DAKAR 1991 Piloti privati e pubbliche vergogne
Articolo di Nico Cereghini
Due immagini per mettere a fuoco lo spirito dei piloti privati alla Dakar Il tedesco Brunner che spinge la sua Suzuki fin sotto il traguardo del Lago Rosa il viso ridotto ad una maschera di sangue. l’avantreno della sua moto distrutto nell’ultima caduta. E ancora Brenno Bignardi a Tambacounda dopo gli ultimi 50 chilometri percorsi su una Gilera senza ammortizzatore, senza pneumatico e senza sella: quindi seduto sul resto di quello che era stato un telaio e correndo sul cerchione posteriore. L’importante è arrivare, l’ultima pagina del road-book dice “la spaggia: bravo!” ma vale soltanto se hai un posto in classifica. Ventuno sono stati i motociclisti italiani che hanno preso la partenza a Parigi da privati: sei i piloti ufficiali, se consideriamo tale anche Roberto Boano, iscritto dalla Honda
Europe sulle più evolute Africa Twin 750 Ebbene. di quei ventuno soltanto otto hanno concluso, compresi in classifica tra il ventesimo posto di Massimo Montebelli ed il trentaseiesimo di Antonio Cabini.
Ma c’è privato e privato. I piloti del team Assomoto sono ad esempio, dei privilegiati. “Si — conferma Aldo Winkler — perché possiamo contare sull’ottima organizzazione messa in piedi da Bruno Birbes: un camion ed un auto sulle piste, meccanici aviotrasportati. D’altra parte. il privato che fa tutto da sè e corre con i ricambi nello zaino non esiste più”. Non è un caso: quest’anno, con poco più di cento motociclisti iscritti alla gara, la Parigi-Dakar ha toccato il minimo storico.
Quali le ragioni della crisi? I costi. naturalmente: quei privati che puntavano ad avere il minimo indispensabile (cioé un meccanico. magari in consorzio. trasportato sugli aerei di Transair ed una cassa di ricambi affidata ad un camion in gara) hanno dovuto fare i conti con cifre proibitive. Tanto che Sabine, per arginare l’emorragia. ha promesso che l’anno venturo TSO allestirà un paio di camion per il trasporto dei ricambi dei motociclisti privati.
La quotazione ’91 per il trasporto di una semplice cassa era arrivata a dodici milioni di lire Bruno Birbes, bresciano. quarantenne, tre Dakar disputate in moto, è però del parere che le promesse dell’organizzatore sortiranno poco effetto Perché l’evoluzione naturale della gara – analizza Birbes – premia quei team. anche piccoli che sono avanzati verso la professionalità. Noi ci facciamo un vanto di portare i nostri piloti a Dakar mi resta dunque il cruccio di aver perso troppo presto Mercandelli.
Ma ho anche la soddisfazione di aver visto giusto nell’abbinare quest’anno la mia organizzazione alla Gilera. Non serve correre al limite. ma puntare su una valida meccanica e sull’affidabilità dell’assistenza al seguito. Winkler poi Walter Surini e Brenno Bignardi hanno cosi potuto correre una gara relativamente serena. E come loro anche Giampaolo Quaglino, che all’Assomoto si e appoggiato per tenere in ordine la sua Gilera privata.
Ma sono tutti piloti che possono disporre di un notevole budget, personale o raccolto attraverso gli sponsor tale da poter impostare un programma quasi garantito. Più dura ancora, quindi, e stata la bella impresa del brasiliano De Azevedo. che ha portato la sua Yamaha XT 600 alla vittoria tra le Marathon (moto strettamente di serie) ed al ventunesimo posto assoluto: chiedendo assistenza un po’ da tutte le parti ed elemosinando un pneumatico posteriore (alla Byrd) quando si è accorto a Kiffa, di guidare una moto con gli slick.
Spiegano Massimo Montebelli e Fabio Marcaccini, con le Yamaha 600 costituiti nel team Wild – anno dopo anno siamo cresciuti: da puri amatori a privati dotati di una minima organizzazione. La Dakar e sempre la gara piu dura del mondo, ma quest’anno per noi è diventata accettabile. I piazzamenti lo dimostrano. Mario Pegoraro, unico superstite di un terzetto, ha concluso al trentatreesimo posto con la Honda Dominator. Trentanovenne, era curato a vista dalla TSO dopo la squalifica del compagno Domenico Magri per assistenza-pirata. Ha concluso con un cambio che non conosceva altri rapporti oltre alla prima e alla seconda.
Tra quelli che non ce l’hanno fatta, i più sfortunati sono Paolo Paladini e Giampaolo Aluigi, fermati a due giorni dalla conclusione da altrettante cadute nella polvere. “Ho dovuto abbandonare anche la moto — si rammaricava il primo — perché la lussazione della spalla mi ha costretto a salire sull’auto dei medici. Ora la mia Africa Twin farà la gioia di qualche nero in Mauritania”.
L’avventura di Paladini, compresa la moto, l’iscrizione e l’assistenza offerta da Honda France, era costata poco più di trenta milioni di lire. Molto di più aveva investito il veterano Beppe Gualini (aveva anche un Unimog personale di assistenza), fermato da una caduta prima di affrontare il Ténéré. Insomma la Parigi-Dakar costa cara: sarà impensabile l’anno venturo iscriversi alla gara senza prevedere una spesa di almeno quaranta milioni di lire.
Però, nonostante tutto, questo raid resta la gara africana ambita da ogni privato: perché la sua fama è grande (e per questo è un pò meno arduo racimolare tra gli sponsor il capitale), perché vedere il Lago Rosa equivale ad una laurea. Anche un esordiente ha discrete probabilità di riuscirci: bisogna però che si affidi all’organizzazione di quei team che ormai vantano una notevole esperienza dakariana. “Avventurieri del 2000 seguitemi!” diceva Thierry Sabine.
E a chi rispose all’appello di quel primo gennaio 1979, dettò le regole. Che suonavano pressapoco così. lo — diceva — vi porto dove da soli non arrivereste mai; io e soltanto io conosco quei Paesi africani, i governi e la gente. Dunque sono io che stabilisco le regole, quelle studiate a tavolino ed anche quelle che, necessariamente, andranno improvvisate giorno per giorno. Ma c’è una parola d’ordine da tenere in mente: “demerdez-vous”; e cioé — tradotta con effetto migliorativo — “sbrigatevela da soli’.
“C’EST L’AFRIQUE”
Era probabilmente l’unico modo per governare quel centinaio di “avventurieri”, nella gran parte sprovveduti; Thierry Sabine sapeva di doversi assumere il ruolo di “padrone” della corsa, ma sapeva anche che non avrebbe potuto arrivare dappertutto. Né gli garbava di diventare anche il “padre” dei partecipanti: sarebbe stato sommerso dai problemi individuali, dalle lamentele, dalle proteste di chi non aveva trovato il carburante nel punto stabilito, o criticava la tale nota del road-book, o ancora disprezzava la razione giornaliera delle gallette e dei succhi di frutta.
Demerdez-vous: fuori dalla cacca per conto vostro. E Thierry seppe portare avanti la sua gara senza troppi problemi: aveva una forte personalità, gratificava quelli buoni e rideva in faccia agli altri buttando lì due sentenze celebri: “c’est l’Afrique, c’est la Dakar”. Ma oggi, per suo padre Gilbert, i nodi stanno venendo al pettine. Ha due problemi, l’ex-dentista: primo, non ha la personalità del figlio; secondo, la Fisa e la Fim gli hanno cucito addosso una serie di limiti, togliendogli di fatto la paternità della corsa.
E così, mentre la sua Parigi-Dakar si è progressivamente allontanata dall’avventura per assomigliare sempre di più ad una gara, vera, Gilbert non può più cavarsela con la celebre sentenza del demerdez-vous. Perché non c’è più nessuno disposto a cavarsela da solo quando ci sono tre direttori di gara, quattro membri di giuria, regolamenti grandi come un libro, cinque elicotteri, quindici auto dell’organizzazione, duecento addetti della TSO, venti ragazze con incarichi teorici e tanto tempo da dedicare all’abbronzatura. E quando, soprattutto, i concorrenti hanno l’impressione di pagarlo tutto loro, questo faraonico carrozzone.
“EROI” SENZA NOME
Una volta c’era soltanto Thierry, a far passerella con la sua bella tuta bianca come se stesse recitando un film. Adesso ci sono dieci, venti Thierry con la stessa prosopopea e la medesima aria sognante da eroi delle dune; e neanche sai come si chiamano né cosa ci stanno a fare. Ma la cosa più irritante è un’altra: la TSO è senza dubbio più efficiente, ma non è affatto più vicina ai partecipanti ed ai loro problemi. Se un team manager è allarmato per il mancato arrivo di un suo pilota, dovrà rivolgersi a un amico giornalista per essere benevolmente accolto dal responsabile delle ricerche; se un fotografo vuole sapere esattamente dove si trova l’arrivo della prova speciale, per andarci a lavorare, otterrà risposte romantiche del tipo “segui il vento” e nessuna indicazione precisa.
E così via: quelli dell’organizzazione sembra che vivano sospesi a mezz’aria tra la campagna d’Africa e la lirica pura. Una mentalità che contagia. Gli stessi medici francesi, raccolti dalle due associazioni AMS e SOS Assistance, ne soffrono in termini allarmanti. Quando il corpo dello sventurato Charles Cabane è stato trasferito sull’aereo del rimpatrio, tolta la tenda dei medici è rimasta una larga pozza di sangue sul cemento dell’enorme hangar dell’aeroporto di Gao, lì nel mezzo nell’incredulità generale.
A chi non voleva credere che fosse proprio il sangue del povero camionista, un medico confermava alzando le spalle con indifferenza e lanciando un’occhiata distratta. Un medico che certamente, nel suo ospedale di Nantes o di Lyon, svolge coscienziosamente il suo lavoro da febbraio a dicembre; ma quando arriva la Parigi-Dakar, parte per l’avventura calandosi nella parte del guerriero dei deserti: dimenticando il rispetto per i vivi e per i morti, le più elementari norme igieniche e di convivenza civile.