Dakar 1991 – Speravamo in un successo azzurro…invece è stato blu.
Blu come i colori del francesissimo Team Sonauto che ha piazzato due uomini nei primi tre posti. Tanto di cappello, soprattutto a Stephane Peterhansel che ha conquistato un successo meritato e difficile, con distacchi all’arrivo ridottissimi. Nessuno se l’aspettava così terribile. Che fosse uno dei migliori non si discute, ma pesava sulle sue spalle un passato fatto soprattutto di prestazioni folgoranti e ritiri.
Quello che si è presentato al via della Parigi-Dakar ’91 è un pilota molto diverso, capace anche di andare piano, oltre che forte, e di soffrire se necessario. L’arrivo di Gao è stato qualcosa di epico: in una tappa piena di erba «a chameaux», con grossi ciuffi tra la sabbia che mettono a dura prova le sospensioni, è rimasto completamente senza ammortizzatore, sollecitato al punto da «scoppiare» staccando il serbatoio di recupero, che nella caduta ha tranciato anche il tubo del freno posteriore. Ha continuato in queste condizioni ed ha rotto pure l’attacco dell’ammortizzatore, che fortunatamente si è andato ad incastrare dentro una piastrina del telaio.
Quindi è stata la volta della mousse prima e del copertone poi: quando è arrivato a Gao non era rimasto che il cerchio, nudo. Anche in queste condizioni Peterhansel è riuscito a contenere il suo svantaggio dal primo di tappa in 37’51” conservando la testa della classifica. Solo uno dei tanti episodi di cui è fatta la Dakar, ma esemplificativo della determinazione del francese, deciso come non mai.
«È il giorno più felice della mia vita ha commentato commosso all’arrivo lo inseguivo da diversi anni, e mi era sempre andata male. Nell’89, dopo cinque giorni, ero in testa, ma ruppi la moto. L’anno scorso al sesto giorno ero ancora primo ma sbagliai la rotta, rimasi senza benzina fuori pista e fui costretto ad accendere la balise e ritirarmi. Questa volta ce l’ho fatta»!
Non è un caso e non è fortuna. Per arrivare al successo Peterhansel ha dovuto rivedere tutto il suo modo di correre, tutta la sua tattica di gara.
«È cambiato il mio modo di correre. Ho capito che forzare non conviene, non serve che a guadagnare pochi minuti correndo invece grossi rischi, magari ritirandosi. È molto più produttivo marciare con regolarità, senza andare oltre il limite: nel ’90 ho vinto il Rally di Tunisia e l’Atlas, eppure non sono arrivato primo in nessuna speciale. Non è viaggiando fortissimo che si arriva primi».
Sembra un paradosso, ma è vero. Del resto è una cosa che ha dovuto imparare sulla sua pelle, per questo è categorico sulle sfortune altrui.
«So che alcuni ritiri hanno tolto di gara avversari pericolosi, sono stati sfortunati, ma neanch ‘io ho avuto molto fortuna. Ho rotto una mousse a Dirkou ed ho avuto tutti quei guai a Gao. Del resto solo Orioli ha perso la gara per problemi meccanici: De Petri ha sbagliato ed è caduto, e così pure Arcarons. Io dal canto mio ho avuto problemi con la mano: me l’ero fratturata nel Rally dei Faraoni ’89, ed una seconda volta qualche mese fa, al Guidon d’Or Nelle prime tappe, piene di sassi e molto dure fisicamente, mi ha fatto soffrire parecchio. Poi per fortuna il percorso è diventato più difficile per la navigazione, ma meno per il mio scafoide».
Peterhansel a denti stretti insomma, ma non poteva cedere. Non quest’anno in cui si è presentato concentratissimo e determinato, pronto a centrare l’obiettivo finale. Anche una volta raggiunta la leadership della gara non ha mai voluto pronunciare la parola «vittoria».
«In una gara non si pensa alla vittoria fino alla fine, tutto può sempre succedere. Solo a cinque minuti dall’arrivo di Dakar ho cominciato a crederci davvero, perché i distacchi sono stati ridottissimi per tutto il rally. Fino all’ultimo non puoi dire di aver vinto; puoi dire solo di avere perso, al massimo. Per due volte ho temuto mi fosse successo davvero: ho già raccontato di Gao, ero sicuro che fosse proprio finita ed invece sono riuscito a rimanere primo per quattro minuti. Ma anche tra Agadez e Tillia ho avuto paura, ero senza strumentazione e non sapevo dove andare. Quando sono riuscito a trovare la pista con le indicazioni degli indigeni ho visto a terra le tracce di un’altra moto. Ho temuto che Arcarons ce l’avesse fatta. Invece si trattava di De Petri, ed io ho concluso secondo».
Uno degli avversari più pericolosi Peterhansel se l’è trovato proprio in casa: il Compagno di squadra Magnaldi.
«Con Thierry non ci sono stati problemi, il rapporto tra di noi è ottimo, siamo amici. Meglio avere lui alle spalle che Orioli o chiunque altro: casomai mi fosse successo qualcosa il primo posto sarebbe rimasto alla Sonauto. Mi dispiace che abbia perso il secondo per un pelo».
Ora l’avventura è finita, e bene. Peterhansel, sempre molto gentile ed educato, ma provato dalla tensione, può finalmente sciogliersi un po’ Rilassarsi. Pensare al futuro.
«Futuro? Una bella vacanza sugli sci. Ne ho bisogno, di moto e deserto non ne posso proprio più»!
Fonte: motosprint