Mario e Giorgio hanno fatto per me la fila al telefono, chiamandomi una volta arrivato il mio turno. C’è voluto un po’ di tempo per parlare con Paola perché l’operatrice faticava a prendere la linea internazionale ed ha dovuto ripetere più volte il numero. Da tre giorni mia moglie riceveva mie notizie in maniera frammentaria, ma tutto sommato rassicuranti. Abbiamo parlato poco, disturbati dalla presenza della gente in coda. Mi offrono un’altra sigaretta e la fumo volentieri mentre rispondo alle domande ed ai saluti di chi non si aspettava di vedermi varcare la soglia del Sofitel Gaweye Hotel di Niamey. Quando finalmente andiamo a mangiare è passata la mezzanotte. Il ristorante dell’albergo sta chiudendo, ma accetta di fare uno strappo alla regola. E’ elegante e pulito: io invece ho ancora addosso la tenuta da gara, stivali compresi.
Tocco il gri gri de la bonne route, il portafortuna che da cinque anni, da quando partecipo ad una gara in Africa, ho sempre legato in vita, e non posso non ammettere che il suo ruolo di «guida» lo ha svolto anche questa volta. Non mangio da quattro giorni, ma non ho fame e me ne meraviglio un po’ Sento piuttosto di avere lo stomaco bloccato. Però quando arriva il salmone affumicato lo divoro in un battibaleno e faccio altrettanto con il filetto ai ferri e le patatine fritte. L’ultimo pasto, se così si può chiamare, l’ho fatto la sera del 2 gennaio a Termit dividendo un pezzo di pane e un po’ d’acqua con Roberto Boano. Al campo non c’era il camion dell’Africatours e quindi eravamo rimasti senza cena. Non hanno portato neppure l’acqua e l’unica razione che sono riuscito a trovare è stata il mezzo litro datomi dal camion di assistenza del-l’Aprilia. Con quella sono partito verso Agadez la mattina del 3 gennaio.
Intanto intorno a me cresce il numero delle persone che vuole ascoltare la mia storia di «sopravvissuto» e comincio a raccontare ritornando con la mente a poche decine di chilometri dalla partenza… La mia Honda inizia a scoppiare, poi si spegne. Penso siano i getti intasati, oppure il filtro della benzina sporco. Pulisco gli uni e l’altro, e riparto per una pista con molte tracce. Perlomeno di qui passerà qualcuno. Mi dirigo verso la Falaise di Termit fino a quando, in prossimità di una grande duna, le tracce tagliano verso est. Le indicazioni del road book però sono diverse e decido di seguirle. Non sono il solo, sulla sabbia vedo i segni del passaggio di altre tre moto.
Il motore si spegne di nuovo poco più avanti e di nuovo riparte una volta puliti i getti ed il filtro della benzina. Raggiungo un erg pieno di dune e il motore si spegne ancora. Il vento soffia forte, e quando ho ultimato l’ormai rituale operazione di pulizia del carburatore, ha cancellato completamente le tracce. Decido di tornare indietro, di riprendere la pista più battuta. Quando raggiungo l’oued di Egadò è ormai buio, così decido di fermarmi lì per passare la notte. Sono solo e mi metto a lavorare sulla moto con tutta calma, sparpagliando i pezzi un po’ dappertutto. Smonto la sella, pulisco il filtro dell’aria, il carburatore. Non ho ancora finito di rimontare quando mi si avvicinano silenziosi tre ragazzi, vestiti con abiti chiari. Mi sono ostili, ma me ne rendo conto soltanto una volta che se ne sono andati portando con loro i miei guanti, altre cose che avevo sparso in qua e in là e soprattutto la borraccia con il suo prezioso contenuto d’acqua. Ci mancava anche questa. Mi consolo pensando che ho ancora con me il sacco a pelo.
Alle prime luci del giorno sono già in piedi. Riavvolgo in fretta il sacco a pelo, do un’ultima controllata e metto in moto. Percorro l’oued fino a quando non incrocio le tracce lasciate dal passaggio della gara. Sono sulla pista giusta. Altri quindici chilometri e la moto si ferma di nuovo. Questa volta definitivamente. Si è rotto l’alloggiamento in ottone del getto del massimo. Con il carburatore in queste condizioni è un’utopia pensare di ripartire. Continuo sconsolato a lambiccarmi il cervello sul carburatore, poi mi decido ad accendere la balise. È una cosa che non vorresti mai fare. Come scatta l’interruttore sei ufficialmente fuori gara. La tua Dakar è finita. Ma considerato che mentre la corsa è ferma ad Agadez per la giornata di riposo io sono bloccato qui non vedo alternative possibili. Azioni il fatidico interruttore e mi meraviglio un po’ perché la spia rossa rimane spenta. Mi convinco che si accenderà soltanto per segnalare le ultime sei ore di autonomia della batteria che ne comanda il funzionamento, e che la TSO è già a conoscenza della mia posizione. Non saprò mai durante i giorni passati nel deserto che la balise è rotta e non manda alcun segnale.
Dopo un paio d’ore ho piuttosto la prova del contrario quando vedo passare sopra la mia testa un aereo dell’organizzazione che si accorge di me e mi invia un messaggio. Devo scrivere il mio numero di gara sulla sabbia, e restare vicino alla moto. Sono sulla pista giusta e il camion scopa verrà a prendermi. L’aereo se ne va senza lasciarmi provviste. Niente da mangiare e soprattutto niente da bere. La sete comincia a farsi sentire e la poca acqua che avevo se la sono portata via i tuareg. Però mi hanno localizzato e manderanno i soccorsi. Comincio a fare congetture sul camion balai, su quanto tempo passerà prima del suo arrivo. Cavolo, mi dico, ho perso la gara, ma pazienza. Anche Gualini è ritirato e sarà ad aspettarmi ad Agadez. Una volta insieme potremmo ritornare sulla pista, con il camion della assistenza, potremmo recuperare la moto, aggiustarla, ed attraversare il Ténéré da turisti. Non l’ho mai fatto e l’idea mi affascina. Dopo possiamo proseguire fino a Dakar, imbarcare le moto e tornare in Italia.
È solo uno dei miei tanti pensieri. Nella testa ne frullano a migliaia ed il tempo non passa mai. Ripenso ad un libro sulla vita dei tuareg e di come questi passino intere giornate nel deserto immobili come pietre. Cerco di imitarli, ma con misero effetto.
Mi scopro a contare i minuti, i secondi e con il lento scorrere delle ore la mia fiducia di vedere apparire il camion della salvezza comincia ad affievolirsi. Col buio la sensazione di isolamento è anche maggiore, e diminuisce la speranza. Comincia anzi a prendere corpo la consapevolezza di poter morire. Non paura, rassegnazione.
Prego, piango, mi dico che non ho dato alla gente cui voglio bene tutto quello che meritava. Penso molto, troppo. Soffro pensando che mia moglie resterà da sola. Faccio testamento, dettando le mie ultime volontà sulle pagine dell’agendina che ho dentro il portafoglio. Non è un vero testamento. È una lettera per Paola. Una lettera d’amore. Riesco anche a prendere sonno e quando dormo sogno cascate, vasche da bagno, acqua minerale. Soltanto sogni acquatici, ma si può capire. Patisco la sete ancor più della solitudine. Al levar del sole inizia la mia terza giornata da disperso. Sono sempre più pessimista sulle possibilità di venire ritrovato. Comincio a pensare che il camion balai potrebbe essere già passato due giorni prima nel punto in cui mi trovo ora. Passato di qui mentre mi trovavo accampato sull’oued a una quindi-cina di chilometri di distanza. Potrebbe anche essere finito fuori rotta, come in effetti è stato, e non passare mai più a riprendermi.
Passo la mattinata a scervellarmi, poi decido di muovermi. Domani potrei essere troppo debole per farlo, oggi invece tornando indietro per una quindicina di chilometri ritroverò l’oued dove ho incontrato i tuareg e forse troverò da bere.
Sono ormai tre giorni che non bevo, le labbra sono secche e mi brucia la gola. Riordino tutte le mie cose, e prima di partire traccio una grossa freccia, con la punta rivolta nella direzione in cui mi incammino. Quindi mi carico sulle spalle il sacco a pelo. Da quello proprio non voglio separarmi. In moto mi era sembrato un tragitto molto breve. A piedi è una marcia tremenda. Cammino piano per ri-sparmiare energie. Quello che mi interessa è arrivare prima del buio.
Sono più fortunato di quanto mi aspettassi. Dopo sei ore di marcia raggiungo l’oued ed anziché i tuareg truffaldini trovo una famiglia molto gentile e ospitale. L’uomo è vecchio, molto più vecchio della donna che vive insieme a lui ed a cinque bambini, tre maschi e due femmine. Non parlano francese, ma ci intendiamo a gesti. Capiscono che ho molta sete e mi danno da bere. Non acqua, come sto sognando da tre giorni, ma latte di cammello. E munto dalla mattina e si è rappreso nel suo contenitore metallico. Ha un sapore acido, forte, quasi disgustoso, ma è la mia salvezza. La bambina più piccola è malata, ha la febbre. Mi offro di darle un’aspirina ed il padre accetta. Mi rendo conto di come questo incontro abbia allentato la tensione, di come abbia riacceso la speranza. Non sono più solo. Sono soltanto abbandonato. Ora devo trovare un modo per togliermi dai guai. Da un difficile dialogo con il tuareg emergono indicazioni precise. Si può raggiungere Agadez viaggiando per dodici giorni a dorso di cammello oppure incrociare la strada asfaltata a Tanak e in questo caso il tragitto è molto più breve: solo cinque giorni.
Decido di accordarmi per partire l’indomani mattina verso Tanak e mentre cerchiamo di capirci appaiono i tre tuareg che mi avevano rapinato. Spiego al vecchio la mia disavventura ma me ne pento perché subito pretende che mi venga restituito il maltolto. Ne nasce un violento ed incomprensibile diverbio seguito da un inizio di rissa, ma fortunatamene ci si ferma alle minacce. Mi viene restituito tutto, tranne la borraccia che hanno lasciato al loro accampamento, distante una decina di chilometri. I miei tentativi di spiegare che non è la borraccia ad interessarmi ma soltanto tornarmene a casa il più presto possibile cadono nel vuoto.
Il tuareg ne fa una questione di principio e domani partiremo a dorso di cammello soltanto dopo averla recuperata.
Una operazione che comporte-rà un’inutile camminata supplementare, ma la mia guida non vuole sentire ragioni. Intanto passo il tempo rendendomi utile. Riparo una borraccia realizzata con una camera d’aria da camion utilizzando le pezze che avevo con me per rimediare ad eventuali forature. Un’operazione che accresce la mia popolarità in famiglia. Vivere da tuareg mi affascina e mi sorprende.
Non mangiano niente. Si nutrono di latte di cammello, tè, che bevono più volte al giorno seguendo un complesso cerimoniale. A preparare la bevanda è l’uomo. Fa scaldare un contenitore d’acqua nella cenere. Una volta calda, la travasa in un altro recipiente con le foglie di tè e da quello ad un altro ancora. I travasi si susseguono all’infinito prima di arrivare finalmente ai bicchieri. Il padre realizza delle corde utilizzando fasci d’erba. La mia prima notte da tuareg non è così dura come le due da disperso. Ci vorrà tempo e pazienza, ma riuscirò a raggiungere l’asfalto e la salvezza. A dorso di cammello. L’indomani vorrei partire all’alba, ma c’è la borraccia da recuperare e nel portare a termine la missione se ne va quasi l’intera mattinata. I tuareg,non hanno fretta e sono lenti, lentissimi. E inutile che mi agiti. Ormai sono uno di loro e mi devo adeguare ai loro ritmi. Piuttosto cerco di imparare a cavalcare il cammello, ma non è facile. Sarei pronto per la prima tappa, ma ancora non si parte.
Passa mezzogiorno e continuo a guardare l’orologio. Sono le 12.35 quando mi passa sopra la testa un aereo della Dakair. Non ci speravo più. Lo guardo, ma non cerco di attirarne l’attenzione. Lo guardo fisso e non penso neppure per un attimo all’eventualità di non essere visto. Passa su di me una seconda volta e capisco che devo segnalare la mia presenza. Comincio ad agitarmi, e scrivo il mio numero sulla sabbia. Segnalo anche che ho bisogno di viveri. Mi viene buttato un messaggio ed una razione energetica. Nel foglietto, raggiunto dopo mille peripe-zie, c’è una promessa rassicurante: «tra un’ora e mezza verrà a prenderti l’elicottero». Sono certo che questa volta manterranno la parola. Il mio amico tuareg potrà fare a meno di scortarmi a Tanak ed io rientrerò ad Agadez a tutta velocità. L’elicottero è puntuale e prima di salirvi abbandono al vento il testamento.
Quando atterriamo ad Agadez i responsabili della Dakair, che hanno coordinato le ricerche, sono felici quanto me che questa brutta avventura sia finita. Anche loro hanno dormito pochissimo e sono stanchi. Stappano una bottiglia di champagne e basta un bicchiere a farmi girare un po’ la testa. Poi partiamo tutti alla volta di Niamey. Insieme a me c’è Beppe Gualini che ha collaborato con Dakaír alle operazioni di soccorso seguendo soprattutto le mie ricerche. In poche ore sono davanti al filetto ai ferri con le patatine ormai al sicuro. Cerco di rispondere a tutte le domande e penso che sarei molto più felice se si interessassero a me perché sono riuscito a vincere una tappa, magari solo per un colpo di fortuna.
Penso che non avrei voluto lasciare la moto nel deserto, perché Mario, il mio meccanico, aveva lavorato tanto per prepararla alla gara. Era una bella moto, ma vecchia. È solo per questo che si è rotta. Perché era vecchia.
Penso anche che questa esperienza mi abbia dato molto, più che se avessi finito la gara, che le foto scattate con l’automatica insieme ai tuareg saranno tra le più preziose del mio album. Penso che questa esperienza abbia lasciato il segno, che qualcosa in me sia cambiato. Se tornerò alla Parigi-Dakar? Lasciatemi un po’ di tempo per pensarci.
ALDO WINKLER – PARIS DAKAR 1989
fonte motosprint
foto motosprint e archivio fb Aldo Winkler