Dakariani D.O.C.: intervista a Luigino Medardo
Intanto, Luigi o Luigino: Luigino è il mio nome di battesimo.
Hai iniziato nella regolarità dove hai vinto varie sei giorni a squadre, un campionato europeo e vari titoli italiani, poi hai deciso di passare al mondo dei Rally, perchè questa scelta?
In occasione della “sei giorni di San Pellegrino dell’86” fui contattato da Daniele Papi, l’allora manager della Yamaha Belgarda che mi chiese se mi andava di fare qualche gara di rally.
Dissi subito di si, l’attrazione per l’Africa l’avevo sin da bambino e poterla scoprire guidando una moto che era la mia grande passione fu la coronazione di un bellissimo sogno.
Iniziai l’avventura impegnandomi subito nel rally di Tunisia, Marocco, Faraoni e la Dakar, le stesse gare che affrontai anche nell’87.
Nel ‘90 portasti al debutto la Gilera ottenendo in due anni ottimi piazzamenti 8° e 7° assoluto, correndo nella classe silhouette. Cosa comportava correrere in questa classe?
Esistevano 3 categorie, la serie, dove non potevi cambiare praticamente niente alla moto, la silhouette, dove dovevano restare di serie il telaio e motore, mentre il resto poteva essere sostituito, ad esempio gli scarichi e i serbatoi ma non le ruote, infine la classe prototipi dove la moto veniva costruita a misura di pilota e per il tipo di gara e durante l’evento avevi a disposizione un massimo di 3 motori di scorta e potevi cambiare qualsiasi cosa, ad eccezione del telaio.
Passai a Gilera perchè Yamaha non era la squadra per me, ossia, quando fui chiamato a correre, la squadra esisteva già e aveva Franco Picco come pilota di riferimento.
Lui proveniva dal cross e io dalla regolarità, due stili di guida diversi, le moto in Giappone venivano testate da Lui e quando arrivavano qui per correre non erano adatte al mio stile di guida. Quindi soffrii tantissimo, mi feci male e alla fine decisi di lasciare la Yamaha.
Volevo dimostrare a me stesso di riuscire a fare qualcosa di buono anche nei rally e così nacque una scommessa. Mi incontrai con Gianni Perini (Gilera) al salone di Milano e gli parlai del mio progetto e scoccò la scintilla.
Partendo dalla base della moto che già correva nel motorally, iniziammo lo sviluppo e ci presentammo al rally di Tunisia. I risultati non furono eclatanti, ma il progetto era ormai avviato e proseguimmo partecipando al Faraoni e in seguito alla Dakar.
L’anno successivo, sempre alla Dakar, ottenemmo 3 vittorie di tappa con la nostra moto da 600 cc contro le più potenti della classe prototipi. Grandi risultati ma altrettante soddisfazioni personali, come quella di arrivare in Gilera e di questa moto non c’era praticamente niente, iniziare con i meccanici a costruirla per me, seguendo le mie direttive. Qualsiasi cosa chiedessi, veniva esaudita, addirittura i serbatoi vennero sagomati dal modellista sull’impronta della mia gamba!
Poi arrivò il prototipo, la RC 750 e tutti pensavamo che fosse l’anno buono per vedere una moto italiana con un pilota italiano al comando della Dakar. Invece cosa successe?
Il prototipo fu costruito in tempi record e debuttammo al rally di Tunisia con una vittoria.
Nel frattempo arrivò in squadra anche Picco e, al Faraoni mi ritirai per un piccolo guasto alla moto. Picco invece, dopo il ritiro di De Petri per infortunio si aggiudicò il rally.
Tutto faceva presagire che la direzione presa per lo sviluppo delle moto, era quella giusta. Partimmo per la Dakar convinti di poter fare grandi cose, ma purtroppo Picco si fece male dopo poche tappe e io dovetti ritirarmi per un problema tecnico alla frizione, un difetto mai riscontrato precedentemente nei test. L’anno successivo, tutti i team ufficiali, Cagiva, Gilera, Honda ecc…. a causa della crisi economica, al conseguente calo delle vendite e di interesse per questo tipo di motociclette, decisero di ritirarsi dalle competizioni.
Allora avevo 32 anni e non ebbi la tenacia di ripartire con un nuovo team. Decisi di abbandonare le gare. Fu un errore perchè poì arrivò KTM portando nuova energia ed interesse per questo tipo di gare e se fossi rimasto come fece Meoni, molto probabilmente avrei potuto cavarmi qualche altra soddisfazione.
L’arrivo di Franco Picco in squadra creò rivalità? Partivate tutti e due con le stesse chances o c’era un pilota di punta?
No non c’era nessuna rivalità e ambedue partivamo con le stesse chances.
Il mio problema con lui era solo una questine tecnica, già in Yamaha voleva una moto diversa da quella che potevo utilizzare io o Grasso che era in squadra con noi, aveva un modo di mettere a punto le moto che erano a mio parere troppo estreme, moto da cross, con tarature durissime e difficili da guidare. Lui stesso alla fine, quando eravamo in procinto di partire per la gara continuava ad intervenire sui settaggi. Cercare di sitemare la moto sul campo per me era una cosa improponibile da svolgere.
Solo questo era il nostro punto di discordia, niente di personale.
In Gilera i patti erano chiari, i collaudi e le regolazioni sulla mia moto li facevo solo ed esclusivamente io.
Sappiamo tutti che nella regolarità si usava nascondersi dietro qualche cespuglio in caso di guasto e sostituire le parti danneggiate, con quella della moto “Ombra”.
Alla Dakar ti è mai successo qualcosa di simile? Raccontaci un aneddoto legato a quegli anni. Non era così facile nei rally fare qualcosa, nel deserto non era facile trovare cespugli dove nascondersi. (ride)
Durante una tappa marathon mi si ruppe il tubo che portava l’olio dal mono ammortizzatore al serbatoio e il giorno dopo avrei avuto grosse difficoltà a concludere la tappa e mantenere la testa della classifica. Diciamo che facemmo gioco di squadra! Dai camion assistenza era vietato scaricare ricambi e la moto era in parco chiuso.
Quella notte recuperai l’ammortizzatore sano e lo affidai ad un amico giornalista che il mattino seguente sarebbe sceso lungo il percorso di gara a svolgere il suo lavoro.
Ci accordammo e me lo lasciò in un determinato punto del percorso. Il giorno seguente alla partenza della tappa con gli altri piloti del team ci demmo appuntamento sul luogo indicato e sostituimmo il mono proprio mentre l’elicottero dell’organizzazione stava atterrando per un controllo. Sotterrammo velocemente il ricambio danneggiato sotto la sabbia e non trovandolo ci lasciarono continuare la gara.
Cosa è cambiato dalla Parigi Dakar di allora alla nuova Dakar in Sudamerica?
Credo che ora la Dakar sia una gara un pò più umana, più fattibile.
La prima Dakar a cui partecipai era di 17.000 Km in 18 giorni con uno solo giorno di riposo, praticamente 1.000 km al giorno. Se poi un giorno ne facevamo 800, vuol dire che quello successive erano almeno 1.200. Utilizzando poi moto molto veloci il rischio era molto alto e di incidenti in quegli anni ce ne sono stati davvero tanti. Un’altro aspetto importante è che le prime Dakar a cui ho partecipai si usava la bussola a mano e non era poi così semplice navigare e orientarsi. Anche se nelle tappe si partiva tutti insieme nel deserto, dopo pochi km ci si perdeva di vista perchè ognuno sceglieva la propria rotta e dopo 20/30 km eri solo.
Poi man mano che ci avvicinavamo al traguardo iniziavamo a scorgere all’orizzonte dei puntini neri lontanissimi che piano piano convergevano verso lo stesso punto.
Era proprio un’avventura!
Sappiamo che sei rimasto nel settore, di cosa ti occupi?
Lavoro per Scott moto e Scott bici come agente per il Triveneto.
Vuoi aggiungere qualcosa?
Si ho due cose nel cuore che vorrei dire. La prima è che i fratelli Frigerio, quando arrivai da loro a 15 anni mi accolsero come un figlio. Dormivo in camera con uno dei loro figli come fossi da sempre uno della famiglia.
Questo è un ricordo importante che avrò per sempre nel cuore. L’altro è un ringraziamento particolare a Gilera, alla squadra e a tutte le persone che ne facevano parte, in particolar modo Silvano Galbusera che era il mio meccanico di fiducia e capo meccanico del team, e che ora è con Valentino Rossi alla moto GP.
Testo a cura di: Pietro Bartolomei
Foto: Archivio Luigino Medardo