Un fortissimo pilota dal grande cuore: Fabrizio Meoni

Sono passati anni, ma sembra ieri. L’undici gennaio 2005, durante lo svolgimento dell’undicesima tappa della Barcellona-Dakar, tra Atar e Kiffa, al chilometro 184,85 su un tratto di pista con varie ondulazioni muore Fabrizio Meoni. L’incidente è improvviso, terribile e irrevocabile, con una dinamica che non si riesce ancor oggi a spiegare completamente.

Cyril Despres, che corre davanti all’italiano, non si accorge di nulla. Sarà Patrick Zaniroli a dargli la ferale notizia all’arrivo, e una settimana più tardi il francese vincerà la sua prima Dakar. Poco dopo arrivano Marc Coma, Isidre Esteve e David Fretigné. Quest’ultimo attiva la radio balise di sicurezza che richiama sul posto l’elicottero medico. Meoni è sottoposto a 45 minuti di massaggio cardiaco, ma non c’è più niente da fare. Meoni aveva compiuto 47 anni il 31 dicembre.

Dopo Motocross e Enduro, Frabrizio Meoni era passato ai Rally nel 1988, nel 1990 aveva vinto l’Incas Rally, da Lima a Rio de Janeiro, con una KTM 500 a due tempi, e nel 1992 aveva concluso al 12° posto la sua prima Dakar da Parigi a Città del Capo. In un crescendo impressionante, Fabrizio Meoni aveva vinto in Tunisia, in Egitto, a Dubai, e nel 2000 la Coppa del Mondo.

Nel 2001 Fabrizio Meoni vinceva la sua prima Parigi-Dakar, inaugurando la serie di KTM che dura fino a oggi, e l’anno successivo si ripeteva aggiudicandosi la Arras-Madrid-Dakar con la KTM bicilindrica che aveva sviluppato insieme a Bruno Ferrari, il “Ferro”, e Arnaldo Nicoli. Passato il negozio che gestiva a Castiglion Fiorentino al meccanico e amico Romeo Feliciani, Fabrizio Meoni voleva fare ancora un paio di stagioni e di Dakar, quindi ritirarsi. Nel 2003 aveva concluso al terzo posto e nel 2004 al sesto ma con qualche noia di motore e di gomme, così decise di disputare anche l’edizione 2005, perché voleva un’ultima Dakar senza problemi. L’undici gennaio Fabrizio Meoni era in corsa per la vittoria.

In un sobborgo di Dakar una scuola porta il nome di Fabrizio Meoni. Da anni lavorava al progetto, all’insaputa di tutti, con Padre Arturo Buresti, ed è la testimonianza della sua sensibilità per la vita dei meno fortunati, del suo smisurato amore per quella corsa e per il deserto, per le cose semplici della vita. Fabrizio Meoni sapeva incantare per la sua semplice autenticità, aveva il carisma delle persone giuste, avversari che lo temevano e che erano orgogliosi di misurarsi con lui, uomini che lo rispettavano, amici che non lo dimenticheranno mai.
(fonte moto.it)

14 gennaio 1986: nulla sarà più come prima

Il 14 gennaio 1986, come sempre, insegue la corsa a bordo del suo elicottero bianco. Forse per l’eccessivo peso o per la scarsa visibilità dovuta a una tempesta di sabbia, non lo sapremo mai –, il velivolo si schianta a terra. Con Thierry Sabine, muoiono il cantante francese Daniel Balavoine, il giornalista Nathaly Odent, il pilota dell’elicottero, François Xavier-Bagnoud e il tecnico radio Jean-Paul Le Fur.

È uno choc per la carovana, ma la gara va avanti.

«Io vi porto alle porte dell’avventura, ma tocca a voi aprirle per sfidare la sorte»

ripeteva il creatore della Dakar. E sfidare il deserto è anche giocare con la vita, saltando sulla cresta delle dune o ballando sulla sabbia ad oltre 200 chilometri orari.

L’incidente rimarrà quello col più tragico bilancio nella storia della Dakar. Le ceneri di Sabine saranno sparse sotto il celebre “albero perduto”, vicino a dove smarrì la strada una decina di anni prima.

In quella edizione perse la vita anche il motociclista giapponese Yasuo Kaneko, investito da un’automobilista. Sarà la più tragica Dakar della storia con sei morti.

Suzuki DRZ 750 Big Gualini

Con oltre 30 rally africani sulle spalle, fra veterani della Dakar, Beppe Gualini si schiera al via nel 1990 a cavallo di una Suzuki DRZ 750 Big. Concluderà in ottima 15a posizione nella generale.

BMW GS 1000 Dakar 1984

E’ il 1984 e la BMW è la moto da battere, forte anche della vittoria di Auriol nell’anno precedente! Il detto vale anche in Germania, moto che vince non si cambia. Il motore è il classico 1050 cc. da 80 cv, peso a secco 173 kg, velocità massima 180 kmh.

L’avviamento è elettrico, ed è una bella comodità su un bisonte del genere. Il serbatoio, realizzato appositamente per abbassare al massimo il baricentro e migliorare la manegevolezza, ha una capienza di circa 56 lt (!) portando la moto a pieno carico a quasi 230 kg!!

Ulteriore innovazione per quei tempi, lo sviluppo in collaborazione con Michelin, di un sistema misto gomma spugna-camera d’aria (una sorta di mousse gonfiabile) che permette di utilizzare il pneumatico anche a pressioni molto basse.

Su questa moto viene sperimentato per la prima volta il road-book avvolgibile a doppio rullo al posto del classico con fogli “a perdere” in voga a quei tempi, con notevoli vantaggi nel caso che il pilota volesse controllare le note precedenti in caso di perdita della pista.
Come da pronostico, la GS sbanca, all’arrivo di Dakar, primo Gaston Rahier secondo Hubert Auriol.

Husqvarna WR 500 1984

Non si sa molto di questa Husqvarna 500 2 tempi del 1984 che venne portata in gara da Bernard Rigoni #6 e da Gilles Desheulles #5, se non che la base era la WR da enduro con adattate le ovvie sovrastrutture per la competizione nel deserto. Degna di nota il colossale serbatoio della miscela di ben 70 litri!! Desheulles non arrivò a Dakar mentre Rigoni si classificò 28imo.

Intervista a Bruno Birbes

A novembre mi chiama Fabio, e dopo avermi dato del cialtrone e dell’incompetente come fa da sempre, mi dice che però può darmi un’ultima possibilità: ci sarebbe da fare un articolo su un certo…
Ovviamente finiti i nostri giochetti, mi dice: «Oh, guarda che questo è uno VERO, è un dakariano vecchio stampo, mica una mezza sega come te…». E ancora: «Questo ne ha fatte più di una decina, tra quelle in moto come pilota e quelle come assistenza e team manager. È uno delle tue parti, un bresciano…».

Bresciano a chi, io sono un genovese. Mia moglie, mia glia e il mio cane sono bresciane, ma questo è un discorso a parte… Quindi mi faccio avanti e gli chiedo il nome, lui mi dice che si chiama Birbes, Bruno Birbes. Ma io lo conosco!!! Quante Dakar? Quello? Quel Bruno Birbes? Ah sì, mi era giunta voce… Ha ragione Fabio, sono un cialtrone.
Sì, ma è mai possibile che tutte le volte che incontro “il” Bruno (notare l’articolo prima del nome, alla bresciana) quello sembra sempre che sia un docile sessantacinquenne a cui piace fare ancora qualche scampagnata con gli amici alle cavalcate motociclistiche… Cos’è, uno scherzo? Al che inizio ad indaga- re, chiamo un paio di amici e questi mi parla- no di uno che dà del gas da vendere, che si è messo dietro in classi ca piloti professionisti con nomi altisonanti, che si è giocato dei Rally dei Faraoni nei primi sei.

Questi bresciani mi fanno arrabbiare: è mai possibile che quando ti rapporti con loro sembrano sempre gli ultimi arrivati, quelli che hanno vissuto nella capanna no a ieri pomeriggio, poi vai a vedere sotto e scopri che sono dei draghi di quella roba lì!?
Ora vi racconto un pochino di chi stiamo parlando. Parliamo di un giovane promettente campione classe 1949, che fa i suoi primi passi con dei Gerosa 50, Italjet 50 e Müller 50 nelle gincane dei primi anni ’60. Addirittura nel 1968, alla Sei Giorni di San Pellegrino, conquista la medaglia di bronzo su Müller 50 motorizzato Zündapp, no al momento in cui non si compra un Müller 125, motore Montesa, lo mette in mano al mitico preparatore di Borgo San Giacomo, Maestroni (recentemente scomparso), e inizia l’avventura delle corse. Va fortissimo il ragazzino, ha quel guizzo che lo fa stare davanti, ha quella follia del campione. Inizia così a farsi un nome e con esso iniziano ad arrivare le amicizie e gli aiuti.

Dal 1970 al ’74 corre con CZ 250 e Maico 500, e alterna Cross con Regolarità, dove si scontra con i nomi di quell’epoca, nomi del calibro di Vertemati e Angiolini. Mentre mi racconta queste storie a un certo punto Bruno, serio come un carabiniere, mi cita un episodio del 1970 che lo vede protagonista con il Maico 500 in una gara internazionale: spicca il volo, sbaglia la velocità e atterra sul piano dopo un volo pazzesco, piegando manubrio, pedane e telaietto e riducendo il cerchio davanti a forma di palla da rugby. Al che mi dice: «E da lì sono come mi vedi ora, prima ero alto e biondo». Con questa ho capito che è uno che si prende in giro da solo, come tutti i motociclisti sani…

In quegli anni arriva l’ufficialità con Puch nella Regolarità e il grande incontro con l’uomo della svolta, Silvio Fatichi, ai tempi officina assistenza Puch e meccanico preparatore. Nel 1973 Birbes entra a far parte della squadra ufficiale Frigerio e diventa un pilota Puch a tutti gli effetti. Corre con la 180 cc, fatta su misura per la Sei Giorni di Camerino nelle Marche del 1974, e con la 250 Replica Everest a due carburatori, con la quale si gioca il podio della classifica di fine stagione all’italiano, combattendo con piloti come Testori, Taiocchi e Ferrari.

Nel 1975 prova a mettere la testa a posto e decide di aprire una concessionaria Puch e BMW; si avvale dell’importantissima figura di Fatichi, smette di correre ufficialmente ed inizia una florida carriera imprenditoriale. Uso il termine “prova” perché, agonistica- mente parlando, la testa a posto ha fatto finta di metterla, dedicandosi alle gare minori e mettendosi ad aprire la saracinesca la mattina. Ha sposato la figlia di Fatichi, gli ha regalato delle nipoti, ha venduto tante belle BMW boxer, mansuete e silenziose, e ha rigato diritto per qualche annetto. Il problema è che sotto la cenere c’era ancora il vulcano acceso: un bel giorno si è svegliato, ha guardato una BMW, si è rivolto a suo suocero, Fatichi, e gli ha detto: «Ne facciamo una e andiamo alla Dakar!».

Ecco, ora sono c… 1984, Rally dei Faraoni, Puch 500 4 tempi, 24°; l’anno dopo stesse posizioni, sempre saltando controlli timbro e prendendosi ore di penalità. Quindi si iscrive alla Grande Avventura: nel 1987 è deciso a prendere parte alla Dakar. Sull’onda dei successi di Gaston Rahier, della sua BMW ufficiale e del fatto di esserne concessionario, costruiscono, lui e Fatichi, un missile da deserto su base BMW boxer. Al Faraoni dell’86 vanno a testarla e tornano con un 6° assoluto, quindi via verso Dakar. Senza assistenza, esperienza e con tanta manetta, al terzo giorno senza chiudere occhio di notte cappotta e si rompe spalla, costole, ecc…

Arriva a fine tappa e nella sua testa, di avventuriero malato di moto, pensa di ripartire… Carlo Florenzano, allora
team manager Honda con Orioli e Terruzzi, lo prende e gli fa capire che la sua gara è finita, lo carica sull’aereo al suo posto e gli porta la moto no ad Agadez. Mentre mi racconta l’episodio, Bruno ha le lacrime agli occhi. Fatto sta che, ovviamente, si riorganizza e addirittura crea un Team, l’Assomoto, grazie all’aiuto determinante di Pollini e Girardi (suoi grandi amici, altri due malati di rally).

Così, dopo aver comprato un Unimog, pa tono per la Dakar 1988. In questa edizione c’è una tappa da 1.150 km… è un’edizione durissima, rompe il cambio nella seconda tappa e dopo essersi fatto trainare da Winkler fino al traguardo, racconta di essere rimasto senza benzina (anche perché altrimenti lo squalificano) e passa il traguardo accendendo la moto con l’aria tirata facendo finta che sia tutto a posto… In seguito rompe il telaio sotto il canotto di sterzo, ci finisce una tappa e poi lo salda; a Bamako cambia il motore che ormai va ad olio, ma alla fine arriva e anche in ottima posizione.

Al Rally dei Faraoni dell’88 va con un XR 600. Agguerritissimo e pronto a fare un buon risultato, pianta una mina di quelle di cui si ricorda solo che dopo essersi fermato a dare una pinza a De Petri… buio completo fino a quando Gualini gli dice di stare fermo che sta arrivando l’elicottero. Due giorni in coma al Cairo. Dal 1989 basta motociclette, ma solo da guidare. Arriva Beppe Cannella a correre e lui diventa team manager, anche perché è ancora imbustato. Dal ’90 diventano assistenza ufficiale Gilera per i privati iscritti alla Dakar e nel ’91 diventano addirittura Team Ufficiale Kawasaki con le KLE 500 bicilindriche.

Fatichi ormai è diventato un drago delle preparazioni dakariane, e dal 1985 al ’95 prepara qualcosa come 25 moto. È conosciuto come un uomo dal carattere duro e che sa bene come metterti in piedi una motocicletta da deserto, per cui in tanti si affidano al “nonno”. Durante questi anni fanno assistenza a vari piloti, tra cui Aldo Winkler, e vivono l’avventura delle Dakar vecchio stile, quelle africane, diventando a tutti gli effetti un team importante e riconosciuto come certezza dall’organico della Dakar (tra i tanti aneddoti che mi racconta Bruno rimango colpito da quella volta in cui all’arrivo di una tappa in Mauritania Orioli arriva col cambio finito, tappa Marathon senza assistenza; Birbes è lì, e con l’aiuto di alcuni amici smonta tutto in una notte, sistema il cambio e permette al campione di fare la tappa del giorno dopo, arrivare all’assistenza e infine vincere la sua terza Dakar).

Fino in mezzo ad un trasferimento, tampona di striscio un camion fermo a fari spenti; a 120 km/h lo vedono all’ultimo e lo colpiscono col fianco sinistro, si strappano tutte le ruote da quella parte e iniziano a carambolare. Per uscire buttano giù il vetro davanti a calci con il camion che fuma pronto a prendere fuoco. Per capirci meglio, Bruno ha intuito quella notte che i jolly erano finiti…
La sua BMW ora la tiene in casa al quarto piano, di fianco ai giocattoli dei nipotini, di fronte alla scrivania, vicino alle fotografie. Lui è un gentile sessantenne di buona educazione e rispettoso della casa e del suo ordine, mai più ti viene da pensare che sia quel diavolo da Dakar che si è sempre buttato dentro all’Avventura, quella maiuscola.

Fra le foto che trovo in casa di Bruno Birbes, una mi colpisce particolarmente, e così gli chiedo cosa stava facendo in quella foto. Immediatamente inizia a ridere e mi spiega che in un’edizione degli anni ’90 della Dakar durante una tappa Aldo Winkler arriva col forcellone spezzato. Birbes, che è la sua assistenza, sa di non avere il ricambio lì e il giorno dopo deve tassativamente far ripartire il suo pilota. Ora, vorrei citare la definizione di genio che viene data nel film Amici Miei: “il Genio è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione!”. Quindi Birbes si guarda in giro col braccio del forcellone spezzato in mano. Lì a fianco c’è un chioschetto mauritano con i tavolini e le seggiole di ferro. Con fare furtivo acchiappa una seggiola, sega una gamba e la in la divisa in due dentro i canali interni del forcellone rotto; rivetta il tutto (ovviamente in maniera seria) e il giorno dopo Winkler è ripartito… e ha finito la gara. Ragazzi, vi giuro che mi sono brillati gli occhi!

Tratto da un articolo di Endurista Magazine, testo di Paolo Silvestri

La mia Dakar 1987 by Michele Rinaldi

Forse non tutti si ricorderanno della fugace partecipazione del Campione del Mondo Cross 125 Michele Rinaldi alla Parigi Dakar del 1987.

La moto era una Suzuki DR 650 di serie preparata dal team dell’importatore francese, che schierava al via anche i fratelli Joineau.

La gara per Michele non andò benissimo e per sua stessa ammissione: “in complesso l’esperienza è stata utile, in quanto mi ha creato un bagaglio di esperienza che mi sarà utile – conferma Rinaldi. Sono contento della decisione presa anche se in taluni casi ho stramaledetto il giorno che che ho pensato di iscrivermi alla Dakar. Non si è trattato solo di problemi fisici, in fondo facilmente superabili, ma anche di problemi psicofisici che stanno alla base di una maratona lunga ed estenuante come la Dakar.”

Sostiene Rinaldi :” a Parigi nel prologo sono anche riuscito a divertirmi convinto che quella fosse già la vera corsa. I migliori per rimanevano in disparte, chissà perché? L’ho scoperto a mie spese, loro sapevano che la gara vera inizia dopo Tamanrasset. Io invece da brava matricola tiravo già e commettevo il mio promo grosso errore. Ci avrebbe pensato l’Africa a calmarmi”.

“Ricordo ancora Balestrieri, vincitore della seconda tappa, dirmi – Tu Michele non hai capito niente di questa gara”.
Purtroppo alla 9a tappa, una caduta fece uscire la spalla già lussata nel 1984 e Michele diede il suo saluto alla Dakar.
L’esperienza della Suzuki all’edizione del 1987, non fu comunque completamente negativa, in quanto una delle moto vide il traguardo, in un onorevole nona piazza nell’assoluta con Marc Joineau.

La mia Dakar 1996 by Aldo Winkler

“L’ultimo giorno, due speciali, tanta tensione, l’obiettivo è arrivare. La moto poveretta non ce la fa più.

Nell’ultima speciale che porta al Lago Rosa c’è una sabbia mollissima, e sentire urlare il motore agonizzante della mia Kawasaki fa pena e ansia, mi viene sempre in mente il povero Cavandoli che ruppe la moto a 3 km dall’arrivo.

L’arrivo è una liberazione. Arrivato! Era ormai una ossessione, fare 20 giorni con questo solo scopo riempie di gioia, ma al tempo stesso si sente un vuoto interiore che manca qualcosa.
I sentimenti dopo l’arrivo a Dakar sono contrastanti: si deve recuperare una stanchezza che rimane per un po’ di tempo e mi viene un po di crisi esistenziale.
Grazie anche al Team Assomoto, a Bruno Birbes, e grazie perchè in questa Dakar ho conosciuto una persona meravigliosa, Alberto.”

Ndr: Nel 1996, Aldo porterà la sua Kawasaki a Dakar al 19° posto.
Fonte (fb Aldo Winkler)

La mia Dakar 1987 by Guido Maletti

Guido Maletti, reggiano, partecipa alla Parigi Dakar del 1987 a 29 anni. Corre per passione, animato da un grande amore per la moto e l’avventura. Corre con una Yamaha 600, ben poco curata sotto il profilo del look, tant’è che gli amici del Team GR gli ricordano, spesso che guida la moto più brutta di tutta la Dakar. A Tahoua, sotto il cielo stellato, per tetto l’ala di un Fokker per materasso l’asfalto della pista dell’aeroporto facciamo due chiacchiere prima di dormire.

Guido cos’è per te la Dakar? «Una grande avventura che reputo alla mia portata per la quale mi sono deciso a rompere il salvadanaio dei miei risparmi per essere qua, a lottare per arrivare».

E la classifica non ti interessa? «Poco».

Però il pilota italiano non manca di farmi notare i suoi ottimi piazzamenti alle spalle degli ufficiali… Inevitabile, quindi, la domanda sui rapporti tra privati e ufficiali.

«Grande rispetto, loro sono bravissimi ma hanno troppi vantaggi, pensa la mia moto sulla sabbia “ vola” a circa 115 orari, loro invece sfrecciano a velocità ben maggiori. In più hanno il vantaggio di dovere pensare solo a correre, noi invece ci dobbiamo sempre arrangiare».

Maletti ha appena sistemato la sua bruttissima e indistruttibile Yamaha, mangia un pollo caldo in salsa fantasia all’Africatour e si stende nel sacco a pelo con il cielo come tetto e l’asfalto come materasso.

Guido Maletti concluderà la Parigi Dakar al 12° posto assoluto, terzo italiano al traguardo.

(Sul web foto e info su Guido Maletti non si trova molto, un privato dalla “manetta” pesante. Se avete materiale vi invitiamo a pubblicarlo e a condividerlo).

Fonte MotoSprint

Le francesi Barigo alla Dakar 1984

La Barigo è un progetto che prende il nome dal suo costruttore, il francese Patrick Barigault, ed è stata un po’ la sorpresa dell’edizione ’82, arrivando in terza posizione con Gregoire Verhaeghe, e nella versione che si presenta alla Parigi Dakar del 1984 appare ulteriormente migliorata grazie al fondamentale contributo della sponsorizzazione della Pacific de Ricard.

Il motore è il Rotax ’83 di 560 centimetri cubici che equipaggiava anche le KTM, con una potenza di 48 cavalli a 7500 giri alimentato da un carburatore Bing con diametro da 40 mm. Il motore, molto potente, ha dimostrato una certa tendenza a scaldare, per cui si è preferito adottare un radiatore supplementare posto sul frontale della moto. L’accensione è elettronica, ma è presente anche un grosso alternatore da 180 watt per produrre l’energia necessaria all’illuminazione.

La forcella è anche in questo caso una Marzocchi da 42 mm con una corsa di 300 mm. La sospensione posteriore non è più con monoammortizza-Aore come nella versione primitiva, ma è data da una coppia di ammortizzatori Ohlins. In questo modo si è creato più spazio per il serbatoio e il filtro dell’aria. La capienza del serbatoio, costruito in kevlar, per avere un elemento resistente agli urti e contemporaneamente molto leggero, è di 38 litri. Sempre ai fini della massima leggerezza, il costruttore ha realizzato il telaio utilizzando acciaio 25 Cd 45, molto leggero ma ugualmente resistente.

I freni sono un disco anteriore Brembo da 230 mm e un tamburo posteriore da 160 mm, i pneumatici sono i Michelin Desert 3.00×21 l’anteriore, 5.00×17 il posteriore.

Le due Barigo GRS 560 di VERHAEGHE e GORONESKOUL non arriveranno al traguardo.