Il ritiro del guerriero – Edi Orioli Dakar 1998
Tanti problemi come nella Dakar 1998, Edi Orioli non li aveva mai avuti, e un’incrinatura del basamento – provocata da un sasso (!) che ha trafitto la protezione in carbonio – ha messo la parola fine alla gara del campione friulano. E all’atteso ritorno della BMW, che dopo tante partecipazioni e vittorie con le vecchie bicilindriche boxer, ha iniziato a sviluppare una monocilindrica derivata dal BMW-Rotax della F650.
Una moto che per motivi d’immagine è stata schierata in forma ufficiosa, anche se ormai è chiaro a tutti che dietro i bellissimi prototipi utilizzati c’è la volontà della Casa tedesca di tornare a essere protagonista nella maratona africana.
Ma la Dakar non è più quella di una volta, quando esperienza e soprattutto capacità di orientamento e navigazione facevano la differenza.
«Con l’introduzione del GPS (il ricevitore satellitare per orientarsi) ora non ci si perde più – ci conferma Orioli al suo ritorno in Italia – e praticamente si viaggia continuamente a manetta. Ho visto piloti tirare da mattina a sera come dannati, e mi stupisco come i vari Roma, Haydon, Cox siano ancora tutti interi. Con il GPS fornito dall’organizzazione quest’anno avevamo dieci way-point.
Troppi, così non si perde nessuno. Per la prossima edizione ho chiesto di ridurli a tre, perché altrimenti si snatura completamente la filosofia di questa gara. Non dico di eliminare il GPS, tutto sommato è una sicurezza in più, ma non si deve ridurre la Dakar a una lunghissima gara di motocross».
Se non ti fossi presto ritirato avresti potuto concludere degnamente?
«Di sicuro. Alla fine con un poco di calma ed esperienza sarei riuscito a salire facilmente sul podio. Purtroppo noi della BMW abbiamo avuto problemi col GPS (fornito dall’organizzazione) fin dal primo giorno e, dopo aver provato tutti i collegamenti possibili, abbiamo provato a sostituirlo con la versione destinata alle auto. Niente da fare. Sulla BMW s’innescavano interferenze e disturbi di natura elettrica che non abbiamo ancora compreso.
Poi un sasso è passato fra serbatoio e piastra di protezione motore e mi ha crepato il carter. Me ne sono accorto al controllo timbro, quando ho visto lo stivale sporco d’olio. Avrò fatto almeno 80 km a tutto gas e l’olio era finito. Spento il motore, non è più ripartito».
Dopo questa prima esperienza con la monocilindrica BMW, cosa chiederai ai tecnici tedeschi per il prossimo anno?
«Un po’ di potenza in più, e soprattutto un telaio con una distribuzione dei pesi meglio centrata e un avantreno leggermente più caricato. Anche l’impostazione di guida è da sistemare perché non riuscivo a spostarmi in avanti come avrei voluto. Un serbatoio più snello risolve-rebbe il problema. D’altronde queste erano cose che sapevamo già prima di partire, ma non si è fatto in tempo a realizzare nuove sovrastrutture».
Ma è possibile vincere la Dakar con una monocilindrica?
«No, almeno fino a quando le bicilindriche saranno affidate a piloti come Peterhansel. Se l’anno prossimo i prototipi bicilindrici non saranno più ammessi al via, le cose cambieranno. Per questo credo nella BMW e nel suo programma di sviluppo. E partecipare già da quest’anno è stata una scelta corretta, così abbiamo già fatto esperienza sul campo. E solo chi ha partecipato alla Dakar può comprendere quanto questa sia importante».
Con Peterhansel non avresti comunque potuto lottare, neppure se tutto avesse funzionato al meglio?
«No, perché guidare una bicilindrica come la Yamaha significa avere sempre un margine da gestire. Sulla sabbia la BMW non supera i 150 km/h, e per preservare un po’ la meccanica tenevo un piccolo margine, viaggiando sui 140 km/h. Con la Yamaha, Peterhansel già guada-gnava viaggiando sui 160; con quella moto io ho provato a toccare 197 km/h effettivi e, tanto per dare un’idea, con le Cagiva ufficiali arri-vammo a toccare i 208 km/h. Oggi queste velocità non servono quasi più, ma un po’ di potenza in più fa sempre comodo. Con le monocilindriche questo margine non esiste, si viaggia costantemente vicino al limite della moto e questo non è un bene neppure per la meccanica. Sicuramente sono moto più leggere: credo che la mia BMW pesi sui 170/175 kg senza benzina e i serbatoi ne contengono solo 45 litri. Ma il risparmio di peso rispetto alle due cilindri non è sufficiente per fare la vera differenza».
E rispetto alle altre monocilindriche co-me le KTM?
«Ci manca ancora qualcosina, ma non è un grosso problema. La mia BMW alla sua prima partecipazione la giudico già all’80% e questo penso sia un grosso risultato. Purtroppo a Dakar non ci sono arrivato, ma la moto è valida».
Tu hai corso con la versione dotata di leveraggio progressivo al monoammortizzatore?
«Sì ed è stata la scelta giusta, come per la forcella Showa preparata da Poletti (quelle della Suzuki cross con steli da 50 mm, ndr) e per l’ammortizzatore dell’artigiano francese Donére, che sarà anche meno confortevole ma è sicuramente superiore a quelli tradizionali».
Di che si tratta?
«E’ un ammortizzatore che invece di avere all’interno la solita serie di lamelle ha un sistema idraulico molto originale, con valvole e galleggianti che si occupano dei passaggi dell’olio. La differenza più importante è nella migliore trazione che offre. Lo usano anche Peterhansel e le Mitsubishi ufficiali. E’ complicato da mettere a punto ma, una volta trovata la giusta taratura, è formidabile».
Che impressione hai avuto di questa rinnovata Paris-Dakar?
«Auriol è una garanzia, l’esperienza non gli manca e ha lavorato bene. Ma ci sono stati problemi incredibili con i cronometristi; in tutte le mie partecipazioni non sono mai stati così approssimativi. Hanno mostrato una superficialità disarmante. Infine mi è mancata l’Algeria; percorsi come quelli non ne troveremo più e il Marocco da attraversare non è per niente divertente».
Testo di Giuseppe Gori per Motociclismo