Patrizio Fiorini, le mie Dakar

Categoria Malles Moto: ovvero, l’organizzazione ti trasporta una cassa coi tuoi ricambi e, credo, due ruote complete. Tu in un campo allestito, illuminato, con vari servizi tipo: gazebo, compressore, idropulitirice, saldatrice, meccanici dell’organizzazione quando disponibili, spazio tende, docce… devi arrangiarti a fare tutto.

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Praticamente quello che in Africa negli anni ’80 e inizi ’90 era un trattamento da pilota semi-ufficiale. In quegli anni il privato partiva con lo zaino, e al massimo, un pò di ricambi su un camion. I più “ricchi” avevano un meccanico assieme ad altri piloti e qualche ricambio in più.
Poi c’erano una decina di “ufficiali”, ma erano su una altro pianeta. Io potevo ritenermi fortunato, grazie ad un amico, avevo caricato su un camion in gara, una cassa con olio, filtri, camere d’aria e un motore di ricambio. E una borsa con qualche vestito oltre quelli che avevo addosso fin dalle verifiche a Rouen.

Alla seconda tappa in Libia il camion del mio amico Stefano Pirola di Lissone si rompe, decidono di salvare il salvabile tornando a casa. Tutto quello che riuscirono a fare fu consegnare la borsa coi vestiti ad un’auto di un team francese, un Toyota privatissimo del Team Sud che rimase a piedi due tappe dopo. Appena in tempo per lasciare la borsa al bivacco, il sacco a pelo no, quello se lo lasciarono sull’auto… mi arrivò mesi dopo a casa con saluti e gadget del Team Sud.

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Così al bivacco della seconda tappa in Libia, mi ritrovai com’ero da giorni, solo stivali nei piedi, senza un goccio d’olio per la moto, senza sacco a pelo (la tenda non era prevista), filtri o qualsiasi cosa per gli imprevisti. I vestiti che trovai erano l’ultima cosa di cui avevo bisogno, avevo viaggiato per anni da solo senza prevedere nulla per me, solo per la moto, e vedermi recapitare la borsa da due colleghi di sfighe su 4 ruote, mi sembrò una presa in giro, ma erano talmente malconci che li ringrziai, passammo una bella serata insieme, ci scambiammo gli indirizzi promettendoci un bel team auto e moto per l’anno dopo (sogni da falò sotto le stelle).

Al bivacco della prima tappa non riuscii nemmeno a trovare il mio camion, il marasma era totale, una bufera di vento e pioggia aveva ridotto l’area a ridosso di un aeroporto in un pantano di sabbia e fango. Ricordo Montebelli e Marcaccini, gli amici che mi vendettero la moto, fare manutenzione ai loro 660 sotto un diluvio nello spazio improvvisato dalla Yamaha BYRD. Io vagai fino all’alba tentando di sdraiarmi sui teli di plastica di chi era riuscito ad aprire le tende sotto un grande gazebo. Da lì in poi, fino al mio abbandono per rottura del cambio tra Tenere e Ciad, ho vissuto di espedienti, a scrocco di tutto, a dormire avvolto nel telo di sporavvivenza sotto i camion.

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Leggere oggi che sei stanchino perché dormirai 3 ore e mezza, perché “ti tocca” la Malles Moto, mi fa sorridere.

Nella foto, sono l’anno dopo alla seconda tappa in Marocco, guido ancora col piede destro sul motore, la pedana è rimasta tra Montpellier e Marsiglia forse incastrata nella macchina di Paul Maurice, un ubriaco che mi tagliò la strada in trasferimento. Lasciai in giro per il fosso tutti gli strumenti, i fari, pezzi di carena, codino, la tuta antiacqua (pioveva anche li…), il dito mignolo della mano destra e due costole. Vedere Franco Picco ed Edi Orioli aiutarmi e, a pacche sulla schiena dirmi “dai resisti”, mi fece continuare, sempre con la mia cassa da privato a cercare una pedana compatibile da saldare col troncone di leva del freno che mi era rimasta.

Abbandonai anche lì, in Algeria, arrivai a fine tappa oltre la partenza del giorno dopo, 980 km dentro e fuori il grande Erg Occidentale, la classica tappa di sfoltimento che alleggeriva la TSO in vista dell’ingresso in Africa Nera. Dal giorno dell’incidente in Francia dormii (male) solo quella prima notte, le costole si stavano svegliando… dopo, per quattro tappe non mi sdraiai mai. Alla partenza di ogni tappa i medici, che sapevano dell’incidente, mi facevano una visita per vedere com’ero messo, pressione, occhi, riflessi e altre boiate che avrei evitato volentieri, pur di mettere a posto altre cose nella moto (luci obbligatorie per es.).

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Tornai a casa in moto come nei miei viaggi, col Tunisi-Genova, più in forma di quando ero partito, con la moto schiacciata ma finalmente a posto ed efficiente.

Nel ’97 ho scoperto il benessere della categoria Malles Moto. Di avere un mio meccanico comunque non se ne parlava. Trovarmi tutti quei servizi a disposizione, mi sembrò un’altro mondo, pulire il filtro con l’aria compressa è roba importante, avere un meccanico ed un gommista che prima o poi ti consegna la tua ruota o il pezzo di ricambio (solo per possessori di ktm al tempo) mi sgravava di un sacco di ore di lavoro che potevo impiegare sul road book e fare quel bel lavoro con gli evidenziatori colorati che spesso si vede nelle foto di oggi. Dormire sempre poco comunque.

Abbandonai la corsa tra Mali e Senegal prima di farmi male seriamente, prendevo troppi rischi per andare avanti a tutti i costi, si partiva da Dakar e il caldo era troppo. Bene per me che mi rimase quel pelo di lucidità per decidere di fermarmi. Male andò ad un collega francese che vidi a terra con le auto attorno su una pista rossa con solchi fondi come tutta la ruota. Al bivacco si seppe che era morto e mi rimase impresso, forse troppo, o per fortuna.

 

fiorini-1997Anche oggi questa Dakar ci fa vedere storie e personaggi al limite della resistenza, mi piace meno rispetto alle Paris-Dakar, ma rimane una bella gara. Peccato per tutta quella “civiltà” che vedo attorno ai piloti, troppa gente, troppi servizi, troppo tutto (al bivacco girano persino delle belle signorine…).

L’Africa e il Sahara sono irripetibili, per fortuna ci ho provato.

Dakar 1998, Sala e Meoni e i piccoli gesti che resteranno nella storia

Sono in molti a chiedermi della “pacca” sul casco di Meoni in un video della Dakar.
Niente di che, solo che con Fabrizio avevo raggiunto un grande feeling e quindi potevo “permettermi” di fare una cosa del genere.
Il feeling è nato e cresciuto nel corso degli anni, a partire dalla mia prima Dakar nel 1998, quando in un ultimo dell’anno a Parigi, a poche ore dalla partenza, mi chiedeva se eravamo normali a stare nella stanza dell’hotel davanti alla TV guardando cartoni animati, quando fuori tutti erano di festa. Scoppiai a ridere e cominciammo a parlare di Dakar e mi rivelò alcune malizie per affrontare meglio la gara.
Sempre insieme nei trasferimenti, ore e ore in sella, e spesso con la pioggia, (non si vede l’ora di arrivare in Africa), condividendo i pochi minuti di sosta ai punti ristoro. “Vietata” la consumazione quando ci si fermava per fare benzina, mi diceva che alla Dakar non si deve perdere tempo e all’assistenza si deve arrivare il prima possibile, “ricordatelo bene!”.
In società al bivacco era un grande, saluti e consigli per tutti, olio toscano sempre in “tavola” nella sabbia del bivacco, e chiederne un po’ gli faceva girare le palle, aveva nella cassa la quantità giusta per i giorni di gara, ma poi te lo offriva volentieri. Ti chiedeva poi un parere, credente e attivo come sempre, tutti sappiamo della sua missione a Dakar.

Parlando della città di Dakar, quando nel 2001 vinse per la prima volta la gara, alla cena/festa lo obbligai a “ubriacarsi”. Non potevo vedere Fabrizio brindare con Coca Cola tutta la sera mentre lo staff KTM, al contrario, brindava alla sua vittoria con vino e birra, così gli imposi di bere almeno tre bicchieri di vino nel corso della serata, mi rispose: “e che ci vuole?”. Uno due tre in fila… in meno di mezz’ora avevamo un Meoni in forma strepitosa, che parlava austriaco come il toscano.

Strategico e combattivo proprio come un “Cinghiale”, e così lo chiamavano, sapeva aggredire speciali con forza e irruenza, ma sapeva anche passare “senza lasciare traccia”.

Infatti, fu la strategia che gli permise di vincere con la bicilindrica LC8, in una tappa dove si doveva passare su un Wait Point, situato in cima a una ripida falesia, (quella che Roma cercò di salire ma poi cadde e andò in crisi). Fabrizio con un rapido e astuto ragionamento di CAP (i gradi della bussola), capì che Roma ed io, che partivamo davanti a lui, stavamo sulla pista sbagliata, così uscì dalla pista per non lasciare tracce e, tagliando in fuori pista per alcune centinaia di metri, imboccò la pista giusta che portava in cima alla falesia. Fu così l’unico a trovare in breve tempo la direzione mentre noi tutti “pascolavamo” alla ricerca della pista, chiedendoci dove fosse finito Meoni. Il distacco acquisito gli permise di vincere la sua seconda Dakar con una moto – credetemi ve lo assicuro – veramente impegnativa, la LC8.

Oltre alle gare ho condiviso con Fabrizio anche tantissime settimane di test. In queste occasioni si consumavano giorni e notti condividendo la stanza, scoprendo le varie abitudini, le manie, i gusti, i programmi televisivi più amati, le preferenze alimentari, oltre allo stare in sella fianco a fianco negli odiosi Chott di sabbia soffice per chilometri e chilometri per testare l’affidabilità dei motori in condizioni estreme. Arrivò a percorrere 1.007 chilometri in un giorno su un anello di 38 km, (io ne feci 150 meno). Anche lo sviluppo della LC8 fu molto interessante perché era una moto tutta nuova e Fabrizio mi sorprese con la sua sensibilità quando capì che la posizione delle pedane andava cambiata per far sì che la moto non si avvitasse.
Finiti i test, ci allenavamo in palestra, in piscina e correndo, ma con lui era impossibile, troppo allenato, persino il preparatissimo Arnaldo Nicoli ne sa qualcosa.
Inoltro ricordo le risate alle Battle of King, memorabile quella di Ibiza. Ci fu la manche con i Jet Ski da Ibiza a Formentera, Fabrizio ed io, “Vecchi Lupi di Mare”, scegliemmo il modello della moto d’acqua sbagliata per il mare aperto e arrivammo alla fine così stremati che sembravamo due naufraghi.

Potrei raccontarvi ancora tante storie, ma non voglio annoiarvi, e così vi spiego il perché del famoso “schiaffo” sul casco.
Era la Dakar del 1998 ed eravamo in Mali, nella tappa che portava da Taudenni a Gao dove per sicurezza, visto il chilometraggio, fu annullata la speciale che divenne un trasferimento di oltre 1000 chilometri. Come dicevo prima, “lui in Africa, voleva arrivare presto al bivacco”, così si mise a guidare quasi come fosse in speciale ed io, da buon portant d’eau, dovevo stare con lui, ma intorno al km 800 iniziavo ad averne un po’ le palle piene di tenere un ritmo del genere, così mi avvicinai e gli diedi il famoso “schiaffetto” per richiamare la sua attenzione e avvertire che avremmo anche potuto rallentare per qualche chilometro, visto che non mi pareva tardissimo, ma lui non abbassò più di tanto il ritmo. Aveva ragione perché, nonostante fossimo tra i primi ad arrivare all’assistenza, era calata la notte da diverse ore, in quanto gli ultimi 150 chilometri si snodavano tra un intreccio di piste nel Fesh Fesh che, affrontate con le luci dei fari, risultò molto complicato guidare mantenendo il giusto CAP e l’equilibrio.
Chi lo ha provato sa cosa vuol dire.

Purtroppo la sua gara prediletta gli ha tolto la vita, lasciando una profonda tristezza a Elena, Gioele e Chiara, come a tutti noi, ma lo ricorderemo sempre per la sua simpatia e disponibilità da grande campione e persona quale era.

Giovanni Sala

Tratto da Endurista Magazine nr.42

Incredibile Pierre Marie Poli alla Dakar 1988

Elenco partecipanti e risultati degli italiani nella storia della Dakar africana

Abbiamo dei fans meravigliosi, alcuni di questi sono anche personaggi che hanno lasciato la loro firma sugli annali della Paris Dakar. Uno di questi è Carlo Alberto Migliazza, già partecipante dell’ultima edizione africana del 2007 e alla prima Africa Eco Race 2009, che ha raccolto in una serie di documenti interssantissimi, il primo che pubblichiamo è la lista dei partecipanti italiani di tutte le edizioni, con relativa posizione di arrivo, ed eventualmente la tappa in cui si sono ritirati.
Chi riscontrasse delle inesattezze, o semplicemente volesse implementare la lista, è libero di mettersi in contatto.
PS: i dati sono stati tratti da riviste del settore e dalle pubblicazioni ufficiali ASO.

Qui di seguito potrete consultare:


Claudio Terruzzi, dalla buca del Parco Lambro alla Parigi-Dakar

Claudio Terruzzi ha partecipato ed anche vinto gare di enduro in tutto il mondo ma è ricordato soprattutto per le sue partecipazioni alla Parigi-Dakar.
 Claudio è nato in via Amalfi lungo la Martesana nel 1956 e ha trascorso la sua giovinezza a Crescenzago.
Striscione di bentornato esposto nel 1988 in via Padova, in occasione del rientro di Terruzzi dalla Parigi – Dakar
Ancora giovanissimo, assieme ad altri patiti del fuoristrada della zona, in sella a dei cinquantini si cimentava nella buca di via De Notaris (di fronte alla Rol Oil) o al Parco Lambro.
 Al Parco Lambro, oltre ai classici percorsi sulla “montagnetta”, c’era anche una buca a fianco di via Crescenzago e dietro al Tennis Club che una vera palestra per il motocross, con tracciati molto belli. Inoltre al Parco oltre che primeggiare con gli amici, c’era spesso da battere anche le guardie ecologiche, ma per i ragazzi era abbastanza facile, con una sgasata, sfuggire ai “verdoni” che cavalcavano biciclette.

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Orioli, Terruzzi e Picco, i componenti della squadra Honda Italia alla Parigi- Dakar del 1988.
Terruzzi, per gli amici, “El Teruzz”, ha iniziato a correre negli anni 70 in gare di regolarità con vari successi, fino ad approdare alla squadra azzurra. Dopo risultati alterni, alla 6 giorni di San Pellegrino è stato notato da Massimo Ormeni di Honda Italia e dopo alcuni test positivi è diventato pilota ufficiale Honda. 
Claudio ha partecipato a tre Parigi-Dakar negli anni ’80, nel periodo in cui era ancora una gara massacrante che si correva in Africa.
Ha partecipato per la prima volta nel 1987, in sella ad una Honda XR 650 R, ha vinto una tappa a Goa, in Mali il 14 gennaio ed ha vinto il premio “Rookie of the year” quale miglior pilota di moto esordiente.
 La seconda partecipazione nel 1988, quell’edizione è stata irripetibile per gli italiani che correvano con le moto, delle 183 moto alla partenza solo 34 sono arrivate a Dakar e nei primi cinque posti della classifica finale si sono piazzati ben tre italiani: il vincitore Edi Orioli su Honda, al secondo posto Franco Picco su Yamaha ed al quinto Claudio Terruzzi su Honda HRC NXR750R. In quell’edizione Terruzzi ha riportato anche 6 vittorie di tappa e senza alcuni problemi meccanici avrebbe anche potuto concorrere per la vittoria assoluta.

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Durante una intervista del 2012, Claudio, rispondendo ad una domanda sul suo gradimento a correre eventualmente di nuovo la Parigi-Dakar, ricordando quegli indimenticabili momenti, ha risposto: “ No, perché la Dakar, quella Dakar, non tornerà più. Ho ancora un VHS del TG1 condotto da Paolo Fraiese, la prima notizia parlava di Ronald Reagan, la seconda di Claudio Terruzzi che aveva vinto la tappa della Dakar. Ricordo gli striscioni in via Padova a Milano con scritto bentornato Claudio… All’epoca i piloti si perdevano e non si trovavano più, di molti non si è più saputo nulla: smarriti nel deserto per sempre. Oggi con il navigatore è tutto più facile, tutto più sicuro, quasi noioso: meglio fare una gara d’enduro“ .

Nel 1989, Terruzzi lascia la Honda e passa alla Cagiva. La squadra con con Terruzzi, Orioli, De Petri e Picard, forma un gruppo potenzialmente vincente ma una serie infinita di problemi meccanici e di eccessivo deterioramento delle gomme tormentano le moto, la terza partecipazione di Terruzzi alla Dakar non lascia tracce degne di nota.
Oggi a quasi 30 anni dalla sua ultima partecipazione alla Dakar, nonostante nel frattempo sia diventato un manager di successo, amministratore delegato di una società all’avanguardia che fornisce servizi per il miglioramento della qualità ambientale, non ha affatto dimenticato la sua innata passione per le corse di enduro e per il mondo che le circonda.

Fonte: http://www.lagobba.it

Henno Van BergeiJk a Dakar su una XT500

Quando si cerca di trovare l’avventura…nell’avventura la citazione è praticamente d’obbligo.
Era il 2006 quando un pilota olandese, HENNO VAN BERGEIJK, si mise in testa di partecipare alla Lisbona-Dakar (quell’anno si partiva dal portogallo) su una moto preparata interamente da solo.
E fin qui nulla di strano, se non fosse che la moto con cui decise di partecipare alla più dura competizione nel deserto era una vecchia Yamaha XT500!

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Ad occhio la moto si presentava molto simile alla versione che partecipò nei primi anni 80, salvo la forcella anteriore (di tipo a steli rovesciati) e il freno a disco anteriore…la sicurezza prima di tutto.
Per il resto, dal motore, ai doppi ammortizzatori (a gas) posteriori, ricalcano la configurazione base.
Ovviamente le velleità non erano quelle di raggiungere le vette di alta classifica, ma dimostrare la bontà del mezzo e la possibilità di raggiungere il traguardo con un mezzo, ai più considerato “obsoleto”.
Hanno raggiunse il traguardo…in ultima posizione, ma a distanza di anni, la sua impresa è rimasta nella memoria degli appassionati di avventura.

Lisbona: da qui parte la mia Dakar 2007 by Carlo Alberto Migliazza

Sono arrivato in aereo, con Ada e Antonella, il primo gennaio, per passare qualche giorno in loro compagnia e visitare la città, ed il giorno 5 è arrivato il camion con le moto e sono arrivati anche Massimo Chinaglia e Paolo Turci con famiglia. Ci siamo trovati al porto, nello spazio appositamente destinato allo scarico dei mezzi. In tale occasione faccio conoscenza con Ronconi, accompagnato dal grande Franco Picco, e con Muratori. Incontro anche Lorenzo Buratti, già conosciuto in occasione del Faraoni 2003.
Scaricate le moto, si prepara la cassa e si sistema il resto del bagaglio da portare in hotel. La mia cassa al peso è di 50,80 Kg.(limite 50 kg.) ma mi danno l’ok per il carico. Consegno anche le due ruote. Ultimi controlli della moto e poi qualche foto ricordo del “trio”.
Ricaricate le moto sul camion si torna in hotel. Il giorno 5 ci troviamo molto presto per scaricarle e prepararle per le verifiche. Ci presentiamo al cancello di entrata. Davanti a noi alcune moto di americani. La prima considerazione che ci viene in mente è che hanno speso più di noi già solo con il viaggio di avvicinamento a Lisbona!! Poi entriamo, parcheggiamo la moto sulla sinistra del piazzale, lungo il muro di cinta. Accediamo al capannone delle verifiche amministrative.

Mi accompagna anche Ugo, un amico di Vigevano che con entusiasmo mi ha voluto seguire fin qui: commovente. Io e Bubix passiamo insieme tutti gli stand e facciamo timbrare la ns. fiche: licenza FMI, documenti personali e moto, gps, sentinel, balise, medici, telepass autostrada, foto, ecc.ecc. Impieghiamo circa due ore.
Alla fine io rientro e chiedo di avere due pass, per Ada e Antonella. Le chiamo, quindi, al telefono, e mando Ugo a portare loro i pass. Dopo qualche minuto eccole al mio fianco, mentre inizio le verifiche tecniche. Si comincia con la strumentazione di navigazione.

Una antenna gps non funziona!! Poi il tecnico scopre che è colpa della prolunga. Torno allo stand della ERTF e ne acquisto una. Inoltre c’è un corto circuito provocato da qualche cosa. Ancora una antenna che ha una parte del cavo scoperto.

Basta un po’ di nastro e tutto è risolto. Resta ancora un piccolo problema: la batteria tampone del gps ha un filo staccato. Posso comunque sistemarlo in seguito. Il tecnico del Sentinel mi verifica il montaggio ed il funzionamento del sistema e lo approva. Si passa ora alle verifiche tecniche. Ada e Antonella mi seguono. La piccola mi sta sempre vicino e fa molte domande. Non a tutte do risposta, concentrato a vivere tutti i momenti di questa avventura. Comunque Ada si dimostra felice ed eccitata. E anche Antonella mi sembra a suo agio. Io mi sento bene, sono tranquillo e mi sto godendo questo “sogno” ad occhi aperti, ed averle al mio fianco è molto importante.
Si fa avanti Valeria Arnoldi, della Acerbis, partner italiano della ASO, e molto gentilmente chiede se abbiamo bisogno di qualche cosa o se va tutto bene. Poi viene a salutarci anche Franco Acerbis che ci raccomanda di andare forte…piano. Entriamo nel capannone. Prima cosa, adesivi con numero!
Ora sono proprio alla Dakar! Poi consegno ad un incaricato la giacca per l’apposizione del pettorale. Mi avvio, intanto, dal Commissario Ferretti. Veloce, controlla il dovuto.
Nessun problema. Faccio vistare il casco, due per l’esattezza. Ho timore che quello nuovo mi faccia male e così ne ho portato uno di scorta. Alla fine c’è lo stand della Elf e della Loctite, poi si esce per la foto con la moto e quindi si lascia la zona verifiche per portare il mezzo al parco chiuso.
Il tragitto è obbligato e si deve passare su un piccolo podio, simile a quello di partenza, dove ci si deve fermare e lo speaker annuncia il tuo nome, nazionalità e moto. Quindi si mette la moto in parco chiuso, ricavato in un giardino della zona.
La folla ti guarda come se fossi un grande campione!! Ci riuniamo tutti e tre nei giardini, con le famiglie, e quando il gruppo è completo ci avviamo verso una pasticceria per una merenda rilassatrice. Poi noi piloti torniamo in hotel per riposare, mentre le famiglie proseguono la visita della città.
In hotel sistemo tutta la documentazione che mi è stata consegnata ed anche l’abbigliamento per il giorno dopo. Poi un breve pisolino e quindi esco con Lorenzo, che alloggia nel mio stesso hotel (Real Parque), per andare al “El Corte Ingles”, centro commerciale, ad acquistare le ultime cose. Oltre a qualche biscotto per la colazione del giorno dopo, acquisto uno specchietto, che mi mancava nella dotazione di sicurezza, e una memoria SD per la macchina fotografica.
Prima di cena si va ancora a Belem per il briefing pre-gara. Parla Etienne Lavigne e poi prosegue David Castera. Briefing generale e di benvenuto. Una presentazione, più che altro. Bei filmati. Castera dice che la tappa di domani presenta una speciale molto difficile e dura, molto più dura di quella dell’anno precedente. Si comincia bene.
In serata ceniamo tutti insieme in un ristorante del centro. A letto presto, domani ci si deve alzare alle cinque.
TAPPA 1 – LISBOA – PORTIMAO
KM.: TRASF. 115 – SS 117 – TRASF. 260

799Quando suona la sveglia salto subito giù dal letto: è il gran giorno!!
Ada e Antonella dormono; io mi preparo cercando di non svegliarle. Ritorno con la mente alle altre volte nelle quali, in Egitto, mi preparavo, in hotel, alla partenza del primo giorno. Ora la gara è decisamente più importante, è la più importante. Un bacio alle mie donne e poi giù in reception. Insieme e Lorenzo Buratti prendiamo un taxi ed andiamo all’hotel di Bubix Chinaglia e Paolo Turci. Ci incontriamo con i ragazzi del camion ai quali lasciamo la nostra borsa dell’abbigliamento che deve tornare in Italia. Quindi andiamo verso la zona di Belem, alla partenza.
Vi arriviamo verso le 5,30 e la folla già riempie ogni zona. Facciamo colazione in un bar e la gente ci ammira e ci rimira: per loro ogni pilota, soprattutto moto, è un idolo.
Un paio di foto e ce ne andiamo verso il parco chiuso anche se ancora non vi si può accedere. Arrivano anche Paolo e Bubix.
Telefono ad Antonella perché la folla sta crescendo e ho timore che non riusciamo ad incontrarci e che non trovi posto per assistere alla partenza. Eccole che arrivano: un grande abbraccio a tutte e due.

All’ora prevista si entra al parco chiuso. Emozione. La mia moto. Ciao bella.
 Andiamo. In coda per uscire dal parco ed andare verso il podio di partenza. E’ ancora buio ed i giochi di luce sul palazzo che fa da sfondo sono molto suggestivi anche per noi.

Lo speaker annuncia i nomi dei partenti a gran voce. La folla acclama. Ci mettiamo in coda davanti alla salita al podio. Finalmente è il nostro turno. Saliamo tutti e tre, il Team al completo. Grande emozione. Un momento tanto sognato. Stretta di mano con i rappresentanti della ASO e si parte. Scendo dal podio e cerco con lo sguardo le mie donne. Eccole! Ma sono dall’altra parte della strada. Mi salutano. Io non posso fermarmi. Temo di scivolare sull’asfalto viscido ed inoltre gli altri sono andati avanti. Le saluto e mando loro grandi baci! Vado.
Ali di folla lungo tutte le strade della città, sui ponti, all’entrata della autostrada. Sopra ogni
ponte ci sono persone che ci salutano. Eccezionale la passione per questa gara qui in Portogallo. Dopo 115 km. Io e Bubix arriviamo allo start della speciale. C’è moltissima umidità. Arriviamo con un paio di minuti di ritardo e quindi entriamo direttamente in prova speciale. Ci avevano detto che tale prova sarebbe stata dura, ma dura così proprio io non me la aspettavo! Sapevo che l’inizio era sabbioso, ma confidavo nella terra dura, dopo qualche chilometro. Invece i chilometri passavano e si continuava a guidare ed a faticare in un sabbione nero infernale. Un vero incubo!

Digital Camera

Digital Camera

Due moto ogni 30 secondi. La pista è affollata. Trovo Bubix fermo con la moto spenta. Mi fa segno di andare. Poi mi passa Paolo. Il fondo è pesante e difficile: preferirei avere cordoni di dune da passare che questo terreno infido. Devo percorrere 117 km.!! Dopo soli 5 km. appoggio il piede destro e “trac” grande colpo e rottura certa del legamento crociato. Bene, se stasera si gonfia vado a casa domattina. Ci voleva proprio. Da lì in poi ogni volta che appoggio il piede destro sento tutto muoversi ed accuso distorsioni al ginocchio. E quindi tutto si fa più difficile. Il percorso è completamente sabbioso ed è tutto contornato dal pubblico, migliaia di appassionati che hanno dormito lì per assistere al ns. passaggio.
Devo tenere duro e arrivare in Africa e poi tutto cambierà. Lentamente, molto lentamente, i km passano e mi avvicino alla fine della speciale. In certi momenti vorrei ritirarmi. Sembra impossibile arrivare in fondo. Poi mi avvicino ad un concorrente che è caduto: Ennio Cucurachi! Se lui, che ha corso un mare di Dakar e ne ha anche portate a termine alcune, ha gli stessi miei problemi, allora vuol dire che è veramente dura! Riprendo fiducia e proseguo verso fine tappa.

Appena passato l’arrivo mi fermo a prendere fiato ed a riposare un po’. Rifletto. Sono un po’ abbattuto. Pensavo ad un inizio meno traumatico. Entro in autostrada e mi fermo al primo distributore. Faccio il pieno e chiamo Bubix. E’ già a Portimao! Ci sono 260 km. Via. Arrivo verso il tramonto. Trovo Massimo alla zona “casse moto”. Due chiacchiere sulla tappa dura. Dice che è stata tale anche per lui. Mi consolo. Ho già un piccolo problema: si è tranciato il punto di attacco, sul telaio, del paramotore. Sistemo il tutto con una strop ed alcune fascette. Poi due sistematine alla moto e mi cambio per andare in hotel. Si va a cena con Paolo, Bubix e Lorenzo. Il mio ginocchio non si è gonfiato, Meno male. Faccio alcuni esercizi di isometrica per tonificare il muscolo. Chiamo casa. Le mie donne sono entusiaste. Anche io, a parte tutto. Sono alla Dakar, non mi sembra vero. Dopo una buona cena andiamo a nanna. Domani ancora tanti km. Ma la speciale dovrebbe essere di tipo più “europeo”. Speriamo.

TAPPA 2 – PORTIMAO – MALAGA
KM.: TRASF. 15 – SS 67 – TRASF. 425

Sveglia, colazione e recupero l’abbigliamento moto, che era sul camion, trovandolo, purtroppo, ancora abbondantemente umido. Nel cassone non si è asciugato nulla, pazienza.
Ci facciamo portare dal camion al parco chiuso e convengo con l’autista che mi aspetti al primo distributore dopo il via del trasferimento, per cambiare la ruota posteriore. Voglio installare addirittura il Desert, visto che ora ho un Michelin Baja, per non rischiare di non incontrare più il camion e dovermi fare le tappe marocchine con un pneumatico inadatto. Vado alla moto, e scambio due parole con i Tilliette e con Cucurachi.
800Parto dal podio di Portimao verso le 8,30. Percorro una rotonda, arrivo alla prima curva a destra, mi accorgo che la curva è all’ombra ed è bagnata… non sarà scivolosa? “Patatrac” scivolata incredibile!! Non ero mai caduto su asfalto! Mi rialzo, nulla di rotto, tranne i pantaloni. La moto è dall’altro lato della strada. Chiamo ragazzi che stanno passando e mi faccio aiutare a sollevare il bolide. Un rapido sguardo al tutto. C’è solo qualche piallata al paracoppa ma niente che non vada. Meno male! Sono un po’ scosso. Avevo bisogno di riprendere fiducia con la moto e con me stesso e questo non è il modo migliore… Riparto verso l’appuntamento per il cambio gomme. Arrivo al primo distributore ma del camion neppure l’ombra. Aspetto dieci minuti e poi decido di ripartire.
Al secondo distributore ecco il camion: non avevano trovato spazio per sostare al primo!!! Cambio in un attimo la ruota e via, verso la speciale.
Ore 9.30 – Parto per la mia seconda speciale alla Dakar. Questa si rivela subito con caratteristiche europee, direi tipo “Sardegna”. Avevo proprio bisogno di un terreno così, che mi permettesse di riprendere il giusto feeling. Bel percorso: salite e discese, guadi e strade sterrate, curve cieche e tornanti.
Uno dei guadi è veramente profondo. La moto si impunta un po’, ma non si ferma. Meno male. Invece Bubix rimane fermo a metà, perché il Gilera si spegne.
Dopo ca. 67 km piacevoli ecco il traguardo. Sono felice. E’ andata bene, ho ripreso la giusta sensazione di guida. Il vincitore di tappa, Rodrigues, ha impiegato 1h02min, io 1h30min. Considerando che ho usato tutta la prudenza possibile per non fare cavolate compromettenti, va più che bene. Entro in autostrada e mi fermo alla prima stazione di servizio. Mi ritrovo con Bubix, Paolo e Lorenzo. Mangiamo qualche cosa, facciamo il pieno e ci prepariamo. Abbiamo da percorrere ca. 425 km. per arrivare al porto di Malaga ed imbarcarci per il Marocco.
Stiamo preparandoci quando… Paolo va! Non lo riprenderemo più fino al porto di Malaga. Noi tre, invece, viaggiamo insieme. Facciamo un paio di soste, per il carburante. I ponti della autostrada sono stracolmi di gente che ci saluta! E’ veramente una situazione unica da vivere. Anche nelle stazioni di servizio veniamo attorniati da appassionati che chiedono di fare una foto, oppure di potersi far fotografare vicino alla moto. Finalmente arriviamo a Malaga. Al primo
distributore ci fermiamo e laviamo la moto, aspettando Paolo e gli altri. Quando arrivano ci dicono che ci aspettavano alla stazione precedente, l’ultima della autostrada! Bubix cambia la ruota posteriore e poi ci avviamo verso il porto.
UN MARE DI FOLLA CI ASPETTA!!! Sembra di essere al Tour de France! Passiamo al minimo, tra la gente, per km e km. Ci chiedono foto, autografi e perfino di toccare i bambini! Hei, penso, non sono mica il Papa! Ho pagato per correre! Sensazione unica e bellissima che mi rimarrà per sempre. Entriamo al porto e ci fermiamo al controllo passaporti. Trovo Walter Fortichiari, della Acerbis, che mi da alcune indicazioni sul da farsi. Ci vengono offerti prodotti tipici spagnoli e poi ci si mette in coda per salire sul traghetto. L’attesa è un po’ lunga, ma finalmente si sale.
Siamo in cabina io, Bubix e Paolo. Molto bene. Bello ritrovarsi a bordo del traghetto nel quale tutti sono piloti o assistenze! Doccia, cena, timbro passaporto (coda…) e… nanna.
Domani si sbarca in Africa! Era ora. Inizia la vera Dakar.

TAPPA 3 – NADOR – ER RACHIDIA
KM.: TRASF. 205 – SS 252 – TRASF. 191

Sveglia presto, alle 6.43 parte il mio trasferimento. Appena sceso dal traghetto mi accorgo che ho l’anabbagliante ed i due faretti supplementari posteriori bruciati. Devo subito provvedere altrimenti vedo poco ed inoltre rischio non mi facciano partire per la speciale. In più il paracoppa si è crepato e da una parte perde acqua. Me ne procuro una bottiglia per riempirlo poco prima del via della speciale così, in caso di controllo da parte dei Commissari, risulta pieno. Verso la fine del trasferimento si entra in un villaggio per fare benzina. Al primo distributore c’è coda quindi decido di cercarne un altro. Il successivo ha solo benzina normale, vado avanti e ne trovo uno con la super. Siamo in quattro o cinque, tra i quali vi sono i Tilliette, padre e figlia. Ritorno al primo distributore e faccio segno a Paolo di andare al successivo, poi via, verso la fine del trasferimento. Arrivo con anticipo e mi fermo un po’ in disparte. Controllo l’acqua nel paracoppa: effettivamente l’ho persa tutta. Speriamo non mi serva veramente. Inserisco quella della bottiglia che mi sono procurato. Provo anche a stuccare la crepa. Vedremo stasera se ha tenuto. Sono un po’ teso. E’ la partenza della prima vera tappa della Dakar, in Africa. Lo start viene dato su una strada sterrata e pietrosa in salita.
801Si avvicina il momento del mio via, alle ore 10.18. Finalmente tocca a me, assieme all’americano Kay. La pista è tortuosa e in salita.
Molti sassi anche grossi. Al km. 4.65, in una curva a sinistra, scivolo stupidamente e la moto mi cade sulla mia sinistra, non prima di aver dato una grossa sbandata a destra, con relativa forte distorsione al ginocchio già malconcio. Dolore fisico. Mi fermo un minuto, faccio segno a chi sopraggiunge che sono in mezzo alla pista e poi rialzo la moto. Arretro verso lo slargo della curva e metto la moto sul cavalletto. Ho rotto la leva del cambio. Giù le chiavi e cambiare. Si comincia subito bene. Dopo una decina di minuti riparto, ma nel frattempo mi hanno passato tutti i concorrenti moto partiti dopo di me. Al km. 6.28 esco su un altopiano e vedo che tutti quelli avanti a me, dei quali posso vedere la polvere, vanno verso sinistra. Secondo me è sbagliato ma decido di fare qualche chilometro per esserne sicuro. Dopo sette o otto km sto correndo al fianco di un inglese, Dickinson, partito circa 15 minuti prima di me. L’ho già ripreso!! Allora qualcuno riesco a lasciarlo indietro!! Decido che è la strada sbagliata e lo faccio capire all’inglese che è d’accordo con me. Torniamo indietro e troviamo la pista giusta. Abbiamo percorso una quindicina di km in più e perso almeno quindici minuti. Dopo un po’ arrivano le auto! Di già?!?! La prima parte mezz’ora dopo l’ultima moto. Il percorso è bello, largo, non troppo pietroso, abbastanza “roulant”.
Ad un certo punto scorgo una moto ferma… E’ BUBIX!! Ha perso acqua da un manicotto del radiatore e il motore fuma abbondantemente. Estraggo la mia tanichetta pieghevole e la cannuccia e cavo l’acqua dal paracoppa, circa 1,5 lt. per rabboccare il Gilera. Si riparte. Nel frattempo ci passano un tot di moto… peccato. Molti oued. Alcuni anche molto accidentati e “cementati” per permettere il passaggio. In vista del CP1 rifornimento ( Km. 113 della speciale) ritrovo ancora fermo Bubix ( che nel frattempo mi aveva … perso) che ha rotto la specula dell’olio oltre al tappo del serbatoio olio. Pensiamo un attimo come risolvere e poi lui decide di utilizzare uno straccetto con dello sterco come tappo. Arriviamo insieme al CP1, facciamo rifornimento ed inseriamo la seconda parte del road book. Arriva anche Barbezant, con la sua 125. Ha rotto il motore e si deve ritirare. Io timbro alle 13.29 e Bubix alle 13.31 ( partito alle 10.09).

Ho percorso i 113 km. in 3h21min. !! Considerato che ho perso tempo per 1) sostituzione pedale cambio – 7/8 min. 2) pista sbagliata 12/13 min. 3) prima sosta con Bubix 9/10 min. 4) seconda sosta con Bubix 7/8 min. TOTALE: 36/39 min. – Tempo stimato senza soste: 2h45 minuti circa.

Ripartiamo. Ci sono ancora da percorrere circa 140 km. Il percorso rallenta e peggiora parecchio. Bubix va avanti. Io vado tranquillo. Voglio arrivare a fine tappa senza ulteriori problemi. La luce inizia a calare. Faccio due conti e … purtroppo capisco che arriverò col buio. Già alla prima tappa! Speriamo che i fari facciano una buona luce, sarà una prima verifica. La luce che si abbassa all’orizzonte, proprio davanti a me, mi impedisce di vedere bene e devo rallentare ulteriormente. Sono ormai a pochi km dall’arrivo, forse una decina, ed ecco ancora Bubix fermo, sulla sinistra della pista. Mi fa cenno di proseguire e si dice certo di poter finire la speciale. Bene. Ancora qualche km. e, finalmente, appare il lampeggiante di fine tappa. Gli ultimi km li percorro al buio, con la luce riflessa, ma è meglio che non con la luce diretta, che mi accecava. Passo l’arrivo e mi fermo per aspettare Bubix.
Io finisco alle 17.33, con un tempo di 7h15min. Bubix arriva alle 17.40 con un tempo di 7h31 min.
Smontiamo il serbatoio del Gilera e nastriamo il manicotto che perde acqua. Poi ci prepariamo e partiamo per 190 km. di trasferimento su asfalto, per raggiungere Er Rachidia.
Viaggiamo veloci a 120 kmh. I fari vanno bene, per fortuna. Dopo circa 2h30 arriviamo all’aeroporto della città di Er Rachidia. Facciamo benzina, piazziamo la moto, piantiamo la tenda, ci cambiamo ed andiamo a cena. Al bivacco della Dakar, che è veramente immenso, si mangia molto bene. Bubix (già 3 Dakar alle spalle!) mi guida alla scoperta del bivacco. Dopo cena facciamo manutenzione ai mezzi.
E’ la terza tappa e decido di cambiare l’olio. Qualche altra cosuccia da fare e poi do una mano a Bubix. Quindi, finalmente, a nanna.

TAPPA 4 – ER RACHIDIA – OUARZAZATE (FOUM ZGUID per le moto)
KM.: TRASF. 96 – SS 405 – TRASF. 178 (solo per auto e camion) – TAPPA MARATHON

La tappa di oggi è marathon. Non ci sarà neppure l’aereo e quindi niente casse. Occorre fare molta attenzione. A fine tappa non avremo attrezzi e ricambi.
La partenza della mia “liaison” è fissata alle 6.58.30- Quella di Bubix 30 secondi dopo. Al via i Commissari danno una “pennellata” di arancio ai mozzi, per poter controllare che nessuno cambi le ruote. Dopo 96 km. Di trasferimento prendo il via per la prova speciale alle 8.33.30.
Fino al CP1, Km. 230, posto di rifornimento, la pista è varia, a volte veloce e larga a volte stretta e sassosa. Timbro alle ore 13.37. Turci alle 13.24 e Bubix alle 13.36.
Quindi tutti in un fazzoletto. Poi ancora una buona pista, con piccole dune, fino al km. 296. Qui inizia un erg. 15 km. Fino al CP2, posto nelle dune, e poi altri 5 km. Sembrava un erg da poco ma, già all’entrata, si capiva che non era così. Vi erano auto e moto ferme un po’ ovunque. Auto che fumavano nero, moto insabbiate con piloti spossati. Ho rivisto scene guardate tante volte nei DVD di precedenti Dakar! Ora ero lì anche io e dovevo cavarmela.
802All’entrata dell’erg arrivo mentre Bubix si insabbia. Mi fa segno di proseguire. Nel contempo arriva anche Paolo e si insabbia pure lui. Io passo largo a sinistra, vado per un po’, ma poi… anche io resto piantato! Ci diamo una mano a vicenda. Qualche minuto e riparto. Proseguo e passo alcune dune di seguito.
Sono felice. Sto guidando bene. Faccio attenzione per passare fuori dalle tracce, in modo da trovare terreno più portante. Ad un certo punto mi pianto quasi alla sommità di una dunetta. Viene ad aiutarmi un tedesco che ha rotto il motore proprio lì. Proseguo bene fino a quando le dune si avvicinano tra loro in modo incredibile. Cado e la moto si mette in una posizione pessima, con le ruote a monte. C’è un altro motociclista fermo sulla duna di fianco. Mi chiede aiuto. Io specifico che lo aiuterò ma che poi lui dovrà aiutare me. Tiriamo a galla la sua moto e poi facciamo lo stesso con la mia. Lui soffre di mal di schiena e… ha anche una certa età!! 65 anni!! E’ uno scozzese, Robbie Allen, che di solito scorrazza sull’Isola di Man! Un pazzo, insomma. Riparto e dopo un po’ sopraggiunge Paolo. Dopo qualche duna fatta insieme, io cado. Gli chiedo aiuto e lui mi urla che non può lasciare la moto e che devo fare da solo. Grido che non ce la posso fare… nulla. Paolo dice che non mi può aiutare. Ok, Ci riprovo e riesco a sollevare la moto e a riprendere la corsa. Dopo una duna cade Paolo. E’ in una posizione pessima. La ruota posteriore gli schiaccia il piede sotto la sabbia. Mi chiama. Io sono messo male, ma alla seconda chiamata… pianto la moto sulla cima di una duna e scendo ad aiutarlo. Gli indico di uscire a destra che è meglio. Dopo un paio di cordoni arriviamo al CP2. Chiedo come sia il terreno a venire: “Plus porteuse” La sabbia dovrebbe essere più portante, secondo il Commissario. Non sarà proprio così. Ci sarà da sudare ancora parecchio nei successivi 5 km.
Poi, finalmente, si esce dall’erg. Che fatica. Sono spossato. Faceva caldo ed ho bevuto tutta l’acqua. Ho chiesto a Paolo di fermarsi al CP per bere, ma mi ha detto che stava per fare buio e bisognava uscire prima, quindi nessuna sosta. Ora, fuori dall’erg, sembra di aver finito, ma non è proprio così. Per 7 km. Si deve attraversare della vegetazione fuori pista con piccole dunette molto fastidiose. Prendo a sinistra e dopo un km. Circa mi accorgo che non ci sono tracce. Sono solo e le auto che vedo passano alla mia destra, lontano 500 metri. Non sono sulla pista giusta. Sono senz’acqua e sta per fare buio. CADO! Devo tirare su la moto, in qualche modo. Faccio una fatica incredibile, ma la alzo. Poi torno sulle mie tracce fino all’uscita dall’erg, dove avevo incrociato una grossa pista. La imbocco e vado nella direzione opposta, verso la zona dove passavano le auto. Ecco finalmente l’uscita dalla vegetazione! Arrivo al km. 323, dove la pista gira verso cap 300, e mi fermo. Riprendo fiato e fermo un paio di auto per avere acqua. Poi riparto.
Sta per fare buio e mi mancano circa 80 km. Che faccio? Mi fermo e mi ritiro? No, una rapida scorsa in avanti sul road book e noto che la pista non presenta dune, quindi ci provo. Si va. Tranquilli, per non fare cazzate, ma si va. Piano piano cala la notte. Veramente un buio pesto. I fari della moto fanno un buon lavoro, vado a 50 kmh, circa. Forse meno. Non è un problema di tempo, voglio solo tentare di arrivare. Ogni tanto mi passa un camion. Tali passaggi sono utili per due motivi. Mi danno sicurezza sulla pista che sto seguendo e illuminano a giorno per qualche secondo la zona. Tuttavia, dopo essere stato sorpassato, devo stare fermo un paio di minuti perché la sospensione di polvere sollevata mi impedisce di vedere a più di un metro. Comincia a far freschino, ma va bene così. Passo oued sabbiosi, zone sassose, ritrovo i punti noti da road book e pian piano i km scorrono.

Oriento lo specchietto retrovisore per far si che rifletta la luce dei fari verso i trip, così da vedere i chilometri che sto percorrendo e tenere sotto controllo il percorso segnalato sul road book.

Vedo alla mia sinistra, lontano, due fari di moto. Sarà Paolo? Sarà Bubix? Cerco di avvicinarmi ma potrei sbagliare pista, potrebbero anche essere locali e quindi è meglio restare dove sono, sulle tracce dei camion. Finalmente da lontano scorgo il lampeggiante di fine tappa!! Arrivo eccitato alla tenda dei Commissari. “Bravò” Mi dicono. Sono le 20.56! Paolo è arrivato alle 19.39. Si è lanciato, nella parte finale, dietro ai camion, a manetta, assieme ad un americano. Chiedo se ci sia ancora qualche moto in giro e mi dicono che ce ne sono ancora una trentina! Ora, penso, vado da Bubix e gli dico: “Visto che ce l’ho fatta?”. Faccio il pieno, porto la moto al parco chiuso e vado al bivacco. Siamo a Foum Zguid e il campo è solo per motociclisti. Bellissimo.
803Mi accoglie un ragazzo dell’organizzazione che mi mostra dove trovo la zona ristoro. Mi da un sacco con un asciugamano, una felpa, un paio di calze e delle ciabatte ed un sacchetto con il necessario per la pulizia personale. Poi mi mostra le docce. Trovo Paolo che mi dice che Bubix non è ancora arrivato! Inoltre mi dice di chiamare casa perché oggi è morto un motociclista sudafricano ed è quindi meglio farsi sentire. Antonella mi manda un SMS dicendo che ha visto che sono arrivato. Bene, allora è tranquilla. La chiamo e parlo anche con Ada, poi faccio una doccia e mangio qualche cosa. Mi danno un paio di coperte; vado a dormire, devo riposare. L’atmosfera è particolare. Alla esclusività del bivacco solo moto si mescola la silenziosità per rispetto al pilota che ha perso la vita.
Sono soddisfatto, ho fatto veramente un buon lavoro. Bubix, secondo le indicazioni di internet che mi ha dato Antonella, è fermo prima del CP2, in mezzo alle dune (guarnizione testa bruciata!). Mi dispiace. Un pensiero è anche per lui. D’ora in avanti la mia Dakar cambierà.

TAPPA 5 – OUARZAZATE (FOUM ZGUID per le moto) – TAN-TAN
KM.: TRASF. 170 (no moto) – SS 325 – TRASF. 280

Ho dormito bene, e molto. Sono ben riposato. Una volta pronto, alla apertura del parco chiuso, vado alla moto e cambio il filtro aria. Non guardo neppure la catena.
Parto per ultimo alle ore 8.35.30. Le oltre trenta moto che ieri sera ancora non erano arrivate… non sono mai giunte a fine tappa! Un brevissimo trasferimento e siamo al via di speciale. Il mio via è alle 8.55.30.
Dal Km. 18 le auto e le moto prendono una pista stretta, in montagna, mentre i camion ne seguono una più grande. Al km. 25, cìoè al CP1, si sale a sinistra, su una pista poco visibile, molto stretta e sassosa. Al CP1 io passo alle 9.37. Il mio tempo è di 41.50, mentre quello di Paolo è di 41.49!! Si passano tornanti e valichi. Le auto sopraggiungono presto e la cosa si fa seria. Per fortuna solo le prime mi raggiungono in montagna, poi le altre arrivano quando sono già sul piano.
804Al CP2, km. 55, ci si ricongiunge con la pista principale seguita dai trucks. La pista si trasforma in una strada sterrata molto veloce, per km. 20. Poi ci si rituffa in una pista stretta e sassosa. Moltissimi oued da passare.
Il porta road book smette di funzionare, devo girarlo a mano. Prima complicazione. La pista poi migliora e diventa abbastanza scorrevole, fino al CP3, dove si fa il pieno di carburante, al km. 179. Poco prima del CP entro un po’ forte in una compressione ed il trip ICO si spegne. Ulteriore problema. Ora non ho né road book né trip! Al CP trovo Paolo. Io timbro alle 13.17.22 in 4h21.52m Paolo alle 13.16.39, in 4h26,39. Gli chiedo di attendermi un secondo per andare via insieme, visto che non ho strumentazione. Iniziamo così la seconda parte della tappa. Resto ad una distanza di circa 200 metri da lui, che naviga per entrambi.Non faccio alcuna fatica a tenere il suo passo; la mia impressione è che potrei andare un pò più veloce di lui. Ma lui sta navigando, e forse questo fa la differenza. Ad un certo punto, però, il castelletto di supporto delle antenne GPS inizia a vibrare.

Capisco che si deve essere rotto uno dei supporti. Devo rallentare altrimenti, se si rompe tutto, si crea un grande problema. Per fortuna la pista non è malaccio e riesco a tenere un passo abbastanza buono. Verso fine tappa incrocio il camion di Chaguin cappottato. Sta arrivando l’elicottero per i soccorsi!! Poi trovo uno dei Tilliette con una ruota fuori uso. Continuo ed arrivo a fine tappa. Ore 16.47.35 in 7.52.05 – Paolo ha chiuso alle 16.44.04 in 7.54.04!! Sono stato davanti a lui di 2 minuti!! E’ la prima volta che gli finisco davanti in una speciale! Mando un SMS ad Antonella. Lei mi risponde subito. Ricevo anche un SMS dagli amici della JVD!! Mi fa molto piacere. Ci sono turisti spagnoli all’arrivo che scattano molte foto. Io e Paolo ci prepariamo con le cerate per ripararci dal freddo e partiamo per ben 280 km, verso Tan Tan. E domani si va in Mauritania!!
Il trasferimento è lungo. Asfalto si, ma il traffico è molto. Si passano un paio di cittadine. In una, Paolo mi perde. Impiego quasi mezz’ora a riprenderlo. Poi, finalmente, arriviamo a Tan Tan. Facciamo il pieno al distributore e via, verso l’aeroporto.
Arriviamo a fine tappa alle 21.00. Piazziamo le moto ed andiamo a cena, senza cambiarci. I ragazzi della ELF ci accolgono con caffè ed aiuti. Ci ricordano che domattina si parte molto presto e quindi è meglio cercare di dormire. Io però devo sistemare il road book, i trip ed il supporto antenne, assolutamente. Dopo cena inizio a lavorare sul supporto. Mi ci vuole circa un’ora. Il banco lavoro Elf è completo e così riesco a sistemarlo bene. Poi passo al trip. Sensore, trip, sensore, trip. Non riesco a capire quale sia il malfunzionamento. Poi, finalmente, sostituisco il trip Touratech con un altro della stessa marca e funziona. Nel frattempo Paolo se ne è andato a dormire. Magari un aiutino…
Comunque, finalmente, alle 1.45 smetto e vado a dormire sotto la tenda del ristorante. Mi spoglio e mi inserisco nel sacco a pelo. Ma l’adrenalina in circolo è molta e non riesco a prendere sonno. Mi appisolo ma non dormo veramente. Poi, verso le tre, il vento, che già mi aveva infastidito durante le manutenzioni, aumenta fortemente ed il tendone vacilla. I responsabili della ASO ed i locali ci invitano fortemente a lasciare questa zona e così, mentre si mette a piovere, raduno tutta la mia roba nel sacco a pelo e poi mi metto nella terra, in mezzo alle tende, a vestirmi. Vado all’interno della zona biglietteria dell’aeroporto. Vado al bagno a lavarmi la faccia per svegliarmi e mi vesto completamente. Poi mi reco alla tenda medica per farmi medicare le bolle delle mani e dei piedi. Preparo la moto e finisco di vestirmi.

TAPPA 6 – TAN-TAN – ZOUERAT
KM.: TRASF. 414 – SS 394 – TRASF. 9

Praticamente ho sonnecchiato solo per un’ora. Un po’ pochino, visto che la tappa sarà molto lunga ed impegnativa. Accendo la moto e scambio due parole con Paolo. Mi ricorda che devo far timbrare il passaporto. Torno all’ufficio polizia dell’aeroporto e faccio timbrare. Poi mi avvio verso lo start della tappa. Ho indossato la cerata, visto che piove e tira vento. Ho deciso, tuttavia, di lasciare nella cassa, che è sempre più stracolma, i copri pantaloni. Devo cercare anche di alleggerire un po’ il mio zainetto: pesa troppo. La mia partenza, insieme a Paolo, è per le 5,33. Arrivo al via con qualche minuto di ritardo, c’è caos, visto il tempo. Ci sono i controlli della strumentazione e della dotazione di sicurezza. Il mio Sentinel non ha alimentazione e così i tecnici mi mettono una batteria tampone.

807Finalmente parto. Dimenticavo… Il trip che ieri sera ho sostituito, stamattina non si è neppure acceso!!! Sono senza trip e con il road book che gira a mano. E la tappa è di 800 km.!! E Paolo non c’è più, è già partito! Parto seguendo un’altra moto, perché non si vede nulla. Nella prima mezz’ora è veramente un inferno. Non si vede oltre 2 o 3 metri. Devo stare agganciato a quello davanti, altrimenti non saprei dove andare. Piove e c’è un vento fortissimo, tale da dover stare piegato da una parte. Penso anche ad un ritiro, visto che pare più pericoloso questo trasferimento che tutto il resto della gara! Stringo i denti e comincio a pensare: se il tempo rimane così brutto, può anche darsi che riducano la tappa o la annullino o altro, e quindi proprio oggi è importante rimanere in sella! Inoltre la tappa segue a CAP 180 e quindi presto il tempo dovrebbe migliorare. Almeno quando si entrerà nel deserto, a Smara. Insomma, è una giornata nella quale ragionare è molto importante.
Mi fermo ad un distributore, piove forte. Faccio il pieno e poi sto qualche minuto nel bar, se così lo si può chiamare. Sono moltissimi i piloti moto fermi. Poi riparto mentre sta albeggiando. La strada è assolutamente diritta, verso Sud. Il sonno si fa sentire. Stamane non ho neppure messo le lenti a contatto e gli occhiali mi danno un po’ fastidio, perché si muovono. Cerco di pensare e di fare ragionamenti utili. Poi arrivo a Smara e vado alla stazione di servizio. Mentre attendo di fare il pieno mi si affianca l’Hummer di Gordon, una bestia incredibile. Si apre la portiera del copilota e Gordon stesso mi fa un cenno di saluto, stirandosi la pelle. Beato lui, ha fatto guidare il copilota, Andy Grider, ex motociclista alla Dakar, ed ha dormito. Io, invece, sono bagnato come un pulcino, perlomeno alle gambe, e sono assonnato, non poco.

Subito dopo il distributore, al km. 226, inizia il fuoristrada, e continua a piovere forte. Lo sterrato si è trasformato in un grande pantano e si scivola incredibilmente.

I Desert non sono propriamente pneumatici da fango!! Anche Giò Sala, il Grande, in una intervista dirà “Mai visto nulla di simile in dieci anni di Dakar”, mentre pulisce con una bottiglia di acqua i radiatori della sua KTM Repsol.
Rischio subito un paio di voli e quindi penso di ridurre la velocità e di fare molta attenzione. Oggi si entra in Mauritania e quindi è sciocco buttare tutto proprio ora. Basta arrivare a Bir Moghrein e poi si parte per la speciale. Cerco di seguire altre moto, perché sono sempre senza strumentazione. I chilometri passano. Mi fermo a dare delle fascette a Leblanc, un francese che ha problemi con il copertone. Poi trovo uno con un KTM 660 fermo in panne. Passano auto e camion. Finalmente, al km.321, arrivo al “muro”, la famosa frontiera tra Marocco e Mauritania. Ci sono i Caschi Blu. Mi fermo e loro mi chiedono di poter scattare qualche foto con me. Prego, fate pure. Anche un ufficiale vuole una foto. OK. Poi riparto e passo la frontiera. Occorre stare per forza sulla pista perché al di fuori è zona minata!
Nel frattempo la pioggia è quasi cessata. Il terreno è più consistente ed anche bello da guidare, ma il sonno comincia a farsi pesante. Gli occhi mi ballano e non riesco bene a tenere a fuoco le cose. E andando di questo passo, comunque, arrivo al rifornimento che è posto circa 4 km. prima della partenza della speciale, al km. 410.
Faccio il pieno e riparto. Arrivo così al km. 414, a Bir Moghrein e solo ora, quando vedo l’ora dello start, mi rendo conto che sono in ritardo e che le auto sono già partire da circa 5 minuti. Vado dai Commissari allo start e STOP – FUORI GARA! Mi dicono che non posso più partire perché il regolamento prevede che le moto possano prendere il via fino a 5 minuti prima della prima auto!! Non ricordavo questa norma o meglio pensavo fosse applicabile solo alla mattina, al via della tappa. Io dovevo partire per la speciale alle 12.08, assieme a Paolo. Sono arrivato alle 12.48. Le prime auto sono partite alle 12.45. Anziché andare a supplicare i Commissari di lasciarmi partire, mi metto in disparte ed inizio a darmi mille titoli (non onorifici). Poi mi siedo e…piango! La mia Dakar è finita…come no avrei mai immaginato: non ho rotto la moto, non mi sono fatto male, non sono rimasto vittima di un insabbiamento feroce e non mi sono dovuto fermare per il buio! E’ un modo un po’ strano per uscire di gara. Ma la Dakar è questo: situazioni incredibili che si creano dal nulla, eccessi di ogni tipo che sfociano in un problema inaspettato.
805Mi metto a parlare con un Olandese, Cor Karremans, con una Yamaha a due ruote motrici. Ha rotto il motore. Poi arriva un francese, n. 137 – Delaunay, che è si in ritardo, ma ha una deroga perché pare che una auto gli abbia provocato problemi alla moto e ASO gli abbia dato un bonus. Riparte. L’elicottero riporta dove sono io una moto di un americano, Hall, che si è fatto male poco dopo lo start della speciale ed è stato evacuato. Poi arriva Jean Brucy che molto gentilmente si interessa ai nostri problemi, da buon ex motociclista. Scattiamo una foto insieme.
Parlo con i Commissari e chiarisco che attendo il camion scopa. Loro mi dicono che se voglio posso continuare per la pista senza dune ed arrivare a Zouerat. No, aspetto il camion, nessuna voglia di guidare.
Una volta certo di essere fuori gara, telefono, con il satellitare, ad Antonella. E’ molto dispiaciuta e anche Lei, come me, pensa subito al dispiacere che proverà Ada quando lo saprà! Resterà delusa anche Lei. Spero di poterla consolare presto.
Adesso inizia l’attesa del recupero. Il tempo passa, partono tutte le auto, poi tutti i camion. Quindi i Commissari se ne vanno ed io rimango con l’Olandese.
Arriva la polizia locale che resta con noi per sicurezza. Poi arrivano gli amici dell’olandese. Lui se ne va con loro e lascia la moto. Io chiamo il PC Course per sapere quando arriverà il camion. Dicono che è a pochi km. da me. Sarà vero, ma arriverà solo a sera. In tutto il pomeriggio passato a Bir Moghrein le sensazioni, i pensieri ed i dispiaceri si susseguono e si concatenano. Non so quale prevalga. Ora penso che comunque ho fatto ciò che volevo. Poi penso che sarei potuto andare oltre e ormai avevo in vista, come obiettivo, la giornata di riposo; poi penso che è meglio così che non farsi male. Comunque è finita e so già che il pensiero del ritiro me lo porterò dentro per molto tempo. L’esperienza del Rally dei Faraoni 2003 mi brucia ancora ora, quando ci penso. Le occasioni, in queste gare, non vanno buttate, perché non si ripresentano.
La giornata era cominciata male, con la sveglia, se così si può dire, visto che non avevo dormito, sotto la pioggia. Sentivo che sarebbe stata una giornata decisiva. E così è stato. Peccato. Non si può sapere come sarebbe andata se fossi riuscito ad entrare in speciale. Saprò dopo che Turci ha terminato la tappa dopo le 8 di sera. Sicuramente sarebbe stata dura anche per me. Ma a questo ormai ero preparato e nei giorni scorsi me ne avevo dato prova. Peccato davvero.
La giornata è passata con questi orari approssimativi:
– Partenza della Liaison da Tan Tan alle 5.33 o qualche minuto dopo; 

– Sosta al primo benzinaio con breve tappa nel bar alle 7.00; 

– Rifornimento di carburante a Smara, mentre sta albeggiando, alle 8,30, quindi inizio della 
pista; 

– Passaggio del “muro”, frontiera Marocco- Mauritania, alle 10,50 (Paolo è passato alle 
10,30); 

– Arrivo a Bir Moghrein alle 12.48 circa (Paolo alle 12.00 ca.).

808Arriva il camion scopa, ormai è buio. Due battute con l’equipaggio e poi caricano la moto. 
Dalla cabina predisposta per i piloti moto esce un ragazzo che scoprirò poi essere Jakes, della Rep. Ceca. E’ rimasto in panne elettrica, l’avevo incrociato la mattina. E’ abbastanza provato e disperato. 
Dopo circa mezz’ora si riparte. Mangio qualche cosa che c’è sul camion e poi mi sistemo per dormire un po’. La notte la passeremo sul camion che percorrerà tutta la pista fino a Zouerat. 
Mi addormento. Durante la notte facciamo una tappa per caricare un’altra moto. E’ una Suzuki ed il pilota è Mark Verriest, belga. Ha bruciato la frizione. Anche lui è disperato. E chi non lo è? Il camion riprende la pista, sballottandoci senza sosta. Poi, mentre sta albeggiando, ci fermiamo nuovamente a caricare un inglese, Mike Extance, con una Honda. Lui non è disperato… piange addirittura. Ed è alla sua quarta Dakar!! Saprò poi che stava tentando di fare risultato ed era in 34^ posizione in classifica generale. Addirittura aveva ipotecato la casa per partecipare a questa Dakar!! Pazzo veramente!!

FUORI GARA
Finalmente si arriva a Zouerat, all’aeroporto. Ci scaricano ed il camion, con le moto, prosegue per Atar. Noi saremo portati appunto ad Atar in aereo. Trovo il Commissario Ferretti con il quale scambio qualche parola.
Mi fa bene. Mi rilassa. L’attesa non è lunga. In poco più di un’ora ci fanno salire sull’aereo dei Commissari e della ASO e ci portano alla città sede della giornata di riposo ed io… mi addormento.
Al mio risveglio, mentre guardo il deserto dall’oblò, Cesar, il tecnico della ERTF che conosco bene, ormai, dopo i vari Rally dei Faraoni, mi dice se sia meglio in aereo. Rispondo … no, era meglio in moto. La stessa risposta l’aveva data Brucy, il giorno prima, alla domanda se preferisse l’auto alla moto.
Dopo un paio d’ore si arriva ad Atar. L’aeroporto è decisamente più grande di quello di Zouerat, che era militare. E’ già pieno di aerei ed altri ne arriveranno ancora.
Giro un po’ per la parte centrale del bivacco, nella zona stampa, e poi faccio e ricevo alcune telefonate. Parlo con Antonella che mi dice che Ada piange e si dispera, inveendo verso i Commissari, secondo Lei colpevoli di non avermi lasciato partire per la speciale. Anche Antonella è dispiaciuta. Mi dice di star tranquillo e di pensare… alla prossima! Non scherzare, dico io. Ma nei miei pensieri la Dakar è ormai entrata prepotentemente. E non so quando ne uscirà. Poi parlo con Bubix, che è già a casa. Nel frattempo noto un giornalista che, accortosi di me che, ancora vestito da pilota moto, parlo italiano al telefono, aspetta che io finisca la telefonata. Mi dice di essere di Sport Italia e mi chiede come mai sia già arrivato ad Atar. Spiego il motivo. Lui si dice dispiaciuto, e dice che sta aspettando piloti italiani da intervistare. Io non sarò tra quelli.
Vado a cercare la mia cassa e pianto la tenda, vicino all’aereo cargo delle casse.

Mi cambio, e mentre lo faccio mi rendo conto che non indosserò più questo abbigliamento da moto. Sono triste. Qualsiasi sia il motivo del ritiro, è sempre un momento triste.

Poi inizio a girovagare per il bivacco. Vado al ristorante e trovo Mark Verriest, con il quale faccio una bella chiacchierata. Sta bevendo una birra. Mi dice che erano mesi che non ne beveva. Rispondo che lo stesso vale per me. Ci scambiamo idee e riflessioni e cerchiamo di trovare motivazioni valide perché i nostri ritiri siano più accettabili. Ridiamo, ci rendiamo conto che stiamo cercando scuse, ma va bene così. Questo ci fa stare meglio.
Nel pomeriggio cominciano ad arrivare i piloti moto ufficiali e poi, via via, tutti gli altri. Arrivano anche i vari italiani e, finalmente, Paolo. La tappa è stata accorciata di 170 km. di speciale, per via di una tempesta di sabbia.
Sono stati dirottati sull’asfalto. Questa era una buona occasione, peccato, davvero peccato. Ho buttato al vento una buona possibilità di arrivare alla giornata di riposo.
Paolo è molto stanco e pare che la sua moto non marci a dovere. Domani, giornata di stop per tutta la carovana, la dedicherà alla manutenzione completa del mezzo.
806Verso sera vado a vedere alla biglietteria per trovare un posto per il rientro. Parlo con un tipo che dice di avere due posti per il volo su Parigi del giorno 15. Do appuntamento allo stesso per la sera, per parlare anche con Mark. Eravamo d’accordo di cercare insieme il biglietto. Vado a cena con lui, poi torniamo alla biglietteria, perché Mark dice che il biglietto che mi hanno offerto è ad un prezzo molto vantaggioso, circa la metà di quanto chiede ASO. Così acquistiamo il ticket per Parigi. Poi giriamo un po’ per il bivacco, un’altra birra e poi a nanna.
I pensieri sono mille. Cerco di addormentarmi subito per allontanarli. Ci riesco, essendo ancora molto stanco per i due giorni precedenti.
Al risveglio, dopo una notte passata in tenda anziché in camion, mi assale subito il dispiacere. Mi sembra di essere al bivacco inutilmente, visto che poi non devo ripartire in gara. Vado a fare colazione e poi passeggio per il bivacco senza meta prefissata.
Do una mano a Paolo per la manutenzione della sua moto.
Durante la giornata ho occasione di scambiare due parole con tutti i piloti italiani presenti, oltre che con i meccanici. La “pattuglia” italiana riceve la “visita” della stampa; prima Judith Tommaselli, giornalista francese che, molto gentilmente, pone qualche domanda a tutti per pubblicare un articolo su Moto Sprint; poi anche di Sport Italia TV che invece si interessa solo dei
migliori connazionali, al contrario di quanto dovrebbe fare una TV del genere. Le storie dei privati sono, secondo me, sempre molto più affascinanti e cariche di sensazioni di quelle dei piloti ufficiali o di alta classifica. Chi fatica di più sente maggiormente lo stress e la difficoltà ed eccezionalità della gara che sta correndo.
Cedo a Capodacqua e Muratori le mie mousse di scorta. Riuscirò, però, a rimettere sull’aereo i cerchi solo la mattina successiva, visto che Euromaster ridà loro le ruote solo in quel momento. Paolo lavora tutto il giorno ed ha la cattiva sorpresa di trovare il motore senza un filo di olio, pur avendolo cambiato solo due sere prima, a Tan Tan. Se ne stupisce, c’è il dubbio che ne abbia messo poco. Questo dubbio lo attanaglia e partirà, da Atar, con la convinzione che il suo motore stia per abbandonarlo. Così non sarà, anche se dovrà ritirarsi circa 60 km. dopo la ripartenza, ma per un insabbiamento feroce, con azzeramento della batteria e conseguenti pedalate per avviare il mezzo.
Paolo ha passato tutta la giornata di riposo dicendo che era giunto al capolinea, che non ce la faceva più, che non sarebbe andato lontano. Insomma, non credeva più nei propri mezzi, fisici e meccanici. Strano, per come lo conosco io. Addirittura non pranziamo né ceniamo insieme, nella giornata passata ad Atar. Io non sono molto loquace, certo, ma lui è più orso del solito.
Durante la giornata ho modo di sentire un po’ tutti gli amici al telefono e di predisporre con Antonella il rientro da Parigi a Milano, con prenotazione dell’Hotel in Francia. Parlo al telefono con Ada, che si è un po’ ripresa dalla delusione, anche se piange ancora.
Dopo una notte di riposo, la mattina della ripartenza mi assale proprio la malinconia della gara. Vedo tutti i piloti che si preparano, che scaldano la moto e che fanno tutti quei gesti classici dell’ante tappa. Io, invece, vestito da turista, attendo l’aereo per Parigi.
Mi avvicino alle tende degli altri italiani. Muratori mi chiede il favore di “ritirargli” la tenda. Ma chiedo come fare, visto che è ancora piena di vestiti ed altro. Lui dice di piegarla a sacco e di buttarla così dietro le ruote moto, sull’aereo C130!!
797Così faccio. Poi chiudo la mia tenda, preparo la cassa, che ASO deve riportare a Parigi, con le ruote, e, con il mio bagaglio mi avvio verso lo start della “liaison” di giornata, appena fuori dall’aeroporto. Vedo sfilare tutte le moto, e il magone sale quando se ne sono andate tutte. E’ proprio finita, ora si torna a casa. Inizia l’attesa nella hall della stazione aeroportuale.
La coda si fa sempre più caotica. Incontro anche lo scozzese Robbie Allen con il quale ci eravamo aiutati nelle dune. Io e Mark ci rendiamo conto che c’è la possibilità di rimanere “a piedi” così ci diamo da fare allungando una mancia al tipo del check in. Cosa fatta. Il mio bagaglio viene “accettato” e noi usciamo sulla pista. Mi dicono di mettere il mio sacco sotto le ali dell’aereo, come fanno gli altri, ed io eseguo. Poi salgo e chiedo ad uno stewart se l’aereo faccia qualche scalo tecnico. Risponde di no, che va diritto a Parigi. Il volo fila liscio. Arriviamo in orario a Parigi e vado al ritiro bagagli. La sorpresa è che il mio sacco…non arriverà mai!! Come sia possibile, dopo che l’ho messo personalmente sotto le ali dell’aereo, non lo capisco. Vado all’ufficio bagagli e compilo un modulo, poi vado in hotel. Salgo in camera. Faccio una doccia e poi scendo al bar a mangiare un panino. Di tutta la mia attrezzatura ho salvato solo giacca e casco. Per fortuna. Tutto il resto perso: ginocchiere ortopediche, pantaloni, guanti, maglia, sacco a pelo, stivali.
Il giorno dopo riparto per Malpensa, non prima di aver richiesto ancora notizie del bagaglio all’aeroporto, senza ricevere risposte piacevoli. All’arrivo a Milano c’è Antonella ad attendermi.
Mi fa molto piacere. Mi è mancata molto, Ma l’ho sentita molto vicina. Molto più che non ai vari Rally dei Faraoni. Probabilmente anche Lei si è resa conto che questa è un’altra cosa. Più difficile ed importante. E più coinvolgente.
Talmente coinvolgente che posso senz’altro dire che la mia avventura alla Dakar proseguirà, presto, spero, anzi prestissimo!
E’ stata una esperienza veramente intensa, devastante, sia in senso positivo che negativo. La mente resterà focalizzata su questa avventura ancora per molto tempo. Oserei dire che sono rimasto stregato da questa avventura così dura, così impegnativa, così risucchiante. E per riuscire a liberarsi da questo vortice la prima cosa da fare è riprovarci, per arrivare a Dakar e bagnare i piedi nell’Oceano ed arrivare al Lago Rosa. Ora so che ci riproverò.
La mia passione per la Dakar era grande… ora è IMMENSA!!!
Carlo Alberto Migliazza – KTM Nr.91

Massimo Chinaglia – GILERA Nr.90
Paolo Turci – KTM Nr.89

Antonio Cabini: non c’è 2 senza 3!

Fedele al proverbio non c’è due senza tre Antonio Cabini, dopo aver portato a termine le due precedenti edizioni della Parigi-Dakar, è arrivato al traguardo finale della maratona africana anche nel 1991. In sella ad una Yamaha da lui stesso preparata il trentaquattrenne cremasco ha portato a quota sette le sue partecipazioni all’affascinante manifestazione in quanto si era presentato per la prima volta nell’84, fra i primi italiani; ci ha riprovato senza fortuna nei due anni successivi, è poi stato della partita come navigatore di auto nell’87 ed ha saltato solo l’edizione 88.

Si è concluso con molta soddisfazione la Dakar motociclistica 1991 di Antonio Cabini, «veterano» della corsa con all’attivo sette partecipazioni. Da privato con una Yamaha monocilindrica.

Stavolta, come già due anni prima, si è classificato al trentottesimo po-sto, un risultato magari non eccezio-nale ma sempre confortante per chi si presenta solo con un meccanico avio-trasportato e qualche cassa di ricam-bi su un camion.

È la terza volta consecutiva che raggiungi Dakar. È sempre una soddisfazione notevole a la prima volta è irripetibile?
«Effettivamente la prima volta ti regala emozioni proprio speciali. Nel mio caso, poi, io avevo inseguito quel traguardo per ben quattro volte senza successo e di conseguenza volevo proprio farcela. Quest’anno aveva l’incognita della moto, che avevo preparato io stesso, dopo che nelle due precedenti edizioni avevo noleggiato una moto ex ufficiale dalla Belgarda. C’era il timore di non riuscire ad arrivare in fondo ma tutto sommato è sempre andata bene e ce l’ho fatta nuovamente. La maggiore soddisfazione è stata raggiungere Dakar con un mezzo preparato in proprio.»

Hai incontrato maggiori o minori difficoltà rispetto al passato?
«Come percorso la Dakar ’91 l’ho giudicata più selettiva, più dura. Per quanto mi riguarda ho avuto problemi limitati e non mi é mai stata inflitta la forfettaria. Sono rimasto due volte senza benzina dopo aver sbagliato pista a causa di una limitata autonomia, ma soprattutto mi ha rallentato un’errata scelta della cassetta del fil-tro. Mi aspirava poca aria e non poteva usufruire di tutta la potenza. Purtroppo l’inconveniente non era più ri-medibile una volta partiti e mi sono rassegnato… sono i tipici inconvenienti di chi arriva a montare gli ultimi pezzi in fretta e furia, magari proprio il giorno di Natale.»

L’organizzazione ha aumentato le tappe marathon per favorire, a suo dire, i piloti privati. Ti è sembrata una scelta azzeccata?
«L’intenzione era buona ma i risultati non sono stati quelli promessi. I piloti ufficiali prima delle tappe marathon hanno la possibilità di farsi revisionare al meglio i mezzi e quindi difficilmente, a meno di cadute o particolari eventi sfortunati, incontrano poi problemi. Riescono poi a trovare il sistema di farsi lasciare sulla pista qualche pezzo da sostituire e all’arrivo, mentre noi dobbiamo arrangiarci col sacco a pelo, trovano sempre qualcuno che li fornisce di tende e altri comfort. In ogni caso se ripenso a due anni fa, quando non avevo il meccanico sull’aereo, stavolta per me é stata tutto sommato una Dakar sopportabile.»

Cosa più di tutto ti spinge ad affrontare questa maratona?
«È la sua diversità da tutte le altre gare che attira. È una gara dove non conta solo la classifica ma anche arri-vare in fondo, superare ogni ostacolo e traversia, ti gratifica anche senza le vittorie. Dopo una certa età si ha voglia di qualcosa di differente, di qualcosa che va al di là del risultato sportivo e in questo senso la Dakar è una delle poche, se non l’unica, che pud dare questo genere di sensazioni.»

Cosa trovi stupendo e cosa sconsiderato della manifestazione?
«Stupendi trovo i posti attraversati, i paesaggi, tutti luoghi dove difficilmente un semplice turista può arrivare, Trovo eccessivamente stressante la parte europea della gara, soprattutto prima del via. Tra verifiche, trasferimenti, passerelle e compagnia bella non si vede l’ora di arrivare in Africa, specialmente per i privati é una fase allucinante.»

Con gli sponsor riesci a pareggiare i conti o questa Dakar ti procura ingenti spese?
«Mi hanno aiutato la ditta lcas e la Top cuscinetti ma ovviamente bisogna integrare di tasca propria queste entrate per poter partecipare ad una Dakar. Per un privato del mio livello la spesa si aggira sui 50-60 milioni. Bisognerebbe forse cercare di coalizzarsi e limitare così le spese comuni. In questo senso mi dicono abbia svol-to un buon lavoro il team Assommato.»

Tra una Dakar e l’altra partecipi ad altre gare?
«Negli anni scorsi ci riuscivo. Ultimamente il lavoro mi assorbe troppo. Ho corso nei Rally di Sardegna, nel Trofeo Motorally, all’Atlas. Vengo dall’enduro e prima della Dakar mi cimentavo in campo regionale e nazio-nale.»

Nella prossima edizione ci sarai nuovamente?
«Non ho ancora deciso. Devo forse trovare qualche nuovo stimolo. La febbre dell’Africa, comunque, colpisce anche me e se quando corro non vedo l’ora che finisca in primavera ricomincio a sentirne la nostalgia. Ve-dremo.»

Intervista: Danilo Sechi

Hubert Auriol… “l’africano” Re della Dakar

Continuiamo a parlare di Dakar e dei suoi personaggi…. noi trattiamo di emozioni e tra i tanti piloti che hanno donato grandi emozioni vogliamo parlare di uno in particolare. Un pilota che forse ha regalato la più toccante emozione nel raid africano. Forse i più nostalgici lo hanno già capito, altri lo hanno riconosciuto dalla foto, lui è Hubert Auriol un centauro capace di eroiche gesta sportive e al contempo un grande uomo soprattutto per le scelte che ancora oggi sta portando avanti.

Auriol nasce ad Addis Abeba nel 1952, a 21 anni viene folgorato dalla passione per la moto avvicinandosi alle specialità del motocross e dell’enduro ma in seguito il suo cuore viene rapito, forse anche per il richiamo alle sue radici, dalle mitiche gare nei deserti africani diventandone un vero specialista tanto da meritarsi l’appellativo di “l’African” .

Hubert prende parte al suo primo Rally Dakar nel 1979, seconda edizione di questo evento, vincendolo poi per due volte in sella ad una BMW R80 GS nel 1981 e 1983. Nel 1992 colleziona il tris, questa volta non in sella ad una moto ma vincendo il Raid nella categoria auto con una Mitsubishi Pajero.
Sarà il primo pilota a vincere la Dakar nelle categorie moto e auto. E’ l’infausto destino che gli impone il passaggio alle auto. Durante la disputa della penultima tappa dell’edizione del 1987 della Dakar Auriol, in sella alla sua Cagiva e al comando della classifica generale, decide di prendere una scorciatoia lasciando la pista battuta. Questa decisione lo catapulta verso un maledetto infortunio: Hubert non si accorge di alcune radici di un albero investendole in pieno con i piedi, trovandosi così a terra con entrambe le caviglie “distrutte”.

Fortunatamente, viene trovato da un equipaggio in auto al quale chiede di rimetterlo in moto: Auriol percorrerà gli ultimi tragici 20 km della tappa con le caviglie rotte, senza poter cambiare marcia e cercando di domare la sua moto.

Una riflessione nasce spontanea: perché finire la tappa? Ti avevano trovato, potevano chiamare i soccorsi, potevi chiamarli tu.. Cosa ti ha spinto a compiere un gesto così eroico?

Forse solo il dottor Costa con una delle sue “parabole” può spiegare tanto coraggio e determinazione. Per dovere di cronaca la vittoria di quella edizione andò a Cyril Neveu in sella ad una Honda, ma l’ impresa di Auriol sarà ricordata come la più bella vittoria morale della Dakar. Lo stesso Auriol disse alla televisione italiana, in un messaggio indirizzato la suo team manager e a tutti i dipendenti Cagiva: “Roberto (Roberto Azzalin, ndr), digli che abbiamo battuto la Honda”.

Attualmente Auriol con la sua più che trentennale esperienza nei raid africani, dal 2008 organizza l’Africa Race dopo essere stato direttore della Dakar dal 1995 al 2004 quando ancora questa transitava dalle terre d’Africa. Si tratta di un evento internazionale che assume i valori iniziali dei grandi Raids, aperta a professionisti e amatori e che oltre a ripercorre le vecchie vie della “Nobile Dakar” ha scopi umanitari, coinvolgendo Governi, industrie e popolazioni delle regioni attraversate. Sono forse in quei valori che lo hanno portato a compiere quegli ultimi 20 km che oggi Hubert ha voluto tramutare in veste di organizzatore, seguendo l’esempio di Sabine e non cedendo alle lusinghe mediatiche o commerciali. Perchè il vero spirito della Dakar è quello che oggi Hubert porta avanti nella sua manifestazione.
http://www.africarace.com/en/

Una fantastica vita da dakariano: Beppe Gualini

LA MOTO l’ho sempre amata, fin da piccolo. La mia casa, in centro a Bergamo, era proprio sopra l’officina dei fratelli Dall’Ara e passavo giornate intere tra le loro fantastiche enduro, le Gilera, le Morini. La mattina li vedevo partire per allenarsi, col casco a scodella, e sognavo di andare con loro. Ancora ero piccolo, facevo le elementari, ed ero felice quando potevo fare qualche piccolo lavoro, come lavare un ingranaggio nella nafta, pulire un pignone: bastava poco per sentirsi un meccanico ufficiale. Le prendevo spesso da mio padre perché, invece di studiare, me ne stavo lì in officina tra i piloti e i motori. Ma la passione per i motori mi è stata istillata anche da lui, che faceva il meccanico.

Un giorno ho trovato in soffitta una cassa con un motore, era quello della sua lambretta. Ho insistito per un anno, almeno, non ci voleva sentire, è stata dura (dal papà Beppe non ha preso solo la passione per i motori… n.d.r.), ma poi alla fine ha ceduto mi ha dato il permesso di rimontarla.

Abbiamo smontato il motore pezzo per pezzo, l’abbiamo revisionato e rimesso a nuovo. Il telaio era stato abbandonato in una buca di un’officina all’aperto, abbandonata, era tutto arrugginito, sepolto sotto uno strato di terra. Ci ho messo tre mesi a pulirlo e rimetterlo in sesto. Poi, con quella ho iniziato a viaggiare: ho girato tutta l’Italia, non mi sono azzardato ad andare troppo lontano. Avevo sedici anni.
Ho avuto poi una serie di motorini “taroccati” presi dai rottamai e sistemati alle bell’e meglio, tra i quali un Demm 50 a 4 tempi, in accelerazione era fermo ma uno volta lanciato era una freccia.

LA MIA prima vera moto è stata una Ducati Scrambler 450, che tra l’altro è stata la prima enduro di grossa cilindrata della storia. Con quella ho iniziato a realizzare i miei sogni: sono andato in Francia, in Iugoslavia, in Grecia.
Poi ho avuto una Honda CX 500, la bicilindrica a V raffreddata a liquido. Era eccezionale, silenziosissima, splendida. Durante le vacanze estive ho fatto viaggi di oltre 20.000 chilometri e mi sono spinto sempre più lontano: Turchia, Islanda… e poi l’Africa.

Quando era possibile ho sempre viaggiato in fuoristrada, perché sono le strade dove c’è meno gente. Odio il traffico ed amo scoprire i posti sconosciuti. Sono andato a Capo Nord con la Honda seguendo le carraie: ci ho messo due mesi.

Le mie mappe sono la gente del posto, i vecchietti, ai quali chiedo quali sono le vecchie strade per raggiungere i posti che mi interessano. Una volta, seguendo un sentiero ho passato il confine e sono andato a finire in Germania dell’Est. Mi hanno arrestato e sono stato due giorni in prigione: pensavano che fossi una spia.

SONO un lupo solitario, mi piace viaggiare da solo. È l’unica possibilità che esiste per conoscere la gente, che quando si visitano paesi lontani è la cosa più bella. Ti vedono da solo, pensano che puoi essere in difficoltà e ti offrono ciò che hanno. Già quando si viaggia in coppia questa regola non funziona più. Una volta, in Svezia, mi sono fermato in un campo a riposare. Dopo un po’ sono arrivati due bambini con un cesto con due uova e del pane. È stata una fortuna, perché avevo proprio fame. Dopo un po’ mi fanno capire che i loro genitori mi avevano invitato a casa a mangiare con loro.

Una volta ero in Irlanda, perso chissà dove, in piena campagna. Pioveva così forte che mi sembrava di fare sci nautico, ero tutto bagnato e per ripararmi sono entrato in una cascina. Subito hanno iniziato ad abbaiare i cani e dopo un attimo sono arrivati due uomini col fucile spianato.

Pensavano che fossi un ladro. Mi sono appoggiato al muro con le mani in alto, i cani ringhiavano, e io in inglese ho cercato di spiegare che non avevo cattive intenzioni. Parlavano uno strano slang, erano molto diffidenti, erano due vecchietti, di 80-90 anni. C’è voluto un po’, ma poi mi hanno creduto. Allora hanno pulito il fienile e mi hanno fatto sistemare su delle balle di paglia asciutte.
Avevo la Belstaff nera, di cotone spalmata di grasso, ma ero rimasto troppo tempo sotto l’acqua ed ero bagnato fino al midollo. Quando se ne sono accorti mi hanno fatto entrare in casa, sempre diffidenti, senza dire una parola. Vivevano da soli. Hanno acceso il fuoco e poi, dopo un po’ che mi squadravano, mi hanno portato del burro, del pane.
Col passare del tempo, sempre osservandomi in silenzio, hanno preso fiducia in me e alla fine mi hanno fatto dormire in casa con loro. La mattina dopo, alle sei, mi hanno tirato giù dal letto e mi hanno portato a messa. Quando siamo tornato li ho ringraziati, ho raccolto le mie cose e li ho salutati. Dove credi di andare? Tu non parti, è brutto tempo. Mi ha detto il più anziano con un tono che non ammetteva repliche.
Così sono rimasto con loro per tre giorni interi. Li aiutavo nei lavori di campagna, a governare le bestie, a radunare il gregge di pecore coi cani e chiuderle nel recinto, nel lavoro nei campi. Non parlavano mai, al massimo si dicevano tre parole al giorno, comunicavamo sempre con gli sguardi e coi gesti. Una sera saremmo stati cinque ore davanti al caminetto, avranno detto sì e no quattro parole. Tutto in silenzio. Facevano il tè, lo bevevamo, finiva e ne facevano un altro. Quando sono andato via, dopo tre giorni, avevano gli occhi lucidi, e io sono partito con addosso un gran magone.

NON CALCOLO mai le tappe né l’itinerario. Posso fare 1500 chilometri in un giorno e poi, se un posto mi piace, mi fermo per tre giorni. Le isole Lofoten, nel Mare del Nord, sopra la Norvegia, sono tantissime, in maggior parte disabitate. Ero lì con la mia Honda e ho deciso che volevo passare un po’ di tempo da solo su un’isola deserta. Allora mi sono accordato con un vecchio pescatore e mi sono fatto accompagnare su un isolotto di pietre e muschio. Quando sono sceso gli ho detto: vieni a prendermi tra tre giorni. Mi ha guardato preoccupato, pensando che fossi un po’ matto. Aveva ragione. Sull’isola non c’era nulla e quel vecchio era il mio unico contatto con il mondo. Se fosse morto di crepacuore io sarei ancora lì su quell’isola.
Non c’erano le strade, ovviamente, ma la situazione era molto peggio del previsto. Al posto della CX ci sarebbe voluta una moto da trial: ho percorso 50 metri, mi sono infossato e l’ho lasciata lì. Per mangiare mi ero procurato una lenza: lì il pesce abbonda, basta che la butti in acqua e peschi quello che vuoi. Dopo tre giorni il vecchietto è tornato, con del pane fresco e della roba da mangiare, era contento di trovarmi ancora vivo.

PROVENENDO da una famiglia “povera”, non mi vergogno a dirlo, avevo grandi sogni ma pochi soldi e li avevo contati per la benzina e un pasto al giorno. Ero costretto ad arrotondare con ciò che trovavo per strada, delle uova nei pollai, delle fragole in un campo…

Una volta, per caso, ho preso sotto un piccione. L’ho legato alla moto, l’ho fatto frollare e poi l’ho mangiato. Ovviamente non ho mai dormito in un hotel.

Al ritorno del viaggio da Capo Nord ho finito i soldi in Svizzera, sono arrivato da un benzinaio in discesa, a folle. Mi fa un pieno a credito? Ho chiesto al gestore. Lui mi ha squadrato e ha risposto con un secco no. Posso dormire qui, sotto la tettoia del distributore? Va bene, mi ha risposto, era sera e stava chiudendo. Ho srotolato la stuoia, ho preso il sacco a pelo e quando stavo per sdraiarmi, forse preso dalla compassione, mi ha detto: va bene, ti do la benzina, ma solo ventimila lire. Con quelle, viaggiando a un filo di gas, spegnendo il motore in discesa, sono arrivato fino in Italia, ma sono rimasto a piedi a due chilometri da casa. È stata dura spingerla, era pesante con tutti i bagagli, il sacco a pelo. Il giorno dopo sono tornato da lui e l’ho pagato. Era sorpreso: quei soldi li aveva dati per persi.

LA MOTO non l’ho mai considerata per gareggiare, ma come il mezzo più bello che ci sia al mondo per viaggiare: ti porta dappertutto, senti l’aria, il rumore, il caldo, il freddo, la pioggia. Per me la moto è un telaio, un motore e un manubrio e poca tecnologia.

Così ci puoi dialogare, la puoi capire e se si rompe la aggiusti con un cacciavite e con le pinze. Oggi invece sono tutta elettronica e se hai un problema sei finito: per sistemarla ci vuole il computer. Non mi danno affidamento se devo affrontare un viaggio “cattivo”.

CIÒ CHE ha dato la svolta professionale alla mia vita avventurosa è stato l’incontro con un giornalista, Roberto Cattone. La prima volta che l’ho conosciuto ci siamo ingarellati da Bergamo alla Svizzera, dove siamo andati per vedere una parete da scalare. Io avevo la mia Honda CX e lui una Guzzi SP.

La mia prima impresa importante, giornalisticamente parlando, l’ho portata a termine con un mio amico, Piero Rossi, è stata la riscoperta della vecchia via de sale che va da Dolceacqua, in Liguria, fino a Ginevra con due Fantic 200 da trial: un totale di 22.000 metri di dislivello. Questa antica via era usata dai mercanti Ginevrini, che portavano a dorso di mulo il sale e l’olio dalla Liguria a Ginevra. Prima ho fatto una ricerca storica e poi di villaggio in villaggio chiedendo alle persone anziane ci facevamo spiegare quali erano gli itinerari che i loro nonni facevano con i muli. Una vera avventura quasi tutta fuoripista e “a vista”. Era ottobre e verso la fine, sul Col de Chevannes ai piedi del Monte Bianco, ci ha sorpreso una nevicata che ha rischiato di farci fallire l’obiettivo finale. È stato il momento più duro: abbiamo dovuto battere a piedi il sentiero, pericolosissimo in discesa, e calare le moto con le corde per la sicurezza; per di più è sopraggiunta la notte… un errore e saremmo arrivati a fondo valle! Ma alla fine abbiamo vinto.

 

IL PERIODO AFRICANO

Poi ho scoperto l’Africa. Prima il Marocco, la Tunisia e poi i deserti. In un viaggio, nel 1978, come sempre in solitario, ho incrociato la prima Parigi-Dakar: almeno centocinquanta matti, tra i quali gli ancora sconosciuti Auriol e Neveu, si sfidavano in questa gara pazzesca alla guida di mezzi a motore di ogni genere, auto, camion, Cytroen Due Cavalli, moto, lambrette… Allora non c’erano le categorie, potevi gareggiare con quello che volevi. Andavano ad attraversare il Ténéré e in quel momento ho deciso che l’anno successivo avrei gareggiato anche io con loro.
Tornato in Italia mi sono messo a cercare gli sponsor. Ovviamente non avevo soldi. Non era facile spiegare di cosa si trattava, quando parlavo tutti mi credevano matto: è una gara di 19000 chilometri nel deserto, in ventidue giorni. Come? Ti sei sbagliato, saranno 1900. Dakar? Dov’è Dakar?

Avevo conosciuto la Fantic con l’impresa della via del sale, e quindi mi sono rivolto anche a loro. Ovviamente anche quella volta non sono stato preso sul serio e per ridere mi hanno detto: va bene, Beppe, ti diamo una RSX 125, che allora era una discreta enduro, non da competizione ma piuttosto robusta.

Mi volevano prendere per il culo, ma io ho risposto subito di sì, che andava bene e così non si sono potuti tirare indietro.
Poi ho iniziato a fare una cosa che mi piace tantissimo: prepararla per la gara, organizzare i bagagli. Ovviamente ero da solo, privato al 100%, e mi dovevo portare tutto dietro, dai ricambi, all’olio, dalle gomme al sacco a pelo.
Mi rendevo conto che la Dakar era troppo impegnativa per la prima volta e così, nel 1982, mi sono iscritto alla prima edizione del Rally dei Faraoni. La partenza era a Venezia e quella mattina mi sono infilato in autostrada con addosso uno zaino di 20 kg, contenete un cilindro, un pistone, i ferri, 7 kg di olio, da mangiare, e con una gomma a tracolla. Avevo preso delle vecchie Pirelli da trial, scelte tra i resti di magazzino, così erano più dure e duravano di più. A quel tempo i rally africani erano sconosciuti e non esisteva niente di specifico, come le gomme, i serbatoi…

Nel pomeriggio, arrivato a Venezia, sono andato ad ascoltare il mio primo briefing africano, in francese. Mi dispiace, disse allora Fenouil, ma per problemi tecnici si parte domattina da Brindisi. Non ci potevo credere. Ho comprato una cartina, ho guardato dov’era Brindisi e sono partito in autostrada a manetta. Ho viaggiato tutta la notte, sono arrivato al porto per ultimo, sono salito sulla nave e hanno chiuso il portellone.

All’epoca il Faraoni non lo conosceva nessuno. Quando sono sbarcato mi sono accorto che erano tutti francesi, e io ero semplicemente l’Italien. Ho anche capito che ero finito in una categoria pazzesca: la 125 allora era una delle più tecniche, tutti avevano delle enduro da competizione o delle moto da cross con grandi serbatoi in alluminio, le gomme speciali e l’assistenza. Io guidavo una semplice moto da turismo con le gomme secche, portavo sulle spalle uno zaino da venti chili che mi ha fatto venire le piaghe e avevo la gomma di scorta a tracollo. Avevo fatto il rodaggio in autostrada a manetta e avevo paura che il motore si spaccasse da un momento all’altro, tenevo il road book con un elastico e le mollette dei panni, e ogni tanto mi volavano via dei fogli e dovevo rincorrerli per il deserto. Ma alla fine ho vinto io, sono arrivato primo nella mia categoria.
Non che fossi un pilota velocissimo, ma una volta in gara ho scoperto di trovarmi perfettamente a mio agio in quei posti, e orientarmi nel deserto mi era naturale. Molti andavano fortissimo ma poi si perdevano, sprecavano un sacco di tempo e così, da metà gara in poi mi sono trovato tra i primi. Nelle ultime tappe un francese maledetto con una Yamaha superpreparata che mi succhiava la ruota tutta la tappa per poi passarmi sul traguardo. Alla fine però l’ho fregato.
Un’altra fortuna, oltre alla vittoria, è aver incontrato Gigi Soldano, allora fotografo amatoriale. Era stato licenziato dal suo lavoro di impiegato, e anche a lui quel rally ha portato fortuna: oggi è uno dei più quotati fotografi sportivi del mondo, ma quella era la prima volta che fotografava per professione. Così, tra la mia vittoria e le straordinarie immagini di Gigi, una moto da enduro nel deserto coi cammelli e le piramidi non si era mai vista, ci siamo guadagnati le copertine di tutti i giornali. E così è scoppiato il mal d’Africa.

Poi le case si sono accorte di quanto fossero importanti le gare africane e così hanno iniziato a parteciparvi in modo ufficiale assoldando i più forti piloti di cross e di enduro. A volte sbagliando, poiché la manetta era solo un parte di quanto richiesto ad un pilota Africano. Soprattutto nelle prime edizioni l’orientamento era fondamentale, non come oggi che il GPS ha ucciso la navigazione e quindi l’importanza del pilota. L’esperienza acquisita nei miei viaggi con la conoscenza dei pericoli e delle difficoltà è stata altrettanto importante abbinata alla forza psicologica: saper superare tutte le difficoltà senza mai mollare!
Spesso ho visto piloti di nome che hanno fatto apparizioni con poca fortuna e spesso tragiche. Ma cominciava l’era del business e quindi del lento declino del vero spirito africano.

È per questo, e anche per scelta filosofica, che non sono mai diventato un pilota ufficiale. Ho avuto moto ufficiali, ma le Case me le offrivano solo se mi adattavo a fare il portatore d’acqua. Se il pilota di punta aveva un problema io mi dovevo fermare per aiutarlo, anche a costo di sacrificare la mia moto e di conseguenza la mia gara.

Questo mi dispiace, perché probabilmente sarei riuscito a ottenere risultati sportivi più importanti. Correndo con tutto sulle spalle e iniziando una speciale appena arrivato a fine tappa, senza riposare per rimettere in sesto la motocicletta. Ho passato anche tre giorni senza dormire, ero diventato un fantasma… Ma nonostante questo ho ottenuto vittorie prestigiose di categoria, come la Marathon nella Dakar, la più ambita, e sono spesso arrivato a ridosso, e anche davanti, a piloti ufficiali. Una volta, con tutte le squadre ufficiali delle varie nazioni, c’erano oltre trenta piloti potenziali vincitori, ed arrivare dopo i primi dieci per un privato era un sogno quasi irrealizzabile!
Le maggiori soddisfazioni le ho avuto proprio da loro: bravo Beppe, mi dicevano, io con una moto come la tua non sarei nemmeno arrivato alla fine.
Non conta solo capacità di orientamento. Nel periodo precedente alle gare curavo tantissimo la preparazione atletica sfruttando le mie conoscenze di istruttore di educazione fisica: corsa, nuoto, palestra, alimentazione. E, soprattutto, l’arrampicata. La ritengo una disciplina importantissima per attività dure come i rally, perché ti aiuta a superare i momenti difficili: quando arriva il punto in cui credi di non farcela più, devi reagire, concentrarti e recuperare quello che è restato delle tue forze per andare avanti.
Un’altra cosa che curavo tantissimo, mentre altri piloti trascuravano, è l’alimentazione in gara. Sono stato il primo a portare la sacca con l’acqua e gli integratori salini, e ad utilizzare la linea di prodotti specifici Enervit. È grazie a questa preparazione che arrivavo alla fine della Dakar stanco, ma in forma.

PER OTTENERE buoni risultati non è sufficiente curare il fisico e sapersi orientare: è indispensabile anche saper aggiustare la moto. Quando partivo col mio pesantissimo zaino sulle spalle tutti mi prendevano per il culo, ma io a piedi non restavo di sicuro. Arrangiarsi sempre, mai abbattersi anche quando le cose vanno tutte storte è una cosa che ho imparato dalle popolazioni africane. Nei paesi cosìddetti “civilizzati” se ti succede qualcosa fai una telefonata e ti fai venire a prendere col carro attrezzi, ma in molte zone dell’Africa se non ti arrangi muori. Si rompe il camion sulla pista? Lo ripari, a qualsiasi costo, con tutto il tempo che ci vuole.

Se non riparti sei morto. Vai come una lumaca? Non importa, arrivi dopo due giorni ma arrivi. È una cultura straordinaria, quella africana, che ci insegna tantissimo.

Durante una Dakar ho trovato Neveu fermo ai bordi di una pista, a fianco della sua Honda. Cirillo, che è successo? La moto non va più, la mia gara è finita, mi ha risposto col morale a terra. Non va più? I casi sono due: o manca la benzina, o non arriva la corrente, fammi vedere. Aveva svuotato i serbatoi posteriori senza aprire in tempo quelli anteriori e i tubi del carburante erano pieni d’aria. Li ho staccati, ho fatto scorrere la benzina e li ho riattaccati. La moto è ripartita subito. Mi ha guardato come se fossi un marziano. Quell’anno Cyril ha vinto.

Un’altra volta ho trovato Jean-Claude Olivier nei guai; allora guidava il suo prototipo Yamaha a 4 cilindri. Mi sono fermato per vedere se potevo aiutarlo, mi chiamano il buon samaritano. Beppe, la ruota anteriore è quadrata, i raggi si sono allentati, alcuni si sono rotti…. Beh, Jean-Claude, che problema c?è?

I raggi li avrò tirati una trentina di volte in questa Dakar. Quando ho tirato fuori i tiraraggi dallo zaino non ci credeva: gli ho sistemato la ruota e siamo ripartiti.
Ma la storia più assurda è successa al Rally del Marocco. Guidavo una Cagiva 125 due tempi, e ad un certo punto su una pista il motore muore. Tiro giù la testata e vedo che c’è il pistone bucato, un problema alla carburazione. Come al solito si forma un capannello di gente, passa il tempo e vedo che un uomo in bicicletta mi guarda. L’unica cosa che potevo immaginare (fantascienza su una pista africana) era saldare il pistone e comincio e spiegarlo alla gente in francese. Ad un certo punto un ragazzo in bicicletta mi corre incontro e mi dice che c’è uno che salda in un villaggio in una certa direzione. Ho la moto smontata non posso abbandonarla… straccio delle banconote a metà e gli do il pistone, tanto era bucato, anche se non fosse tornato non mi sarebbe servito a nulla. L’altra metà dei biglietti te li do quando torni. Lui prende il pistone, parte come Cipollini in uno sprint e sparisce. Passano le ore, diventa buio ma di lui né del pistone c’è traccia. In piena notte arriva: saldato! Incredibile ma vero.
Però sopra c’erano due dita di bava. Allora ho iniziato a levigarlo contro una pietra piano piano, poco alla volta, era un lavoro lunghissimo. Ad un certo punto però un ragazzo mi ha fermato, ha raccolto un sasso dalla pista e me lo ha porto: era una pietra che tagliava come una lima! La saldatura veniva via più velocemente e poco a poco il pistone assumeva una forma decente. Quando era più liscio l’ho montato e ho provato a far partire la moto ma non andava: c’era pochissima compressione. Allora i ragazzi mi hanno spinto, forte, più forte, ancora più forte, fino a quando pùt… pùt… pùt, la Cagiva piano piano si è messa in moto e finalmente così, lentamente, sono riuscito a dirigermi verso il traguardo. Quando sono arrivato al campo erano le sei di mattina, ho cercato un pistone nuovo e l’ho sostituito. Nessuno poteva credere che ero tornato con quel pistone saldato e limato con una pietra. Invece era vero: mai arrendersi.

IL 1986 è stato un anno durissimo per me. Sono capitate delle cose, in particolare la morte del mio amico Giampaolo Marinoni, deceduto dopo l’arrivo a Dakar a causa di una caduta, e di Thierry Sabine, che hanno fatto vacillare i miei principi. Tutto ciò che avevo fatto fino ad allora, ciò che pensavo, le cose in cui credevo mi sono sembrate di colpo assurde, senza senso. Andava bene rischiare, cadere, farsi male, andava bene tutto, ma morire no, non andava bene. Non era giusto.

Quell’anno prometteva molto bene. La Cagiva mi aveva affidato la moto ufficiale, il muletto di Auriol, e anche se ero sempre il portatore d’acqua, mi sentivo forte e motivato. Il prologo di Parigi sulla neve era iniziato coi migliori auspici e le prime tappe, benché la moto fosse difficile da guidare, era potente e affidabile. Quasi del tutto affidabile.

Auriol infatti montava le nuove ruote coi mozzi in magnesio, materiale leggerissimo che però si è dimostrato troppo fragile per le piste africane. In una tappa sono stato costretto a dargli la mia ruota anteriore rimanendo bloccato su una pista. Guardavo passare gli altri piloti senza poter fare nulla, quando finalmente arriva anche la macchina dell’assistenza Cagiva, guidata dai meccanici francesi, assoldati per fare assistenza ad Auriol. Sopra c’erano i ricambi, compresa la mia ruota e gli accordi prevedevano che io aiutassi il loro pilota e loro, nel caso, aiutassero me. Mi sono messo in mezzo alla pista con la ruota in mano per fermarli ma questi, appena mi hanno visto, hanno accelerato lasciandomi a piedi. Ho preso 15 ore di penalità. Li avrei ammazzati. Lì per lì mi sono demoralizzato, ma poi, io sono fatto così, sono proprio le difficoltà a mettermi forza, a rendere la sfida più interessante. Ah sì? Adesso vediamo chi si piega.
Il giorno dopo i meccanici Cagiva sono venuti da me, e tutti sorridenti mi hanno detto: Beppe, abbiamo per te due bellissime ruote in magnesio, contento? Dacci le tue.

La Dirkou-Agadem è stata una tappa massacrante, tracciata attraverso il deserto del Ténéré lungo una pista tracciata su dune altissime. Arrivavi in cima in velocità e poi saltavi giù nel vuoto. In uno dei salti più alti, mentre ero in volo, ho visto che stavo per atterrare contro un pilota svenuto.

Istintivamente mi sono buttato di lato riuscendo ad evitare il peggio, ma cadendo mi sono tirato la moto addosso. Appena mi sono ripreso mi sono avvicinato all’altro pilota per prestare soccorso: era Veronique Anquetil. era in coma, la moto gli era caduta addosso strappandole il casco, era piena di sangue con la sabbia in bocca. L’ho pulita e l’ho messa in posizione sicura, convinto però che sarebbe morta. Poi, per evitare che i piloti che seguivano le tracce ci arrivassero addosso ho cercato di alzarmi per mettere i caschi sulla duna ma non ci sono riuscito, la gamba destra non mi reggeva, nella caduta si erano tranciati i legamenti del ginocchio.
Poi finalmente è arrivato l’elicottero del soccorso e ha caricato Veronique. Il medico mi ha detto: tu non hai niente, solo il ginocchio, lei sta per morire. E mi ha lasciano in mezzo al deserto con la gamba coi legamenti spezzati. Allora mi sono strappato la maglia, me la sono legata stretta sul ginocchio e sono ripartito. Sono arrivato al campo dopo aver percorso 350 chilometri con la gamba gonfia come un melone. Col passare delle ore il dolore era sempre più violento, non erano ancora arrivati i medici perché nel frattempo era pure sopraggiunta una tempesta di sabbia, molti piloti si sono dispersi e la tappa è stata annullata.

Solo la sera del giorno successivo il medico mi ha visitato e mi ha detto che avevo finito, che mi dovevo ritirare. Non ci penso nemmeno, gli ho detto, fammi una puntura e una fasciatura rigida… Ma per convincermi a desistere c’è voluto poco: mi ha preso il piede e mi ha fatto vedere che la gamba si piegava di 45 gradi in senso laterale all’altezza del ginocchio.

Al campo base mi ha accompagnato Thierry Sabine, col suo elicottero. Siamo passati sopra una pista durante la gara e a un certo punto abbiamo visto una caduta. Era Boudou, che è rimasto a terra ferito. Thierry è atterrato, ha caricato il ferito e mi ha detto: Beppe, mi dispiace ma non ci stiamo tutti. Aspettami qui, lo accompagno al campo e torno a prenderti.
Sono sceso, in pieno deserto a torso nudo, la giacca l’avevo lasciata sull’elicottero, era caldissimo, avevo sete, il sole bruciava e stavo sudando. È la seconda volta, ho pensato, che la mia vita è nelle mani di una sola persona. Nessuno sa che io sono qui, e se Thierry dovesse cadere con l’elicottero io certamente morirei.
Dopo quattro ore Sabine è tornato a prendermi e mi ha portato al campo.
Il giorno dopo è morto schiantandosi col suo elicottero. Volava sulla pista seguendo i motociclisti, durante una tempesta di sabbia. Lui era un motociclista, un grande, e sapeva cosa vuol dire guidare la moto nel deserto durante una tempesta. Per seguire i suoi piloti ha rischiato al punto da rimetterci la vita. Con la sua morte è iniziata la lenta agonia della Dakar.
Con lui è morto lo spirito che l’aveva fatta nascere.

Solo qualche episodio della vita di Beppe Gualini, da lui stesso raccontati e messi per iscritto da Aldo Ballerini.

Grazie Beppe n.d.r.

fonte: http://www.superwheels.net/intervista-a-beppe-gualini