Foto Gigi Soldano
Testo di Biagio Maglienti tratto da Motociclismo
Ciro ha detto stop; basta con la Dakar e le gare. «A trentotto anni — dice Alessandro De Petri, in arte “Ciro” — bisogna anche saper smettere». Conoscendolo sappiamo quanto gli possa essere costata questa decisione. Tanto è che ha voluto concludere un’importante parentesi della propria vita in modo poco traumatico, schierandosi al via della 16a Dakar da semplice partecipante, quasi un turista. «Ma non pensiate sia stato comunque facile — continua il bergamasco — reprimere il mio istinto. Mi sono dovuto imporre una forma di autocontrollo. Nelle prime tappe ha prevalso il De Petri pilota. Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un matto. Assurdo! Al termine della seconda speciale ero 35esimo; sono partito e ho iniziato a tirare. Ho sorpassato quasi tutti, arrivando a un minuto dai primi. Li superavo nei posti più impensati, difficili, rischiando il tutto per tutto. Poi ho riflettuto; ho capito che non era questo il motivo per il quale avevo deciso di prendere parte a questa gara ancora per una volta. Nella tappa successiva ho preso il via e, percorsi dieci chilometri, mi sono fermato. Ho messo la moto sul cavalletto e ho aspettato un quarto d’ora. È stata una vera e propria sofferenza vedere gli altri passare e io lì fermo; ma alla fine ce l’ho fatta. Frenato l’istinto agonistico ho iniziato la mia vera Dakar; una Dakar da “esploratore”, per apprezzare tutto quanto in questi undici anni mi ero perso. Nuove emozioni, luoghi e persone; ho fotografato tutto nella mia mente e presto, anzi prestissimo lo racconterò in un libro. Beninteso, non per protagonismo o a scopo di lucro (il ricavato andrà in beneficenza). Unicamente per dare una volta per tutte il reale volto ad una gara troppo spesso non capìta».
Alessandro De Petri ha detto basta a trentotto anni, dopo aver vinto per tre volte il Rally dei Faraoni, due il Tunisia, raccogliendo un totale di 67 successi parziali di tappa. È stato per anni l’italiano simbolo di questo genere di competizioni. Gli è mancata, forse più per sfortuna che per altri motivi, la vittoria importante. Quella Dakar sognata ad occhi aperti in diverse occasioni, della quale ha sentito più volte il profumo e che il destino avverso gli ha sempre negato. Ma De Petri non sembra curarsi di questo “piccolo” particolare.
«È chiaro, mi pesa non aver mai vinto una Dakar, perché da pilota professionista quale ero, non vincere questa competizione è un po’ veder sfumare il sogno per il quale hai impegnato tutte le forze e parte della tua vita. Però analizzando obiettivamente il problema, senza farmi illusioni, sono ugualmente soddisfatto. Se avessi corso questa gara con un’altra testa probabilmente il successo non mi sarebbe sfuggito. Il mio carattere esuberante me lo ha impedito. Con questo non rinnego nulla di ciò che ho fatto in questi anni. Sono così in gara e nella vita, non avrei potuto comportarmi diversamente. Se dovessi tornare indietro rifarei tutto quanto, non cambierei nulla e soprattutto non cambierei mai i miei successi parziali con una vittoria finale».
La Dakar è una gara dura, invivibile, ma proprio per questo affascinante. «È unica al mondo — continua Ciro — e solo chi vi ha partecipato può realmente capire le motivazioni che spingono i piloti ad affrontare fatiche sovrumane, mettendo a dura prova e a volte superando il limite di sopportazione per qualsiasi essere vivente». E dieci anni di Dakar non si dimenticano tanto facilmente. Soprattutto se, come nel caso di De Petri, sono stati parte integrante della sua vita di pilota e inevitabilmente di uomo.
Non ce l’ho fatta; ho aperto la manetta come al solito, rischiando come un matto, assurdo!
Così Ciro inizia: «Che avventura incredibile. Il mio passato è indissolubilmente legato alla motocicletta. Ho iniziato a gareggiare prestissimo e con buoni risultati, nel cross e nell’enduro. Terzo in un mondiale cross 125 e campione europeo di enduro. Poi ho deciso di abbandonare le corse per dedicarmi alla mia attività principale, quella di odontoiatra. Ma il futuro stava per riservarmi ancora un qualcosa di straordinario. A ventott’anni sentii parlare di una gara con un “matto” che attraversava l’intero deserto sino a Dakar, partendo da Parigi. Gareggiava contro le auto e vinceva».
Per la cronaca il “matto” era Neveu e la gara la Parigi-Dakar «Non ho avuto dubbi e mi imbarcai in quella che poi sarebbe divenuta, a breve, la mia vera professione. Andai da Farioli e chiesi una moto; poi comprai una Range-Rover usata e ingaggiai Felicino Agostini (fratello di Giacomo e cognato di De Petri) e Giacomo Vismara. L’avventura era iniziata».
Lo guardi e il suo volto tradisce l’enfasi. La prima esperienza e l’ultima sono indubbiamente quelle che lo coinvolgono di più a livello emotivo. I ricordi lo riempono e si accavallano. Si ricorda di Claudio Torri, un illustre sconosciuto, ma… «La Dakar, non vorrei cadere nella retorica, è una vera scuola di vita. Ti insegna a lottare, a cavartela da solo e ti aiuta a capire la gente. Un personaggio in particolare mi è rimasto nel cuore. Un “privato”, l’architetto milanese Claudio Torri. Si è presentato al via con noi nel 1983. Era per tutti la prima esperienza, ma per lui lo fu ancora di più. Si era già mezzo distrutto (fisicamente) nel prologo e continuò questa sua opera di annientamento nel prosieguo della competizione. All’imbarco per l’Africa rischiò di non espatriare; aveva posato i documenti e il portafogli sulla sella della moto. Quando l’elicottero si alzò in volo lo spostamento d’aria sollevò i documenti e i soldi che finirono in acqua. Poi, qualche giorno più tardi, al limite tra il comico e il grottesco, nel tentativo di raddrizzare il manubrio della mia moto, aiutando Agostini, prese in mano il martello e distrattamente si diede una martellata in testa. Per quasi tutta la gara Torri fu il protagonista di un continuo succedersi di eventi di questo genere. Mai un lamento. Ore e ore consecutive in sella senza dire una parola: fantastico e incredibile!».
Tra i ricordi spunta anche il mito, quello di Sabine. La Dakar è legata a questo nome nel bene e nel male. De Petri lo ricorda così: «Non sbagliava mai, era capace di prendere decisioni importanti, dalle quali dipendeva l’incolumità di tutta la carovana della Dakar Ha sempre avuto ragione e i piloti, i meccanici e tutto l’entourage al seguito della gara hanno iniziato a fidarsi ciecamente di questo francese spuntato dal nulla, sino a quando la sua figura è divenuta un punto di riferimento costante per tutti noi, un faro da seguire. E quando è mancato, quando è giunta la notizia che l’elicottero si era schiantato al suolo, tutta la carovana in silenzio è ritornata sui propri passi andando sul luogo del tragico evento. Era notte; quando arrivammo ci si presentò una scena apocalittica: lamiere sparse ovunque, non c’era il minimo segno di vita. Non potrò mai dimenticare».
Questa è la Dakar, nei suoi accenti più forti, ricordata da Ciro De Petri. Il terribile incidente al Faraoni nel 1992 lo ha convinto ad abbandonare. «Sì probabilmente la molla che ha fatto scattare in me la decisione di smettere è venuta anche a seguito dell’incidente. Due mesi di coma non sono uno scherzo. Ma, sembrerà strano, un controsenso, l’incidente è stata l’occasione per risalire nuovamente in sella, per l’ultima volta. Uscito dal corna mi sono lentamente ripreso, ma mi rimaneva una sorta di intorpidimento e di stanchezza; un vero e proprio tormento. Una mattina, tre mesi fa, ho deciso che sarei ritornato a correre. Ho ripreso ad allenarmi e immediatamente mi sono passati tutti i disturbi; avevo già vinto, ancor prima di iniziare la gara».