns

Forse pochi ricorderanno la storia di questo pilota statunitense, destinato a diventare un grandissimo della Dakar, ma che il fato avverso e la sfortuna ci hanno privato di conoscere.

Nato, il 6 novembre 1959 in North Carolina, Chuck Stearns è figlio di un ingegnere che lavora alla Boeing. Ha solo 8 anni quando per la prima volta sale su una moto da fuoristrada.

Nel 1978, iniziò seriamente a correre sulle due ruote, e in meno di un anno viene riconosciuto come uno dei migliori specialisti di corsa nel deserto. In questa disciplina, molto in voga negli States, Chuck si aggiudica in quattro anni ben ventotto vittorie.

Nel 1982 la Yamaha USA lo ingaggia dopo la sua performance nella Baja 1000. Una francese, Marie Do diventa il suo manager e gli permette di tentare la fortuna nel Vecchio Continente.

Entrò nel 1984 nella squadra con la Yamaha e Sonauto e con la IT490 vinse la Montesblancos Baja Spagna con Serge Bacou. Nel 1985 viene inserito nel team Gauloises Yamaha Dakar di Jean-Claude Olivier e Serge Bacou sulla Yamaha XT660 Ténéré.
La sua prima partecipazione al rally più difficile del mondo è sfolgorante, vincendo ben 6 tappe – nessuno in quell’edizione fece meglio di lui – e finì 6° assoluto.

Raccontò alla rivista Moto Verte: “Francamente, sono molto felice. Finire 6° per alla prima partecipazione non ha nulla di disonorevole e mi sono piaciuto. Con mia grande sorpresa, non ho avuto problemi di navigazione, ho sempre trovato la mia strada in modo naturale. Allo stesso modo il terreno di gara non mi ha sorpreso, essendo molto simile al deserto degli Stati Uniti (…) La Dakar è la più emozionante avventura off-road al mondo, ma francamente, da quello che mi era stato detto, mi aspettavo di peggio … “

Talentuoso, duro e molto carismatico, Chuck ha un futuro sportivo radioso che lo aspetta. Dopo una breve esperienza negli Stati Uniti dove contrasse la polmonite, tornò in Francia per preparare la Enduro du Touquet in febbraio e il Rally di Tunisia a marzo.

Ma senza saperlo, Chuck è già gravemente malato.

La madre racconterà: “Nel 1983, Chuck ha avuto un incidente in moto e ha dovuto subire una trasfusione di sangue. Sangue che purtroppo risulterà infetto dal virus HIV. Nei primi anni ’80, nessuno sapeva molto di questa orribile malattia.” La sua ultima gara dopo la Parigi-Dakar fu il Rally di Tunisia nel marzo 1985 dove si dovette ritirare e fu rimpatriato d’urgenza con un ponte aereo a Parigi.

Purtroppo Chuck risulta già molto grave e la malattia lo ha minato irreparabilmente, tanto che i medici gli diagnosticano solo 6 mesi di vita.

Il 6 ottobre 1985, un mese prima di compiere il suo 26 ° compleanno, il fortissimo “Desert boy” si spegne.

Dakar 1991 – Speravamo in un successo azzurro…invece è stato blu.

Blu come i colori del francesissimo Team Sonauto che ha piazzato due uomini nei primi tre posti. Tanto di cappello, soprattutto a Stephane Peterhansel che ha conquistato un successo meritato e difficile, con distacchi all’arrivo ridottissimi. Nessuno se l’aspettava così terribile. Che fosse uno dei migliori non si discute, ma pesava sulle sue spalle un passato fatto soprattutto di prestazioni folgoranti e ritiri.
Quello che si è presentato al via della Parigi-Dakar ’91 è un pilota molto diverso, capace anche di andare piano, oltre che forte, e di soffrire se necessario. L’arrivo di Gao è stato qualcosa di epico: in una tappa piena di erba «a chameaux», con grossi ciuffi tra la sabbia che mettono a dura prova le sospensioni, è rimasto completamente senza ammortizzatore, sollecitato al punto da «scoppiare» staccando il serbatoio di recupero, che nella caduta ha tranciato anche il tubo del freno posteriore. Ha continuato in queste condizioni ed ha rotto pure l’attacco dell’ammortizzatore, che fortunatamente si è andato ad incastrare dentro una piastrina del telaio.

Quindi è stata la volta della mousse prima e del copertone poi: quando è arrivato a Gao non era rimasto che il cerchio, nudo. Anche in queste condizioni Peterhansel è riuscito a contenere il suo svantaggio dal primo di tappa in 37’51” conservando la testa della classifica. Solo uno dei tanti episodi di cui è fatta la Dakar, ma esemplificativo della determinazione del francese, deciso come non mai.
«È il giorno più felice della mia vita ha commentato commosso all’arrivo lo inseguivo da diversi anni, e mi era sempre andata male. Nell’89, dopo cinque giorni, ero in testa, ma ruppi la moto. L’anno scorso al sesto giorno ero ancora primo ma sbagliai la rotta, rimasi senza benzina fuori pista e fui costretto ad accendere la balise e ritirarmi. Questa volta ce l’ho fatta»!

Non è un caso e non è fortuna. Per arrivare al successo Peterhansel ha dovuto rivedere tutto il suo modo di correre, tutta la sua tattica di gara.

«È cambiato il mio modo di correre. Ho capito che forzare non conviene, non serve che a guadagnare pochi minuti correndo invece grossi rischi, magari ritirandosi. È molto più produttivo marciare con regolarità, senza andare oltre il limite: nel ’90 ho vinto il Rally di Tunisia e l’Atlas, eppure non sono arrivato primo in nessuna speciale. Non è viaggiando fortissimo che si arriva primi».

Sembra un paradosso, ma è vero. Del resto è una cosa che ha dovuto imparare sulla sua pelle, per questo è categorico sulle sfortune altrui.

«So che alcuni ritiri hanno tolto di gara avversari pericolosi, sono stati sfortunati, ma neanch ‘io ho avuto molto fortuna. Ho rotto una mousse a Dirkou ed ho avuto tutti quei guai a Gao. Del resto solo Orioli ha perso la gara per problemi meccanici: De Petri ha sbagliato ed è caduto, e così pure Arcarons. Io dal canto mio ho avuto problemi con la mano: me l’ero fratturata nel Rally dei Faraoni ’89, ed una seconda volta qualche mese fa, al Guidon d’Or Nelle prime tappe, piene di sassi e molto dure fisicamente, mi ha fatto soffrire parecchio. Poi per fortuna il percorso è diventato più difficile per la navigazione, ma meno per il mio scafoide».

Peterhansel a denti stretti insomma, ma non poteva cedere. Non quest’anno in cui si è presentato concentratissimo e determinato, pronto a centrare l’obiettivo finale. Anche una volta raggiunta la leadership della gara non ha mai voluto pronunciare la parola «vittoria».

«In una gara non si pensa alla vittoria fino alla fine, tutto può sempre succedere. Solo a cinque minuti dall’arrivo di Dakar ho cominciato a crederci davvero, perché i distacchi sono stati ridottissimi per tutto il rally. Fino all’ultimo non puoi dire di aver vinto; puoi dire solo di avere perso, al massimo. Per due volte ho temuto mi fosse successo davvero: ho già raccontato di Gao, ero sicuro che fosse proprio finita ed invece sono riuscito a rimanere primo per quattro minuti. Ma anche tra Agadez e Tillia ho avuto paura, ero senza strumentazione e non sapevo dove andare. Quando sono riuscito a trovare la pista con le indicazioni degli indigeni ho visto a terra le tracce di un’altra moto. Ho temuto che Arcarons ce l’avesse fatta. Invece si trattava di De Petri, ed io ho concluso secondo».

Uno degli avversari più pericolosi Peterhansel se l’è trovato proprio in casa: il Compagno di squadra Magnaldi.

«Con Thierry non ci sono stati problemi, il rapporto tra di noi è ottimo, siamo amici. Meglio avere lui alle spalle che Orioli o chiunque altro: casomai mi fosse successo qualcosa il primo posto sarebbe rimasto alla Sonauto. Mi dispiace che abbia perso il secondo per un pelo».

Ora l’avventura è finita, e bene. Peterhansel, sempre molto gentile ed educato, ma provato dalla tensione, può finalmente sciogliersi un po’ Rilassarsi. Pensare al futuro.

«Futuro? Una bella vacanza sugli sci. Ne ho bisogno, di moto e deserto non ne posso proprio più»!
Fonte: motosprint