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Serge Bacou Dakar 1981

Serge Bacou controlla personalmente la sua Yamaha XT500 alla partenza della Dakar 1981

Michel Merel – Dakar 1981

Michel Merel 3° alla Dakar 1981 su Yamaha XT 500.

DAKAR 1988 | Andrè Malherbe eroe sfortunato

Andrò Malherbe, pilota classe 1956 nato a Huy in Belgio, fin da giovane comincia a respirare la passione delle moto trasmessa dal padre rivenditore di moto. All’inizio della carriera corse con la licenza francese perché a quei tempi in Belgio non si poteva correre in gare motociclistiche con un’età inferiore ai 18 anni. Fortissimo già da giovane, a 17 anni è già campione europeo 125 con la Zundapp, bissando anche l’anno successivo nel 1974.

Nel 1977 debutta nel mondiale cross 250 finendo al terzo posto. Nel 1979 cambia categoria, approda nella classe regina che si rivela congeniale al suo stile di guida. Al debutto è terzo nel mondiale. Successivamente vinse 3 campionati del mondo classe 500 nel 1980-81-84 sempre in sella alla Honda, e di 3 MX delle Nazioni con la squadra Belga nel 1977/79/80. Classe cristallina e tecnica di guida sopraffina vinse ben 41 GP, 4° nella classifica di tutti i tempi (nell’era delle 3 classi).

Purtroppo rimarrà paralizzato a causa di un terribile incidente durante la sesta tappa in Algeria alla Dakar del 1988. Cadde mentre stava correndo a 150 Km/h sulla sua Yamaha Sonauto. Destino infame, voci sostengono che fu convinto da alcuni amici a correre alla Dakar.
A mio parere è stato uno dei più forti crossisiti di sempre.

 

Pubblicità Sonauto 1982

Il team Sonuato negli anni ’80 era una vera potenza, nella velocità, cross e Dakar, faceva incetta di titoli e vittorie.
Questa pubblicità rende merito ai propri piloti, nel nostro specifico Bacou, Stearn, Mingels e Vimond.

J.P. Mingels Dakar 1982 – Onore ai vinti

Il traguardo della Dakar 1982 si avvicina, a Nioro du Sahel fra le moto il successo va alla Yamaha di Guy Albaret. Si partì per la speciale Nioro du Sahel-Tambacounda, con le due tappe di 260 e 120 chilometri. A Kayes vinse Jacky Barat (Honda), e a Kadira ancora Guy Albaret. Ma la giornata di Pambacounda è segnata dal doppio colpo di scena il cui protagonista è Jean-Paul Mingels.

In seguito alle penalizzazioni inflitte a Vassand e Rigoni, fu il terzo uomo della squadra Sonauto sulla sua Yamaha XT 550 ad andare in testa alla generale. Ma il destino non ha rispetto, è cinico e baro anche con gli eroi: Mingels fu vittima di una rovinosa caduta a 250 km da Dakar e per via di un errore nel roadbook, alla velocità di 150 km/h si infilò in una crepa nel terreno.

La caduta che consegue fu davvero rovinosa e traumatica. La lista delle fratture subite sembrò non finire mai: frattura cranica, della colonna vertebrale, del bacino più numerose fratture a braccia e gambe.

Tutti gli altri piloti capendo subito la gravità dell’incidente, si fermarono e attesero finché non sopraggiunse l’auto dell’assistenza medica. Fra questi anche Vassard, che gli aveva ceduto il giorno prima la leadership della classifica, e pur di fronte alla possibilità di fare il “colpaccio” e tornare in testa alla classifica, fu il primo a tornare indietro in cerca di soccorso. Cyril Neveu passò automaticamente al comando della corsa con due ore di vantaggio. Dal giorno della rottura del suo motore, a Tit, ne recuperò quasi venti!

Mancavano solo due giorni di una gara che, finalmente, scese di tono per offrire ai superstiti l’opportunità di raggiungere Dakar senza ulteriori sconvolgimenti. A Tiougoune con tre speciali, poi la volata finale verso Dakar, sino alla spiaggia del Lago Rosa. Le quattro speciali conclusive andarono a Olivier Kirkpatrick, Marc Joineau, Michel Merel e, l’ultima, al vincitore della corsa, Cyril Neveu.

La Honda può finalmente festeggiare: sui primi due gradini del podio Cyril Neveu e l’eroe Philippe Vassard e al terzo, con lo stesso motore delle Honda incastonato nel telaio Barigo, Gregoire Verhaegue, 21 anni, privato eroico arriva a Dakar completamente da solo – concorrente privato purissimo – dal primo all’ultimo giorno.

Dal letto dell’ospedale, Mingels, appena rivenne affermò: “la mia XT è caduta in un buco, ma la colpa è solo mia”.

Per la cronaca, l’anno dopo si presentò al prologo di Parigi!

Foto main Gigi Soldano

Yvan Tcherniavsky – Yamaha XT 500

Il francese dal nome impossibile, non si classificò al traguardo della Dakar 1981, ma aveva comunque una gran manetta!

Foto Gigi Soldano

Thierry Magnaldi Dakar 1991 – Qui conta solo vincere!

Thierry Magnaldi è stato la rivelazione della Dakar 1991. Era andato forte anche nella precedente edizione, con una Yamaha monocilindrica che aveva portato al quarto posto; quest’anno però ha rischiato di vincere, mancando il successo per molto poco. «Ci avevo creduto confessa timidamente ma non a Tumu, quando mi sono trovato in testa alla classifica: era troppo presto per fare dei conti, soprattutto in una gara che va vissuta giorno per giorno. È stato nella penultima tappa, quando sono andato solitario al comando. Per un attimo ci ho sperato, poi ho capito che il vantaggio di Peterhansel era troppo perché potessi sperare di recuperare tutto in una tappa sola».

Una lotta difficile quella contro un compagno di quadra.

«In gara siamo avversari ma anche amici, sono contento se lui vince, e viceversa. Questa volta lui ha vinto ed io sono finito terzo: è la vita. La squadra comunque ci ha trattati alla pari, non sono state fatte differenze».

Però disponevi di una moto dell’anno precedente.

«Si, quella nuova è un po’ più maneggevole ed è migliore a livello di sospensioni, ma anche se avessi avuto una Yamaha ’91 il risultato non sarebbe cambiato».

Anche tu, come altri, hai fatto una gara d’attesa.

«Ora che le moto sono affidabili, che la strumentazione ha reso più facile la navigazione ed i piloti veloci sono parecchi è difficile che ci siano grossi divari. Non ho voluto forzare perché non conviene: è l’interpretazione del road book che può fare la differenza. Solo nella tappa di Kayes ho cercato di spingere veramente forte, però sono caduto ed ho perso il secondo posto. Ma nella Dakar conta solo il primo, le altre posizioni sono tutte uguali».

È stata una gara particolare quest’anno, con tutti i primi sempre raggruppati.

«Il fatto è che gli interessi legati alla corsa sono sempre maggiori, e dunque sono maggiori le responsabilità. Tutti devono vincere e nessuno può permettersi il lusso di sbagliare. Questo ha portato forzatamente ad una gara in cui il più delle volte si viaggiava assieme, controllandosi a vicenda per essere sicuri che nessuno potesse avvantaggiarsi in maniera decisiva».

Fonte motosprint

“Desert Boy” Chuck Stearns

Forse pochi ricorderanno la storia di questo pilota statunitense, destinato a diventare un grandissimo della Dakar, ma che il fato avverso e la sfortuna ci hanno privato di conoscere.

Nato, il 6 novembre 1959 in North Carolina, Chuck Stearns è figlio di un ingegnere che lavora alla Boeing. Ha solo 8 anni quando per la prima volta sale su una moto da fuoristrada.

Nel 1978, iniziò seriamente a correre sulle due ruote, e in meno di un anno viene riconosciuto come uno dei migliori specialisti di corsa nel deserto. In questa disciplina, molto in voga negli States, Chuck si aggiudica in quattro anni ben ventotto vittorie.

Nel 1982 la Yamaha USA lo ingaggia dopo la sua performance nella Baja 1000. Una francese, Marie Do diventa il suo manager e gli permette di tentare la fortuna nel Vecchio Continente.

Entrò nel 1984 nella squadra con la Yamaha e Sonauto e con la IT490 vinse la Montesblancos Baja Spagna con Serge Bacou. Nel 1985 viene inserito nel team Gauloises Yamaha Dakar di Jean-Claude Olivier e Serge Bacou sulla Yamaha XT660 Ténéré.
La sua prima partecipazione al rally più difficile del mondo è sfolgorante, vincendo ben 6 tappe – nessuno in quell’edizione fece meglio di lui – e finì 6° assoluto.

Raccontò alla rivista Moto Verte: “Francamente, sono molto felice. Finire 6° per alla prima partecipazione non ha nulla di disonorevole e mi sono piaciuto. Con mia grande sorpresa, non ho avuto problemi di navigazione, ho sempre trovato la mia strada in modo naturale. Allo stesso modo il terreno di gara non mi ha sorpreso, essendo molto simile al deserto degli Stati Uniti (…) La Dakar è la più emozionante avventura off-road al mondo, ma francamente, da quello che mi era stato detto, mi aspettavo di peggio … “

Talentuoso, duro e molto carismatico, Chuck ha un futuro sportivo radioso che lo aspetta. Dopo una breve esperienza negli Stati Uniti dove contrasse la polmonite, tornò in Francia per preparare la Enduro du Touquet in febbraio e il Rally di Tunisia a marzo.

Ma senza saperlo, Chuck è già gravemente malato.

La madre racconterà: “Nel 1983, Chuck ha avuto un incidente in moto e ha dovuto subire una trasfusione di sangue. Sangue che purtroppo risulterà infetto dal virus HIV. Nei primi anni ’80, nessuno sapeva molto di questa orribile malattia.” La sua ultima gara dopo la Parigi-Dakar fu il Rally di Tunisia nel marzo 1985 dove si dovette ritirare e fu rimpatriato d’urgenza con un ponte aereo a Parigi.

Purtroppo Chuck risulta già molto grave e la malattia lo ha minato irreparabilmente, tanto che i medici gli diagnosticano solo 6 mesi di vita.

Il 6 ottobre 1985, un mese prima di compiere il suo 26 ° compleanno, il fortissimo “Desert boy” si spegne.

Dakar 1991 – Speravamo in un successo azzurro…invece è stato blu.

Blu come i colori del francesissimo Team Sonauto che ha piazzato due uomini nei primi tre posti. Tanto di cappello, soprattutto a Stephane Peterhansel che ha conquistato un successo meritato e difficile, con distacchi all’arrivo ridottissimi. Nessuno se l’aspettava così terribile. Che fosse uno dei migliori non si discute, ma pesava sulle sue spalle un passato fatto soprattutto di prestazioni folgoranti e ritiri.
Quello che si è presentato al via della Parigi-Dakar ’91 è un pilota molto diverso, capace anche di andare piano, oltre che forte, e di soffrire se necessario. L’arrivo di Gao è stato qualcosa di epico: in una tappa piena di erba «a chameaux», con grossi ciuffi tra la sabbia che mettono a dura prova le sospensioni, è rimasto completamente senza ammortizzatore, sollecitato al punto da «scoppiare» staccando il serbatoio di recupero, che nella caduta ha tranciato anche il tubo del freno posteriore. Ha continuato in queste condizioni ed ha rotto pure l’attacco dell’ammortizzatore, che fortunatamente si è andato ad incastrare dentro una piastrina del telaio.

Quindi è stata la volta della mousse prima e del copertone poi: quando è arrivato a Gao non era rimasto che il cerchio, nudo. Anche in queste condizioni Peterhansel è riuscito a contenere il suo svantaggio dal primo di tappa in 37’51” conservando la testa della classifica. Solo uno dei tanti episodi di cui è fatta la Dakar, ma esemplificativo della determinazione del francese, deciso come non mai.
«È il giorno più felice della mia vita ha commentato commosso all’arrivo lo inseguivo da diversi anni, e mi era sempre andata male. Nell’89, dopo cinque giorni, ero in testa, ma ruppi la moto. L’anno scorso al sesto giorno ero ancora primo ma sbagliai la rotta, rimasi senza benzina fuori pista e fui costretto ad accendere la balise e ritirarmi. Questa volta ce l’ho fatta»!

Non è un caso e non è fortuna. Per arrivare al successo Peterhansel ha dovuto rivedere tutto il suo modo di correre, tutta la sua tattica di gara.

«È cambiato il mio modo di correre. Ho capito che forzare non conviene, non serve che a guadagnare pochi minuti correndo invece grossi rischi, magari ritirandosi. È molto più produttivo marciare con regolarità, senza andare oltre il limite: nel ’90 ho vinto il Rally di Tunisia e l’Atlas, eppure non sono arrivato primo in nessuna speciale. Non è viaggiando fortissimo che si arriva primi».

Sembra un paradosso, ma è vero. Del resto è una cosa che ha dovuto imparare sulla sua pelle, per questo è categorico sulle sfortune altrui.

«So che alcuni ritiri hanno tolto di gara avversari pericolosi, sono stati sfortunati, ma neanch ‘io ho avuto molto fortuna. Ho rotto una mousse a Dirkou ed ho avuto tutti quei guai a Gao. Del resto solo Orioli ha perso la gara per problemi meccanici: De Petri ha sbagliato ed è caduto, e così pure Arcarons. Io dal canto mio ho avuto problemi con la mano: me l’ero fratturata nel Rally dei Faraoni ’89, ed una seconda volta qualche mese fa, al Guidon d’Or Nelle prime tappe, piene di sassi e molto dure fisicamente, mi ha fatto soffrire parecchio. Poi per fortuna il percorso è diventato più difficile per la navigazione, ma meno per il mio scafoide».

Peterhansel a denti stretti insomma, ma non poteva cedere. Non quest’anno in cui si è presentato concentratissimo e determinato, pronto a centrare l’obiettivo finale. Anche una volta raggiunta la leadership della gara non ha mai voluto pronunciare la parola «vittoria».

«In una gara non si pensa alla vittoria fino alla fine, tutto può sempre succedere. Solo a cinque minuti dall’arrivo di Dakar ho cominciato a crederci davvero, perché i distacchi sono stati ridottissimi per tutto il rally. Fino all’ultimo non puoi dire di aver vinto; puoi dire solo di avere perso, al massimo. Per due volte ho temuto mi fosse successo davvero: ho già raccontato di Gao, ero sicuro che fosse proprio finita ed invece sono riuscito a rimanere primo per quattro minuti. Ma anche tra Agadez e Tillia ho avuto paura, ero senza strumentazione e non sapevo dove andare. Quando sono riuscito a trovare la pista con le indicazioni degli indigeni ho visto a terra le tracce di un’altra moto. Ho temuto che Arcarons ce l’avesse fatta. Invece si trattava di De Petri, ed io ho concluso secondo».

Uno degli avversari più pericolosi Peterhansel se l’è trovato proprio in casa: il Compagno di squadra Magnaldi.

«Con Thierry non ci sono stati problemi, il rapporto tra di noi è ottimo, siamo amici. Meglio avere lui alle spalle che Orioli o chiunque altro: casomai mi fosse successo qualcosa il primo posto sarebbe rimasto alla Sonauto. Mi dispiace che abbia perso il secondo per un pelo».

Ora l’avventura è finita, e bene. Peterhansel, sempre molto gentile ed educato, ma provato dalla tensione, può finalmente sciogliersi un po’ Rilassarsi. Pensare al futuro.

«Futuro? Una bella vacanza sugli sci. Ne ho bisogno, di moto e deserto non ne posso proprio più»!
Fonte: motosprint

 

 

Yamaha YZE 750 1991

Per Stéphane Peterhansel il 1991 segna l’inizio della consacrazione. L’alba di una lunga serie di successi che lo porterà a diventare il pilota con più vittorie alla Parigi Dakar. Quell’anno la Yamaha gli mette sotto la sella una autentico bolide, la YZE 750 T OWC5, un bicilindrico da 800 cc erogante 75 cv con un peso a secco di 185 kg., modello che ha gettato le basi per le successive vittorie del pilota francese.