Traghetto direzione Le Cap 1992
Traghetto di gruppo durante la Dakar 1992, si riconoscono: Gilles Picard, Edi Orioli, Thierry Magnaldi, Marc Morales, Gilles Lalay.
Traghetto di gruppo durante la Dakar 1992, si riconoscono: Gilles Picard, Edi Orioli, Thierry Magnaldi, Marc Morales, Gilles Lalay.
Traghetto in direzione Le Cap durante la Dakar 1992, si riconoscono Sotelo, Mas, Lalay e Morales.
Il sogno era correre una Dakar in sella ad una moto fatta su misura: Massimo Montebelli e Fabio Marcaccini pensarono per la prima volta alla realizzazione di una moto destinata a correre nei rally africani nel corso di una notte buianel gennaio 1988 quando, in compagnia di parecchi altri piloti privati dovettero ritirarsi dalla gara decorso della lunghissima tappa (oltre 800 chilometri) che portava i piloti della Parigi Dakar da Bordj Omar Driss a Tamanrasset. Al ritorno in patria i due iniziarono la realizzazione di sempre più rinomate special destinate a correre nelle classiche africane.
La Wild Bike preparata per la stagione 1991-92 aveva già conquistato con Marcaccini il 13° posto alla decima edizione del Rally dei Faraoni ed è pronta per la prima partecipazione della Dakar.
Questo special si sviluppa attorno al monocilindrico Yamaha che equipaggia la XTZ 660 Ténéré. Il propulsore è la parte sottoposta alle minori modifiche. Solo il profilo delle camme, che comandano le 5 valvole della distribuzione è stato incattivito per accrescere la potenza. Su nessun’altra componente si è voluto intervenire, preservando così le doti di robustezza e affidabilità del monocilindrico Yamaha. Persino l’avviamento elettrico è stato mantenuto, che se da una parte penalizza di qualche chilo la moto, dall’altra si rivela utilissimo nell’accensione dopo le inevitabili cadute e relativi ingolfamenti. Il raffreddamento ad acqua si avvale di un ampio radiatore frontale presa da una Cagiva Mito su cui è stata montata una elettroventola, comandata sia da un termostato che manualmente dal pilota attraverso un pulsante posto sul manubrio.
Strettamente di serie è pure il carburatore a doppio corpo YDIS, a cui è stata modificata solo la regolazione, arricchendo un poco la carburazione. Il motore è però solo una felice eccezione. Dell’originale Yamaha 660 Ténéré, da cui la Wild Bike deriva, rimangono solo i numeri di immatricolazione sul cannotto del telaio. Tutto il resto è stato ricostruito con materiali e geometrie diverse, a cominciare dall’inclinazione del cannotto dello sterzo che è ora di 28°. Davvero notevole per una moto che, sia pur speciale, rimane una moto da fuoristrada. Ma nel deserto, tra la sabbia, più che agilità occorre una grande stabilità nei tratti misti-veloce caratteristiche delle piste africane.
La moto a secco, esclusi i 55 litri di benzina contenuti nei serbatoi, pesa solo 165 kg. Un risultato davvero buono se pensiamo che non ci troviamo di fronte ad un mastro di qualche team ufficiale, con tante risorse e tecnologie ma davanti al frutto del lavoro e della passione di un gruppo di amanti della moto, che divide sede e officina con un laboratorio di falegnameria in una vecchia casa colonica. Naturalmente, massiccio è stato l’impiego di materiali speciali e il risultato finale non è certo stato ottenuto a scapito dell’affidabilità generale: delle tre moto presentate dal Wild Team al via parigino della Parigi-Dakar dello 1991, non una ha presentato nel corso della gara problemi e cedimenti.
Tutte e tre hanno potuto togliersi la soddisfazione di appoggiare le ruote sulla spiaggia di Dakar con ottimi piazzamenti. Il telaio è stato sottoposto a cura radicali e rifatto praticamente ex-novo. Il risultato finale è il frutto dell’esperienza in prima linea di piloti che non salgono solo sulla moto e aprono il gas, ma che passano la notte tra una tappa e l’altra lavorando sul loro mezzo. Il progetto ha privilegiato la ricerca di una maggiore resistenza nelle zone più sollecitate (come gli attacchi del cannotto di sterzo e del monoammortizzatore), e la definizione di una diversa distribuzione dei pesi (con un netto sbilanciamento verso il retrotreno, che aiuta la ruota anteriore a galleggiare sulla sabbia migliorando così la guidabili della moto).
Per la costruzione della culla, che adotta la classica soluzione a motonave sdoppiato, sono stati utilizzati i noti tubi Columbus al cromo-molibdeno saldato con il procedimento a TIG (Tungsten Inert Gas). Telaio e forcellone sono stato sottoposti a trattamento di rinvenimento, per equilibrare la diversa rigidità tra tubi e saldatura per evitare così rotture per i diversi carichi tensioni.
Orgoglioso del proprio lavoro, i ragazzi del Wild Team non nascondono l’aiuto e i consigli ricevuti dalla BYRD anche se accettati ed elaborati in piena autonomia, a cominciare dal progetto del porcellone posteriore e i relativi cinematismi punto cruciale della moto e della sua guida. Il forcellone, in Anticorodal, risulta ora ben 32 mm più lungo di quello montato sulla Yamaha 600 TT e con una straordinaria rigidità.
Naturalmente completamente rivisto è stato il gruppo sospensioni-monoammortizzatore, che ora utilizza componenti della White Power, che, oltre ai materiali, ha fornito al team la propria consulenza. Anteriormente è montata una forcella di 40 mm upside-down. Una soluzione non comune tra le moto dakariane, ma che, a detta dei piloti, ha portato ad un notevole incremento della rigidità torsionale della forcella, assorbendo magnificamente le svergolature che sono impresse all’avantreno quando si affrontano a velocità sostenute buche e oued, o in fase di frenata.
Le piastre, in avional, sono ricavate dal pieno con una lavorazione completamente manuale dalla ditta Martini di Gambettola (FC). Il serbatoio è realizzato in alluminio e diviso in due semi gusci autonomi ancorati al trave centrale del telaio su silent block. Quello posteriore, in kevlar, funge anche da culla, sostenendo sella e pilota. Il travaso della benzina tra i due serbatoi avviene mediante una pompa a depressione, fatta funzionare dal gioco dei flussi d’aria del carburatore al quale è collegata con un tubo di raccordo. La fiancata laterale sinistra del serbatoio centrale presenta un grosso foro per lo spurgo dei flussi d’aria calda del motore ed è provvista di un apposito attacco per la radio balise.
Tra i due semigusci, sopra il trave superiore che funziona anche da serbatoio dell’olio motore, trova posto la batteria, da cui dipende il funzionamento di tutto l’impianto elettrico. Accanto alla batteria è posto l’elemento filtrante dell’aria. Di tipo cartaceo, è proveniente niente meno che dalla Fiat Uno diesel, ed è protetto da una scatola in alluminio forata posteriormente per l’ingresso dell’aria. Sotto la culla anteriore del telaio è posto un piccolo serbatoio contentnente 5 litri d’acqua obbligatori per regolamento.
Le ruote montano mozzi in magnesio e cerchi in alluminio dai canali nelle classiche misure di 2,50×18” e 1,85×21”, su cui sono montate coperture Michelin con mousse sia anteriore che posteriore. I freni sono di provenienza BYRD, con anteriormente un disco di 300 mm e pinza YZ (montata sui modelli cross della Yamaha) a doppio pistoncino e posteriormente un disco di 230 mm con pinza Brembo a doppio pistoncino contrapposto. Sia dischi che pompe sono di tipo flottante. Pignone e corona sono realizzati in lega speciale dalla ditta Chiaravalli, che fornisce al team anche la catena mod. GY520X0, dall’eccezionale robustezza nel corso dell’ultima Paris Dakar non è dovuto procedere alla sua sostituzione!
Il ponte di comando è imponente come quello di un piroscafo. davanti al manubrio in Ergal, che monta comandi e leve originali Yamaha, troneggia il road book MD comandato elettricamente. Sopra e sotto i tue trip master: quello principale della ICO e quello secondario, per i totali chilometrici, di provenienza Honda. Lateralmente è posta una bussola giroscopica di derivazione aeronautica montata su tamponi antivibranti.
Testi e foto Fabio Marcaccini
Il 15 novembre 1992 si sveglia a mezzogiorno.
Guarda il soffitto bianco, il panorama fuori dalla finestra, un televisore appeso in alto nella parete di fronte al suo letto e niente di ciò che ha attorno gli è familiare. L’ultimo ricordo, l’ultimo momento prima di quel risveglio è una Yamaha bicilindrica a gas spalancato nel deserto Egiziano. Apre gli occhi e cerca di collegare i due momenti: quella stanza d’ospedale, bianca ed immobile e quella moto libera e veloce in mezzo al mare di sabbia. Ci mette un po’, chiede a chi gli sta attorno, Arnaldo Farioli e Giacomo Agostini e capisce che quella giornata, quel 6 ottobre 1992 è durata un po’ troppo: quaranta giorni, quaranta giorni di coma, quaranta giorni di sonno profondo. Alla sua Yamaha si è rotta la ruota anteriore e lui è volato a 150 all’ora con la faccia nella sabbia. Quando i medici francesi dell’organizzazione lo trovano, è in fin di vita.
Alessandro De Petri, detto “Ciro” per il suo nasone alla Cirano, oggi è vivo ma è tornato in moto solo per raccontare una storia, scrivere un libro, fare beneficenza e aprire una scuola in Africa. Ci vediamo a Lovere, mi dà appuntamento in riva al Lago di Iseo:
“Se vuoi chiacchierare, ci mettiamo lì a tirare pietre nell’acqua come si faceva da ragazzi. Mi piace venire qui, stare da solo e respirare a lunghe boccate quest’aria pungente di montagna”.
È qui che ha iniziato a correre in moto. Da queste parti non si diventa calciatori, si deve andare in moto, meglio se con le ruote artigliate.
“Da bambino mi mettevo nel bosco per guardare i campioni dell’est con le loro Zundapp e CZ. Venivano qui ad allenarsi. E anch’io volevo salire su quelle mulattiere”.
Eppure, da “cattivo bergamasco”, non inizia con la Regolarità ma con il Cross, in sella ad un vecchio Ancillotti datogli dall’amico Dante Sberna. Ha 15 anni e alle spalle un anno di Gimkana con un Malaguti Cavalcone 50. L’anno dopo ha un’Aspes ufficiale, è il 1972. Glielo prepara Felice Agostini, il fratello di Giacomo. Ciro non ha uno stile pulito ma è un tosto, non molla mai, dove c’è fango, dov’è difficile, ci mette la forza di un toro, la testa di un folle e va avanti. Dove gli altri temono, lui apre la manetta. Continua con il Cross fino al 1977 ottenendo anche un secondo posto nell’italiano 125 poi, fino al 1980, corre nella Regolarità: nessuna grande vittoria ma é sempre tra i primi nell’Europeo e sul terzo gradino del podio per quattro anni consecutivi alla Six Days, prima con la Puch 350 2 tempi, poi con una KTM 500.
Nel 1980, a casa, gli fanno notare che è ora di fare scelte adulte, “di farsi una professione” come dicono i padri. Si iscrive ad odontoiatria, il padre è dentista e rilevarne l’attività sembra la scelta più razionale… Troppo razionale.
Non vuole fare il dentista! Apre un laboratorio ma ha scoperto l’Africa e scalpita, ha bisogna di spazio, aria nuova. con quei molari in mano si sente morire, non è la sua vita. La sua vita è in quella pazzia di Thierry Sabine. È il 1983, ha 28 anni e la sua carriera inizia il giorno in cui Fanali gli dà un Kappone.
Decide di andare, ma non da solo. l’amico di sempre è Federico Forchini. Faceva “il boccia”, il garzone di bottega da Dante Sberna ai tempi dell’Ancillotti ma ora anche lui è cresciuto, è diventato un meccanico vero, i due non si separeranno più fino al 6 ottobre 1992. Ciro va subito forte: è terzo in Marocco all’Atlas, sesto al Faraoni in Egitto e arriva in fondo alla Dakar 1984 (37esimo). Sedici anni dopo la sua prima corsa, diventa professionista. La Honda Racing Division gli offre 15 milioni e una XL620L monocilindrica.
“Non ci ho pensato un solo istante, ho chiuso il laboratorio con tutto che c’era il mutuo da pagare e ho lasciato tutto… Lo rifarei mille volte!”.
Nei Rally minori o cade o rompe la moto come al Faraoni del 1985, quando è in testa ma deve ritirarsi per la rottura del mozzo della ruota anteriore. Alla Dakar del 1985 si ritira con un braccio rotto, a quella del 1986 va meglio, vince sei tappe ed è quinto. Contro i bicilindrici non c’è storia, la Honda NXR 750 va solo ai Francesi, Ciro deve cambiare:
“Nelle tappe veloci c’era da morire col mono, ma BMW mi offrì una moto, non potevo crederci, era come andare alla Ferrari, era la stessa moto di Rahier e Auriol. Ma Roberto Azzalin mi offrì una Cagiva e gli stessi soldi (80 milioni), mi piaceva l’idea, il progetto, le persone. Con lui mi sono sempre trovato bene, eppoi quel motore: ogni volta che aprivi il gas sembrava vomitasse, ne usciva un ruggito da animale preistorico, indimenticabile”.
Andava forte Ciro, spesso troppo. Peterhansel a vederlo restava di pietra. “Tu sei pazzo” gli diceva la sera al bivacco.
“Aveva ragione. Ho interpretato tutta la vita così, quando mi davano il via non capivo più nulla. C’era il rischio che ogni duna potesse essere “rotta”, tagliata dopo la cresta. Gli altri aspettavano di vedere cosa ci fosse dietro prima di decidere cosa fare. lo no, su 300 dune quelle rotte potevano essere al massimo una o due, c’era da rischiare la pelle, ma io davo gas sempre e mettevo una marcia lunga per prendere velocità in discesa. Con questo giochino a vita persa, Peterhansel si prendeva anche 20 minuti a tappa. Lo so che i Rally non si interpretano cosi, però questo era il mio modo di andare in moto, qualunque fosse il rischio e il prezzo da pagare: e in culo la vittoria finale!”.
Nel 1987 arriva la prima vittoria importante, al Faraoni, l’anno dopo vince anche in Tunisia, alla Dakar cade e si fa male. Nel 1989 vince ancora Egitto e Tunisia ed è terzo alla Dakar del 1990 dietro a Orioli e Mas vincendo 6 tappe. I rapporti in casa Cagiva sono buoni, Azzalin ogni tanto lo insulta, soprattutto quando Ciro gli chiede 80 volte le stesse cose.
Azzalin comunque lo apprezza, Ciro si allena come un pazzo, in palestra, in bici. in moto. Con Franco Gualdi, che guida la moto d’assistenza, si allena a smontare il motore Ducati da una moto all’altra. Impara a farlo in un’ora e mezza, niente nei rally di quegli anni. Ma cede alla corte della Yamaha, che gli offre una YZE750 bicilindrica. Vince subito in Egitto, per la terza volta, e cade ancora alla Dakar che non vincerà mai pur entrando nella leggenda.
Sentite Nani Roma: “Ho i brividi ogni volta che rivedo quelle immagini di Ciro e di Danny Laporte in Niger. Si superavano sul filo dei 200 all’ora in una lotta pazzesca. Assurda. Andavano fuori pista a cercare vie impossibili senza mai chiudere il gas, per ore. C’è un’immagine indelebile nella mia memoria: un sorpasso dei due a Medardo con la Gilera. I due lo passano a manetta spalancata che Medardo sembra fermo e lo riempiono di polvere e pietre. Credo che quel duello sia il momento più terrificante della storia della Dakar”.
Il 1991 è secondo al Rally di Sardegna e vince insieme a Cavandoli la Baja Aragon in Spagna, il 1992 è l’anno dell’incidente e del difficile recupero. Ma nel 1994 decide di tornare alla Dakar. che quell’anno parte e arriva a Parigi.
Corre da privato con una Cagiva Elefant, non punta alla vittoria, ha motivazioni diverse. Nel casco ha sistemato un registratore. vuole raccontare una storia per un libro. Il titolo è Dakar Borderline, esce nel 2002 e rientra nel progetto “Le Scuole del Deserto” e la sua vendita contribuisce alle costruzione della scuola di Assoda in Niger. Parte per Parigi direttamente da casa, in moto, sotto la neve con una tuta riscaldata della Dainese e conclude 31esimo.
“Di tutte le Dakar ricorderò soprattutto la forza di Peterhanser il più forte per testa e manetta; la bontà di Beppe Gualini, un privato sempre nella merda ma pronto ad aiutarti anche se stava peggio di te; la velocità di Danny Laporte. Sono stati anni bellissimi di corse straordinarie. Quello spirito va recuperato”.
Hai mai avuto paura?
“Se ci fosse la paura, le corse non esisterebbero. Ho paura dell’apatia, dello stare fermi, ho paura per i miei tre figli, mi sembra che il mondo stia prendendo una brutta piega e non ci sono segnali di miglioramento. Non ci sono certezze”.
Ciro si fa scuro in viso, restiamo in silenzio e gettiamo un altro sasso dentro l’acqua. Per rompere il silenzio mi guarda e mi dice:
“andiamo ti porto nella Indianapolis dell’Enduro”.
Lascio un sasso che ho nella mano e lo guardo con dipinto in faccia un punto interrogativo.
“Andiamo sul monte Pora, nel cuore delle Valli, dove l’enduro è quello vero”.
Ma é quasi buio, sarà per la prossima. Con Ciro si sta bene: motociclista delinquente e uomo saggio.
Intervista di Guido Conter
fonte: archivio di Motociclismo.
Un ringraziamento speciale all’amico Alfredo Margaritelli che ci ha fornito il materiale.
In questa traversata di gruppo del 1992 riconosciamo #10 Sotelo, #90 Mas, #89 Lalay, #95 Morales e poco più indietro #92 Orioli.
Un bel mucchio selvaggio sul traghetto durante la Dakar 1992. Si riconoscono Edi Orioli, Gilles Picard, Thierry Magnaldi, Marc Morales, Gilles Lalay…
Questa bellissima foto vede ritratti i nostri eroi in attesa di un trasporto durante la Dakar 1992. Da sinistra: #72 Chanteloup, #76 Berhudes, #75 Heitz, 79 Flament, #87 Gualini, #92 Orioli, #61 Montebelli, #56 Meoni, #34 Cultera
Una delle Gilera più belle, la RC 750!
Un ringraziamento speciale a Clemente Chiappa per le foto fornite.
Era la prima volta che la Kawasaki 500 KLE , presentata alla fine del ’90 al Salone di Colonia, veniva schierata al via del più importante rally africano. Dunque non mancavano le incognite, ma la Kawasaki-Italia aveva lavorato con cura cercando di prepararsi al meglio all’impegnativa maratona, anche se la decisione di gareggiare nella categoria marathon aveva imposto di restare il più vicino possibile al modello di serie. Le due KLE di Surini e Maletti avevano conservato il loro motore standard, un bicilindrico parallelo a quattro tempi di 499 cm3, con distribuzione a doppio albero a camme in testa e quattro valvole per cilindro, misure caratteristiche 74 x 58 mm e cambio a 6 marce.
Sulla ciclistica invece era stato possibile lavorare, perché nonostante il vincolo del telaio di serie, doppi culla in acciaio, il regolamento permetteva di intervenire sulle sospensioni, a patto di mantenere i leveraggi originali della posteriore e foderi e steli di serie per la forcella. Totalmente nuove invece le parti della carrozzeria, con un grande serbatoio anteriore e due piccoli posteriormente, per una capacità totale di 54 litri di benzina. Per la gestione delle moto il team Kawasaki-IP che aveva come sponsor principale l’Italiana Petroli, si era affidato al Team Assomoto: la squadra di Bruno Birbes era una delle più organizzate a livello nazionale, ed aveva una percentuale di piloti portati al traguardo nella Dakar del 79%.
Come mezzi d’assistenza ci si era affidati ad un camion Liaz 154-111 ed un’auto Range Rover 3900. Particolare curioso, l’auto per l’assistenza veloce era guidata da Davide Pollini, presidente e responsabile logistico e finanziario del team Assomoto, che aveva alle spalle un paio di Dakar in moto, ed una in auto nel 1991.
I PILOTI:
29 GUIDO MALETTI È stato uno dei primi italiani a dedicarsi ai grandi rally africani, e nell’87 riuscì ad ottenere un ottimo undicesimo posto nella Parigi-Dakar Reggiano, 33 anni, vanta numerose esperienze nell’enduro nazionale; fu pilota ufficiale Kawasaki-France nella Dakar ’90 mentre nell’edizione successiva non corse. Di nuovo in gara con la Kawasaki, punta soprattutto sulla regolarità e sulla capacità di sbagliare poco, quelle che sono le sue doti migliori.
30 WALTER SURINI Denti stretti e tanta fatica per portare a termine lo scorso anno la sua prima Dakar. Ma ce la fece, e questa volta ci riprovava come pilota ufficiale della Kawasaki-Italia. La sua esperienza rallistica però non si limitava alla classica africana: tra i suoi risultati di maggior prestigio una vittoria nell’Incas Rally ’88, quando riuscì da privato a battere diversi ufficiali, e buoni piazzamenti nuovamente in Perù ed in Sardegna, oltre al successo nel Rally della Repubblica Dominicana del ’91. Bergamasco trentunenne, pilota d’elicottero, aveva vinto diversi campionati nazionali di enduro, endurance e junior.
Ndr: entrambi i piloti si comportano egregiamente, terminando entrambi la competizione, dimostrando la serietà del Team e la bontà della moto portata in gara. Maletti e Surini conclusero rispettivamente 19° e 20° nell’assoluta (4°e 5° nella categoria Marathon vinta da Massimo Montebelli).
fonte: motosprint
Pagina pubblicitaria su Motosprint 1992 che celebra la vittoria di Massimo Montebelli nella categoria Marathon della Dakar.
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