Alberto Mercandelli Dakar 1990

Quanto a Carlo Alberto Mercandelli, simpaticissimo concessionario Volkswagen ed Audi di Alessandria, la sua avventura alla Dakar del 1990 è stata ancora più rocambolesca.

«Ero assieme ad altri due piloti racconta siamo stati avvisati da un elicottero dell’organizzazione che eravamo sulla strada sbagliata, ma facendo un tratto fuoripista per arrivare al percorso giusto mi si è fermata la mo-to forse per la rottura di una valvola.
Era impossibile sperare in un soccorso essendo lontano dalla strada che avrei dovuto percorrere e non sapevo nemmeno dove mi trovavo. Ma non mi è nemmeno passato per la testa di accendere la balise non volevo mollare e non volevo terminare così la mia gara.

«Dopo cinque ore quando già cominciavo a calcolare acqua e cibo in mio possesso ho visto da lontano dei tuareg con dei cammelli. abbiamo legato la moto agli animali e mi hanno tolto dalla sabbia molle in cui mi ero piantato, poi uno di loro è andato a prendere un pick up e mi ha caricato assieme alla moto. Pagando s’intende.

«Sembrava finita, ma dopo un po’ l’autista mi ha mollato dicendo che doveva andare a lavorare. Così ho fermato un camion enorme locale ma guidato da un italiano. Ha preso su me e la moto ma dopo 3 km ha anche aggiunto che per portarmi ad Agadez voleva 10 milioni di lire, davvero troppo. Ha replicato che se non avessi accettato mi avrebbe scaricato.

E ha fatto. Così ho preso una fila di altri mezzi di trasporto tra cui alla fine anche un pullman di linea. C’è voluto un milione per convincere l’autista a contravvenire al regolamento ed a caricare me e soprattutto la moto, ma alla fine ce l’ho fatta. E tra polli, galline ed autoctoni sono riuscito ad arrivare ad Agadez».

Una bella avventura, ma raccontata solo a metà. Perché l’irriducibile Mercandelli ovviamente non si è accontentato di arrivare a destinazione: una volta in città infatti ha rintracciato la sua squadra ed ha fatto riparare la moto, mentre si faceva una doccia, trovando anche il tempo per radersi.

Dopodiché, lavato e profumato, si è presentato all’arrivo di tappa attorno alla mezzanotte, dopo aver telefonato a casa per tranquillizzare i familiari che il giorno dopo avrebbero letto del suo mancato ritrovamento; una notizia risalente a molte ore prima. In questo modo si è così potuto presentare «regolarmente» a motore acceso e continuare la gara, gravato della penalizzazione forfettaria per il grande ritardo, di altre tre ore per il salto del controllo a timbro e di un distacco elevatissimo in classifica generale; ma ha comunque proseguito alla volta di Dakar.

Particolare di non trascurabile rilievo: siccome non esistono testimoni di tutte queste vicende, l’organizzazione non ha potuto prendere sanzioni nei confronti di Mercandelli. Le voci girano, ma le prove no, per la gioia del Team Assomoto che dopo aver portato a Dakar quattro piloti lo scorso anno sta tentando di ripetere l’impresa con tre, visto l’imprevisto ritiro di Canella, che assieme a Girardi completava la squadra.
(fonte motosprint)

Yamaha XTZ 660 BYRD 1987

Nuovi colori per le Yamaha-Belgarda monocilindriche da 660 cc. che parteciperanno alla Parigi Dakar 1987, strettamente impa-rentate con quelle vincenti al rally dei Faraoni.

Tecnicamente va segnalata l’adozione del freno a disco posteriore da 200 mm di diametro che va ad affiancarsi all’anteriore da ben 300 mm, si è provveduto anche al recupero della benzina che in precedenza traboccava dalle vaschette dei carburatori, attraverso gli sfiati, adottando una piccola pompa di ricircolo.

L’alimentazione infatti avviene tramite una pompa a depressione che provvede a prelevare carburante innanzitutto dai serbatoi laterali e poi da quello principale. Da notare che quest’ultimo è costruito in due sezioni distinte incernierate longitudinalmente in alto; l’apertura ad ala di gabbiano facilita la manutenzione e, in caso di caduta, limiterebbe la fuoriuscita di benzina.

Nell’immagine dall’alto si vede chiaramente anche la posizione del filtro aria a cartuccia mentre senza sella, appare evidente la conformazione portante dei serbatoi laterali che reggono sedile e codino; qui è previsto lo spazio per la scorta d’acqua, da trasferire nello spoiler anteriore solo nelle tappe più lunghe.

Ciro De Petri e la sua Dakar 1992

Parigi – Sirte – Le Cap 1992: il confine sud del Ciad segna l’ingresso dell’Africa Nera, ma non per tutti. Per Alessandro De Petri l’Africa è diventata nera molti chilometri prima, in Niger. È riuscito ad arrivare in moto a Dirkou, ma lo ha fatto con la clavicola destra fratturata. impossibile ripartire il giorno dopo.
Così, ancora una volta, «Ciro» si è visto sfuggire dalle mani una gara che sentiva di poter vincere, e la sua rabbia è quasi palpabile, resa ancora più forte dalla incredibile dinamica dell’incidente.

«Sono arrivato al rifornimento davanti a tutti— si sfoga ma i km dopo essere ripartito ho tolto una mano dal manubrio per sistemare il road book, perché la carta non scorreva. Non l’avessi mai fatto!
Stavo andando piano, ma ho preso una buca e la moto si è messa di traverso. Non ho nemmeno fatto in tempo a riacchiappare il manubrio, e con una mano sola davvero non potevo sperare di controllare la mia Yamaha, per giunta con il pieno. Mi ha buttato per aria ed ho picchiato duro. Che incidente stupido!».

De Petri parla a ruota libera, senza interrompersi. Non riesce ad accettare il ritiro, non riesce a capacitarsi della sfortuna che continua a perseguitarlo.
«Non puoi spiegare cosa provi quando ti succede una cosa del genere. Non puoi accettare di doverti fermare così dopo 8 mesi di preparazione.
Ore e ore passate in palestra ogni giorno e un’équipe di persone che lavora per preparare la tua gara. Subito dopo la caduta non riuscivo a tenere gli occhi aperti, ed ho perso i sensi. Quando lí ho ripresi mi sentivo come se mi stessi risvegliando da un brutto sogno, come se tutto dovesse finire lì. Evviva, ho pensato, ma quando ho messo a fuoco il casco di Peterhansel, che si era fermato per aiutarmi, ho capito che purtroppo non era solo un sogno».

«Ciro» però non ha voluto rassegnarsi al ritiro. Non ancora. (fonte MS)

KTM 660 Dakar Richard Sainct 2003

La Dakar 2003 (noi la continueremo a chiamare così anche se questa edizione prese il via da Marsiglia ed arrivò a Sharm El Sheik) verrà ricordata come quella del “dominio austriaco assoluto” per via delle 15 moto “orange” nelle prime 15 posizioni!

Per il vincitore Richard Sainct, la gara è stata più “semplice”, la moto ha retto bene e non è incappato in incidenti e si aggiudica il titolo di re della Dakar, il terzo dopo i successi del 1999 e del 2000 a pieno merito. Il francese nelle 17 tappe totali della competizione è giunto 5 volte primo, due volte secondo e due volte terzo: insomma, è stato semplicemente il migliore.

Cala quindi il sipario anche su questa edizione della Dakar che, sebbene non abbia più il fascino di un tempo, e risenta degli effetti del turismo da globalizzazione e delle minacce del terrorismo internazionale, ha mantenuto la sua vitale spettacolarità.
La KTM 660 di Richard Sainct si rivela una perfetta macchina da deserto che ha raggiunto con questa edizione la definitiva maturità.

Il debutto di Jordi Arcarons

L’anno del debutto di Jordi Arcarons alla Dakar è il 1988, edizione a cui partecipa su una moto di origine catalana, la Merlin, con la quale si classifica 31° assoluto e primo nella categoria 500 cc.

Jordi Arcarons, velocissimo pilota nel deserto, ha vinto ben 27 tappe in 14 edizioni a cui ha partecipato, quasi un record considerando che meglio di lui ha fatto solo un mostro sacro della Dakar, il francese Stephane Peterhansel che ne ha vinte ben 33.

Un pilota formidabile che pur non avendo mai vinto la competizione, ha concluso sul podio ben 5 edizioni (3 volte secondo e 2 volte terzo).

Ecureuil BMW Dakar 1989

Utilizzando i motori ufficiali BMW bicilindrici boxer di 1020 cc, il team Ecureuil si ripresenta alla Dakar 1989 con la stessa rivoluzionaria moto utilizzata l’anno precedente. Prerogativa della moto francese è l’avvenieristica monoscocca realizzata in materiale composito di fibre di carbonio e kevlar, che sostituisce l’usuale telaio in tubi.

L’intera scocca pesa solo 6 kg ed è scomponibile in tre pezzi: quello anteriore sostiene la forcella, quello superiore funge anche da serbatoio principale e quello inferiore racchiude motore, cambio e attacco del forcellone. In caso di rottura durante la gara, lo stesso pilota può smontare il motore. Il cannotto di sterzo è regolabile nell’inclinazione per adeguarlo alle caratteristiche del percorso.

Le principali modifiche rispetto al modello precedente riguardano l’attacco superiore degli ammortizzatori debitamente rinforzato, ed il fissaggio del forcellone, ora più robusto e meglio dimensionato. La forcella è di tipo “rovesciato” con escursione di 300 mm, il forcellone è in lega leggera ed agisce su due ammortizzatori posti molto in avanti per accre-scere l’escursione della ruota posteriore che è ora di 280 mm.

Il peso a secco dichiarato è inferiore a 170 kg; un risultato davvero notevole dovuto al massiccio uti-lizzo di leggero materiale compo-sito. Il motore tedesco è accredi-tato di una ottantina di cavalli a 6500 giri; distribuzione ad aste e bilancieri con due sole valvole per cilindro, accensione elettro-nica ad anticipo automatico anch’esso elettronico e carburatori Bing a depressione da 40 mm. La frizione è a secco, il cambio è a cinque rapporti e la trasmissione finale ad albero.

Moto di Francesco Fermani
Foto di Alessio Corradini

Suzuki DR 750 BIG Dakar 1988

TIME MACHINE – I nostri inviati hanno scovato in Francia il Team Suzuki che stava testando la nuova monocilindrica con cui la casa di Hamamatsu tenterà di recitare il ruolo di protagonista alla prossima Parigi Dakar ’88.
Dalle indiscrezioni sembra abbia una cilindrata record di 750 cc ed una potenza di circa 65 cv. Interessante il tipo di raffreddamento misto aria/olio. Dalle foto la moto non ha ancora una livrea definitiva, ma sembra, da voci bene informate che un munifico sponsor di sigarette sia interessata a mettere i suoi adesivi su quel ampio serbatoio.
I piloti che sostituiranno i fratelli Joineau e Michele Rinaldi saranno il belga Gaston Rahier, André Boudou e l’italiano Giampiero Findanno.

 

In ricordo di Massimo Montebelli

Parlare e scrivere di personaggi che hanno lasciato un segno indelebile in questo sport e non sono più fra noi non è mai facile, abbiamo quindi preferito ricordarlo con le parole di chi lo conosceva bene.

Massimo Montebelli aveva partecipato a sette edizioni della Parigi–Dakar. In cinque di queste era riuscito a tagliare il traguardo e nel 1993 era arrivato il suo miglior piazzamento, ottavo, davanti a tanti famosi e strapagati professionisti.

Con lui credo se ne sia andato un pezzo di storia della Dakar, quella vera come amava chiamarla lui, aveva vinto la categoria Marathon alla Paris-Le Cap con Meoni nella stessa squadra, la Yamaha BYRD, mi piace pensare che si siano ritrovati lassù e continuino a parlare di corse dune di sabbia e prove speciali.

Ma la moto era anche il suo lavoro, specialmente per quanto riguarda la realizzazione a mano di serbatoi speciali. Per questo era stato soprannominato, e noto in tutta Italia e anche all’estero, come il mago dell’alluminio.
(Fonte Massimo Marcaccini – Riders)

Honda EXP-2 Dakar 1995

Sicuramente con la semplice sigla di Honda EXP-2 ben pochi capiranno di cosa sto parlando, ma questa moto fu una delle novità più interessanti presenti nel parco gara della Granada Dakar (sigh) del 1995. La moto partorita dal genio dei progettisti Honda, non era sicuramente la prima 2T progettata per il deserto (come abbiamo visto con la KTM 495 del 1981) ma è stata concepita per essere rivoluzionaria e vincente.

Al suo debutto non solo vide le spiagge di Dakar, ma addirittura Jean Brucy concluse con un ottimo quinto posto assoluto, seconda Honda al traguardo (dietro a Meoni) e prima indiscusso nella categoria sotto i 500 cc: un risultato eclatante per un prototipo nato da un progetto nuovo e considerando anche che la moto era di soli 400 cc, monocilindrica per giunta!
Ma per quale motivo questa moto era rivoluzionaria? Per prima cosa la ’Honda EXP-2 è stata progettata per avere l’iniezione elettronica, un’utopia per quei tempi, e la combustione quindi avviene senza l’utilizzo della candela (che è presente ma viene attivata solo a regimi particolarmente bassi), spiegato in modo molto semplicistico…era come un diesel!

L’utlizzo di questa tecnologia permetteva al motore di sprigionare ben 54 cavalli, poco meno di 20 rispetto alle rivali di 800 cc quattro tempi, ma pesava oltre 100 Kg in meno delle rivali, aveva consumi decisamente inferiori e mediamente attestati addirittura attorno ai 3 l/100 Km nel ciclo misto ed attorno ai 6 l/100 Km in gara.

Resta ancora un mistero capire perché questa moto, dalle potenziali enormi, non ebbe alcun seguito nelle competizioni a seguire.

KTM 495 Fenwick 1981

Sulla storia di questa KTM Fenwick Dakar ormai si è detto tutto. Nel 1981 la KTM dell’importatore importatore francese “Royal Motor” prepara e iscrive quattro KTM 495 alla Parigi Dakar.
Queste moto, originariamente destinate al motocross, si sono dimostrate molto efficaci nonostante la tecnologia 2T e i relativi consumi non le favorissero, obbligandole a serbatoi mastodontici per aumentare l’autonomia.
Vennero affidate ai piloti Gilles Francru (#25), Yann Cadoret (# 26) , Elia Andreoletti (#27) e Philippe Augier (# 28).
Una sola KTM concluse la gara, quella di Gilles Francru che si classificò in un’ottima 5a posizione finale.